L’Horcynus Orca di Claudio Collovà

Pubblicato il 13/06/2016 / di / ateatro n. 158

È difficile uscire da uno spettacolo lirico e fiabesco, abbandonare lo sguardo, lasciarlo cadere dalla tela tessuta dal suo regista, soprattutto se quanto narrato sembra essere stato già vissuto, e appartenerci ancora. Sia esso sogno lirico, o sia una reale alterazione emotiva, è importante non definire le percezioni dello spettatore, ma comprendere l’intenzione e dimensione di una imponente operazione teatrale.
Il Teatro Biondo Stabile di Palermo ha invitato Claudio Collovà a realizzare uno spettacolo a partire da Orcynus Orca: “D’Arrigo è stato conseguenza naturale ai miei lavori su Joyce”, dichiara il regista. Un mese e mezzo di produzione per le scene: Horcynus Orca. Transito e ricongiungimento è andato in scena dal 6 al 15 maggio, a conclusione della stagione, anche se sarebbe più giusto definirlo un inizio. Si tratta di una fiaba che restituisce a tratti la struttura canonica di Propp, ma con l’autenticità realistica delle fragilità dell’animale umano, ben manifesta ed esibita.

Ciccina Circè, i volti-morti, le fere e il dindin

Ciccina Circè, i volti-morti, le fere e il dindin

Lo spettacolo è una opera interattiva da cui è difficile riuscire a uscire: vien voglia di salire sul palco, di rimanere con i personaggi, di perdersi nelle scene, dentro i costumi. Lo spettatore attraversa un mondo per poi tornare in quello del quotidiano non teatrale, ma rimane ferito, scalfito, trasformato ovvero “attraversato”. Tre protagonisti: ‘Ndria Cambria (Giovanni Calcagno), Ciccina Circè (Manuela Mandracchia) e Caitanello (Vincenzo Pirrotta). I loro volti sono parte del paesaggio. Essendo in contatto con una visione pittorica parlante, il figurale, l’esserci con la loro presenza, entra a far parte della visione. L’attore è una delle parti che contribuiscono al paesaggio. La recitazione è uno tra i tanti elementi fondamentali alla riuscita di una opera che narra di nostos e di morte. Calcagno è figura che incede con tenerezza e stupore, incontrando un’attorialità ora feroce ora in ascolto, incarnata da Pirrotta – reso docile e finalmente riconoscibile in una oscenità che lo rende Altro autentico, rispetto alla consuetudine teatrale a cui ci ha abituati. Ha incontrato una nuova possibilità attoriale. A completare questa Sacra Famiglia è la presenza lirica di Mandracchia, madonna e puttana, L’Acitana, la madre-fantasma che suona “dindin” con un elegante campanellino, ammaliando uomini e “fere”, nei panni di Ciccina Circè.
Senza svilire l’importanza di nessun elemento, fondamentale è l’apporto delle luci, che raccontano un transito che è un ritorno in tutte le sue variazioni. “Mi è sempre sembrato che si trattasse di un sogno che si è fatto tante volte”, rivela Collovà. Tutto ha inizio con il colore notturno del transito. Tutto è nero, il cielo è come “bruciato”, ma è blu notte. La nebbia che sale dal mare è infera, diventa fumo. Nella scena dell’incontro tra ‘Ndria e Caitanello, le luci diventano indefinite e liquide come in un antro mitologico, che anticipa la evocazione del dialogo di Aci e Galatea.
Ogni scena porta con sé un odore ora nebbioso e acquatico, ora terreno, o meglio terrigno. Il sapore è quello della materia mortifera. Troviamo le luci notturne della notte insonne di Caitanello, ma anche luci più seducenti ed essenziali, tratto questo consueto nella poetica di Collovà: sembra quasi provengano da guglie di cattedrali che illuminano la macchina infernale della morte, il sacrificio, estremo e finale, dato anche dalla orca crocifissa. Nino Annaloro, autore di questa drammaturgia della luce, “conosce molto bene il mio teatro e abbiamo fatto molte cose, è il mio fotografo, è stato in perfetta sintonia con il mio senso della pittura, con il passare delle varie fasi di transizione. Le tre cantiche sono state dotate di luci differenti, passaggi di sostanza ma non si è mai trattato di illuminazione di persone”, spiega il regista e drammaturgo.
Ma cos’è questo mostro che campeggia maestoso nella scena finale?  È il pubblico a rivelarlo: qualcuno applaude, qualcuno si alza commosso. La tensione e partecipazione è viva per tutta la durata dello spettacolo, seguendo un corso onirico, fino alla fascinazione finale della morte, che neutralizza gli esseri umani e li rende soli, come ‘Ndria, che con sguardo interrogativo si volge al pubblico, prima di abbandonarsi allo sparo decisivo. Ma questo mostro non è solo tragico: è anche grottesco, ridicolo, come un grosso giocattolo abbandonato sulla spiaggia, la carcassa è ciò che rimane poco dopo: solo uno scheletro “scodato”.
Questo spettacolo-visione è un viaggio di transizione dalla vita alla morte e viceversa, con una precisa collocazione temporale, riconoscibile fin dal primissimo video. Alessandra Pescetta, sensibile regista cinematografica, ha contribuito all’opera con inserti video, oceanici, portentosi, tracciando segni storicamente precisi: una foto del duce, pezzi di divise militari, il bouquet di Molly Bloom, forse lei stessa o Ophelia (chissà?). Le luci sui volti degli attori, immersi in un’acqua paludosa, richiama la “poetica dei lavaggi” di Collovà, lo stesso volto del regista riconoscibile tra gli altri. Anche Pescetta è medium di bellezza e spaesamento. Il ciclo della vita di ‘Ndria è storicamente esatto, riguarda la possibilità di rinascita per il suo quartiere. Il sacrificio di ‘Ndria ha senso perché permette la resurrezione di un luogo: la città di Messina, la sua Ganzirri, il rione dei pescatori, lo Stretto con il suo improbabile abbraccio di falce…  È quel modo di incedere nella parola e nei passi, quel senso di perenne morte, anche contemporaneo, che spiazza lo spettatore, e lo spettatore messinese in particolare. La verità di una città è descritta da un regista che ha un linguaggio tutt’altro che siciliano, ma che lasciandosi attraversare da un tempo visionario rende palpabile uno spazio reale. Lo spettacolo segue la vicenda narrata nel romanzo di Stefano D’Arrigo. Per questo i costumi sono del ’43, per questo si racconta dei morti della guerra mondiale: “Se dovessi raccontare i morti di oggi”, sostiene Collovà, “potrei raccontare i morti di un romanzo, se non fossero visione anch’essi non avrebbero nessun valore poetico forte, nessun coinvolgimento emotivo”. Va tuttavia precisato che non si è però messo in scena D’Arrigo, Joyce o Eliot, ma qualcosa di diverso: la generazione di un mondo.
Racconta Collovà:

“Questo spettacolo esiste perché io sono pervaso dall’opera di D’Arrigo con eccitazione. Lavorare come un invasato, direbbe Bacon, serve a creare, a generare. Ho capito moltissime cose ascoltando le sue parole e leggendo le interpretazioni critiche su di lui come scrittore, ho capito ciò che era importante, la parzialità alla quale mi dovevo dedicare. Ho accettato fin dall’inizio il fatto che lavorare con Horcynus Orca, significava capire cosa avrebbe preso il sopravvento. Questo è stato dato dalla sacra famiglia: padre, figlio, Ciccina Circè e L’Acitana. Una sacra famiglia laica ma spirituale che conduce ‘Ndria alla morte nello spettacolo”.

Per tale ragione è evidente che venga ribadita, anche in questo lavoro, la manifestazione di una soglia, costituita da tre spazi, uno prospiciente lo spettatore, uno invisibile dove avviene tutto e che si colloca posteriormente e la soglia liminare, quest’ultima incarna il sacrificio, la famiglia, la solitudine, lo smarrimento. Così troviamo anche in questo tre dimensioni: tre sembrerebbero i protagonisti, ma è in realtà lo spettatore, come lo è per l’Ulisse di Joyce il lettore. Sarà per questo che è difficile riuscire a restituire una verità di quello che appare come una possibilità di elevarsi alla semplicità. La scala che va oltre il cielo e il teatro è di ferro come tutti i rottami con cui sono state costruite le scene e i costumi di Enzo Venezia, con forti riferimenti alla pittura e all’arte visiva. I sacchi di Alberto Burri sono evocati nella prima scena, ricorre la tematica delle Crocifissioni indagate e riprodotte nelle posture attoriali, suggerite dai dipinti di Caravaggio; William Turner e Francis Bacon hanno indubbiamente influenzato le scelte registiche in merito alla disposizione della luce nebbiosa e speculare in maniera infera. Annunciano e accompagnano lo spettacolo le note di Giuseppe Rizzo. Non descrivono, non recano tappeto sonoro, si tratta piuttosto di demoni che si animano e invitano lo spettatore a giocare, a salire quella scala, per lasciarsi precipitare “come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare”.

Horcynus Orca

Transito e ricongiungimento

di Stefano D’Arrigo

drammaturgia e regia Claudio Collova’
con Vincenzo Pirrotta, Manuela Mandracchia, Giovanni Calcagno
scene e costumi Enzo Venezia
luci Nino Annaloro
musiche Giuseppe Rizzo
video Alessandra Pescetta
produzione Teatro Biondo Palermo




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InformazioniVincenza Di Vita

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