Stravinskij in salsa cubana: a Napoli una prima italiana e La sagra della primavera secondo Emanuel Gat

Pubblicato il 21/02/2018 / di / ateatro n. 164

Prima italiana al Teatro San Ferdinando di Napoli per Milena and Michael di Emanuel Gat, una coreografia spigolosa e frammentaria creata in collaborazione con Michael Loehr e Milena Twiehaus, i due interpreti del pezzo. Si tratta di uno studio sul gesto che si ritrae nella sua potenza, che non diviene mai atto. I danzatori frenano le proprie spinte, eludono quelle del partner, trattengono la forma dell’altro corpo intoccabile, inconoscibile. Sono due persone che cercano un contatto ma sembrano studiare i modi di non prendersi.

Tutta la partitura si rivela così un ripensamento del processo coreografico stesso, portato quasi al grado zero della danzabilità. Un lavoro che raffredda ogni slancio e rimane forse irrisolto, ma che ben si presta a introdurre, per contrasto, la seconda parte della serata che vede in programma l’atteso Sacre, riadattamento di quel The Rite of Spring con il quale il coreografo israeliano vinse a New York nel 2006 il prestigioso Bessy Award. Qui, oltre alla coreografia, Gat firma anche le luci e le musiche, mentre i costumi sono stati creati insieme ai danzatori con lui in scena: Genevieve Osbonre, Karolina Szymura, Rindra Dianor e Michael Loehr.

Un tappeto rettangolare rosso, sagomato da luci vermiglie, delimita lo spazio magico di un rituale sfrenato di corteggiamenti e amplessi. Da quello spazio talvolta i danzatori si ritraggono in ordine sparso per continuare con movimenti più liberi un gioco di attrazioni, rincorse, attese, offerte, che si espande con ricami corporei nella penombra dell’intero palcoscenico nudo. I cavalieri cambiano la dama senza mai cambiare i movimenti. A turno, dunque, una delle tre donne perde il partner, ma non è mai esclusa dall’azione danzata, sia perché continua gli stessi movimenti degli altri – e le linee di danza maschili e femminili s’intessono come la trama e l’ordito del tappeto rosso su cui tutti ballano scalzi –, sia perché dopo pochi volteggi ritroverà il partner per intrecciarsi in nuove evoluzioni, senza soluzione di continuità. E nonostante la vorticosa energia dei movimenti maschili, a tratti sembrano essere loro, le donne, a passarsi i due uomini l’una con l’altra.

Così i cinque danzatori in nero formano e disfano ininterrottamente la catena di figure della salsa, destrutturandola e rielaborandola in concatenazioni ipnotiche, in passaggi quasi acrobatici ma sempre eleganti e seducenti. Seduzione in senso proprio, come azione del “tirare in disparte”, “a sé”, del “separare”. Forza di condurre e sviare. La pulsione profonda della partitura stravinskiana, proposta nella versione di Leonard Bernstein del 1972 – più ritmica e percussiva, a tratti quasi jazz –, trova così un’interpretazione sensuale che raggiunge la perfetta struttura geometrica, continuamente vorticante, della spirale.

Siamo di fronte a una doppia sfida. La sfida di misurarsi con un monumento del balletto, interpretato dai massimi coreografi e danzatori contemporanei (da Nizinskij a Pina Baush, da Preljokaj a Sasha Waltz) e insieme quella di “desacralizzare il Sacre” innestando sulla musica di Stravinskij la struttura della salsa cubana. L’esito è affascinante, coinvolgente, seducente. Un rito nel quale il sacrificio è costantemente annullato e riproposto; un dispositivo in cui le meccaniche della popolare danza latinoamericana vengono smontate e riassemblate. Secondo il principio che l’antropologia teatrale chiama di “omissione”, le sequenze dei movimenti, il gioco di impulsi e tensioni, le figure della salsa rimangono intatti, ma, tolto l’elemento strutturale – la musica originaria –, vengono risemantizzati in un diverso contesto – la musica del compositore russo – conservando tuttavia la propria organicità coreografica mentre trovano una nuova necessità drammaturgica.




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