L’alluvione messa in opera

Aquagranda di Roberto Bianchin e Filippo Perocco in prima assoluta al Teatro la Fenice di Venezia

Pubblicato il 15/11/2016 / di / ateatro n. 159

C’è il vento, l’acqua, il respiro della laguna di Venezia nella musica di Filippo Perocco. E c’è il passo, il gesto, la postura dei pescatori di Pellestrina nelle scene di Damiano Michieletto. Eppure né l’uno né l’altro hanno lavorato semplicemente per moduli didascalici, cercando piuttosto di restituire nello sviluppo complessivo di Aquagranda – l’opera commissionata dal Teatro La Fenice nel cinquantesimo anniversario dell’alluvione della città – un clima liquido e una dimensione di instabilità, di sgretolamento, di provvisorietà. L’inquietudine è costantemente traslata e concettualizzata in una partitura che prevede tensioni e contrasti, talora anche eclatanti, tra lunghe rarefazioni e improvvisi aggrumarsi di materia sonora, tra il profilarsi di voci nervose che si ostinano a tentare una cantabilità sfuggente e i movimenti reconditi del coro, voce atavica, genius loci lagunare. La precarietà è anche fisicamente oggettivata nella disposizione del coro su nere strutture a gradoni ai due lati del palco, fin dentro la platea, come i monconi di una diga travolta dal mare che in scena sale inesorabilmente all’interno di una parete di vetro, una vasca che funge anche da schermo.

Fondazione Teatro La Fenice AQUAGRANDA Musica: Filippo Perocco Direttore: Marco Angius Regia: Damiano Michieletto Photo ©Michele Crosera

Fondazione Teatro La Fenice AQUAGRANDA
Musica: Filippo Perocco Direttore: Marco Angius
Regia: Damiano Michieletto
Photo ©Michele Crosera

Semplificando la narrazione cronachistica di Acqua granda. Il romanzo dell’alluvione che Roberto Bianchin scrisse nel 1996, l’opera è ambientata interamente a Pellestrina, l’isola del litorale veneziano che il 4 novembre del 1966 fu travolta da onde alte fino a venti metri che sfondarono i murazzi costruiti dalla Serenissima nel Settecento per difendersi dal mare. Fra le tremila persone evacuate dall’isola c’era allora anche Ernesto Ballarin, dalle cui memorie muoveva il racconto di Bianchin. Seduto in platea la sera della prima, Ernesto ha potuto vedere se stesso divenuto personaggio centrale del dramma, simbolo di una comunità, dell’intera città lagunare, nonché di vasti territori delle Venezie di terraferma che piansero allora quasi cento morti per l’alluvione causata dalle piogge e dall’esondazione dei fiumi. Lo stesso Bianchin ha messo mano, insieme a Luigi Cerantola, al testo originario realizzando un libretto agile, di una liricità perfino giocosa. Veneziano e italiano si mescolano in versicoli avviluppati in ripetizioni, allitteranti, paronomasie, nenie di andamento molto vagamente zanzottiano.

La scelta appare a tratti incongruente con l’argomento dell’opera e foriera di soluzioni ambigue. Se da una parte l’ostentazione di un tono leggero e antinaturalistico depotenzia la drammatica oggettività del testo originario, dall’altra offre il destro al compositore per l’inserzione di improvvisi accenti discrepanti, talvolta assecondati dalla regia teatrale, per esempio nella scena di sapore quasi futurista che segue la rottura dei murazzi: «Hai sentito/cos’è stato/un boato/un’esplosione» ripetono Ernesto, Fortunato (il padre di Ernesto che per primo intuì il disastro) e gli altri personaggi. Al violento schianto sonoro («come una bomba che sveglia l’isola») corrisponde la proiezione sullo schermo acqueo di scritte a caratteri cubitali: «Attenzione/avviso urgente/evacuazione».

L’orchestra del Teatro La Fenice è diretta da Marco Angius. Intorno a Ernesto (il tenore Mirko Guadagnin), Fortunato (il basso Andrea Mastroni), Lilli (la soprano Giulia Bolcato) e alle altre quattro voci in scena si muovono ben quattordici figuranti che affollano il palco in alcune scene di massa: sette uomini a torso nudo e sette donne in vesti bianche che si limitano a banali movimenti coreografici (arrivano a giocare versandosi l’acqua addosso dagli stivali di gomma!) e a spostamenti funzionali di elementi scenografici. Saranno loro a restare sotto l’acqua nella scena – questa sì di grande effetto, preparata da un lunghissimo climax – in cui la grande vasca, ormai colma, si alza per svuotarsi lentamente sui loro corpi in fila.

A differenza del racconto di Bianchin, l’atto unico vede Ernesto rimanere nell’isola con il padre, insieme a personaggi inventati per l’occasione, come il farmacista Luciano e il maresciallo dei carabinieri Cester. La loro decisione di presidiare l’isola a rischio della vita consente la cronaca dei fatti attraverso una moltiplicazione di punti di vista narrativi che evita il ricorso a una voce fuori campo. Il milieu culturale veneziano, caratterizzato dalla commistione di elementi popolari e colti, è reso soprattutto dalle proiezioni sulla parete di vetro di foto e filmati inediti, materiali d’archivio e amatoriali, girati dai veneziani nei giorni dell’alluvione, e da certi scorci della musica di Perocco, capace di coniugare il pianoforte preparato e l’elaborazione delle minime risonanze con gli echi – ahinoi tanto flebili – della musica popolare veneziana, dai canti dei pescatori e dei battipali fino alle canzoni raccolte negli anni Sessanta da Luisa Ronchini.

(Tutte le foto sono di Michele Crosera)




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