La nervatura tecnica di una ricerca spirituale

Chi sei tu? di Antonio Panzuto

Pubblicato il 04/01/2016 / di / ateatro n. 157

Un Gesù bambino nero, scheletrico, fatto di legni, ferri, stracci prende vita in una striscia di deserto, sul confine di juta tra la materialità del teatro e la sua forza immaginifica. Un uomo – che sarebbe brutale definire il manovratore, perché proprio solo un uomo vuol essere, cerca di essere – lo aiuta ad alzarsi, lo sorregge con riguardo, senza preoccuparsi di rivelare, insieme alla propria presenza, i meccanismi della scena. È la scelta sempre coraggiosa di Antonio Panzuto, la sua cifra artistica affinata in spettacoli di rapinosa magia, come Le mille e una notte, Haiku o Metamorfosi, solo per ricordarne qualcuno.
Chi sei tu?, la nuova macchina teatrale dell’artista padovano con la regia di Alessandro Tognon è, ancora una volta, abitata da oggetti e figure azionate a vista, manipolate, mosse da fili e bastoni, contrappesi e controcanti, carrucole e carezze. Figure che scendono sulla terra, che salgono al cielo. Testimoni e messaggeri, angeli e bestie. E il protagonista è proprio un asino a grandezza naturale che si muove su rotelle e racconta a modo suo la storia di Gesù. A questo Vangelo dell’Asino Paziente danno voce fuori campo Giuseppe Panzuto e gli abitanti di un paese in provincia di Salerno, Laurito, coinvolti nella costruzione dello spettacolo. Dopo il debutto al festival dei Teatri del sacro e dopo la “restituzione” al borgo lucano, lo spettacolo è stato presentato al Teatro Verdi di Padova e si appresta a girare.

Chi sei tu? (foto Marco Caselli)

Chi sei tu? (foto Marco Caselli)

Il Cristo filiforme si muove in silenzio lungo le stazioni del racconto biblico. L’asino l’ha seguito senza mai parlare e ne è diventato un discepolo. È lui il ponte gettato tra la nascita del Figlio di Dio e la sua resurrezione, e forse anche per questo si presenta come un agglomerato di legni, corde, vecchi tappeti, rotto dalle fatiche e appesantito dagli anni. Eppure porta in groppa Gesù fino alle porte di Gerusalemme, lo veglia quando deve affrontare il diavolo tentatore, cerca di farlo ridere, gli offre la sua biada. Panzuto ne prepara i movimenti, ne costruisce con pazienza le posture, a volte le doppia, s’inginocchia con lui, cammina al suo fianco e sembra danzare con lui, gli piega la testa e sembra abbracciarlo. Non si tratta, è evidente, di accettare l’inesistenza scenica dell’essere umano in un teatro di pupazzi, ma al contrario di interrogarne la presenza straniante che ripetutamente viola la convenzionalità della relazione tra la marionetta e il suo animatore, e finisce per gettare quest’ultimo sul terreno insidioso dell’attoralità. Una presenza disarmante e mite che, proprio mentre se ne ritrae, mette in questione anche lo statuto dell’attore.

Foto Marco Caselli

Foto Marco Caselli

Mai come in questo lavoro la macchinosità della struttura scenografica, la quantità di oggetti e pupazzi (moltissime statuine africane), i ritmi dell’esecuzione dilatati dai tempi tecnici – tutti tratti tipici delle opere di Panzuto – corrispondono a un’intenzione drammaturgica coerente. Se in altri spettacoli la messa allo scoperto della nervatura tecnica era un dato di poetica e insieme un potente dispositivo di montaggio, qui la ricerca del movimento delle figure in scena significa una ricerca spirituale che muove dal più umile – l’inanimato – per segnare un itinerarium mentis che ritrovi Dio in tutto il Creato. L’interrogazione del titolo – Chi sei tu? – risuona perciò rivolta tanto alla figura sfuggente del Cristo quanto al pupazzo che lo rappresenta, all’asino e a ogni singolo pupazzo, tanto al manovratore che in scena cerca di scomparire quanto all’uomo che vi si espone, all’artista e allo spettatore, all’attuante e al testimone. Il continuo lavorio sulla concretezza dei materiali in scena cerca caparbiamente una forma alle tensioni interiori dell’uomo che, muto tra oggetti muti, muove le marionette e a tratti ne sembra mosso.

Foto Serena Pea

Foto Serena Pea

Nella dimensione della verticalità indagata dallo spettacolo, prevale la tensione verso il basso, perché l’umiltà è l’unico modo che ci è dato per innalzarsi, come spiega Panzuto citando dai Quaderni di Simone Weil: «Il corpo del Cristo era un peso ben lieve, ma la distanza tra la terra e il cielo ha fatto da contrappeso all’universo […]. Mediante la discesa di ciò che appartiene al basso, ciò che appartiene all’alto è innalzato. E noi non abbiamo il potere di innalzare. Abbiamo solo il potere di abbassare. Per questo abbassarsi è l’unica ascensione»

Foto Serena Pea

Foto Serena Pea

Il lavoro è un susseguirsi di quadri disarmanti. Assunto tale stato d’animo per lo spettatore diviene forse più naturale cogliere l’organicità di uno spettacolo che procede per analogie, suggerisce corrispondenze, dipinge visioni di ineffabile semplicità. La barca di Pietro è un legno curvo che salendo alza il mare di tela azzurra, i pescatori-statuine sembrano staccarsi dalle loro ombre; la città emerge a poco a poco, minuscole casette, figure che si moltiplicano sui gradini di lunghe scale di legno: la scena diventa un favoloso presepe africano con la musica di Jon Hassell a impastare sensazioni e richiami; Lazzaro resuscitato è una statuina appesa a un filo che ruota su se stessa srotolando le bende. Ma la scena più emozionante viene verso la fine, quando nell’uomo prevale la compassione per l’asino, e allora toglie il basto all’animale, ne piega le gambe sfilandone i perni metallici – con gesti che paiono l’esatto contrario di quelli che guidano la spada nella tauromachia –, lo porta ad accasciarsi a terra, gli reclina la testa. E si piega con lui in un estremo sacrificio che parla della speranza di redenzione, ma parla anche del senso di questo modo di fare teatro.

Foto Marco Caselli

Foto Marco Caselli




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