Nessun intruso nell’Habitat Naturale

A Bassano lo spettacolo di Elisabetta Granara per B.motion

Pubblicato il 11/09/2018 / di / ateatro n. 165

È sempre auspicabile che in tema di migrazioni un paese di recente e improvvisata apertura come il nostro trovi, anche a livello di cultura popolare, le occasioni di alzare lo sguardo dall’ossimoro della emergenza quotidiana – con la sua atroce contabilità di morti e sofferenze, e l’invereconda meschinità delle strumentalizzazioni “politiche” – all’orizzonte antropologico e filogenetico. Come può apparire, per esempio, la vergognosa vicenda della nave Diciotti alla luce delle epocali ricerche di Cavalli Sforza, il fondatore della genetica dei popoli recentemente scomparso, che ha dimostrato, oltre all’infondatezza biologica del concetto di razza, come tutta la storia evolutiva di homo sapiens è determinata dalle mescolanze e dalle migrazioni?
Devono aver pensato a uno spostamento di prospettiva di questa portata Elisabetta Granara e il Teatro Campestre nell’allestire Habitat Naturale, uno spettacolo site specific presentato a Bassano nell’ambito di B.motion, vero e proprio festival nel festival OperaEstate dedicato ai linguaggio del contemporaneo nelle arti performative. Nell’asettico e inquietante paradiso tassidermico del Museo di Storia Naturale a Palazzo Bonaguro, la migrazione è stata indagata da una prospettiva biologica senza mai scadere nel didascalico, ma preferendo suggerire, alludere, risolvere ironicamente grandi questioni (cause, dinamiche, effetti dei flussi migratori) in brevi dialoghi tra la direttrice del museo (nella finzione teatrale interpretata dalla stessa Granara) e il custode (Diego Dalla Via). Lei si contiene in posture sgraziate e secche quanto la sua pronuncia, sproloquia in latino e improvvisa analisi dissacranti. Lui vola basso col suo accento veneto ed è ossessionato da presunti spostamenti notturni di animali e oggetti.
C’è un intruso nel museo? Ovvero c’è un intruso – un clandestino – nel percorso evolutivo degli esseri viventi? La scena finale ci risponde indirettamente di no: nessun intruso. Siamo tutti all’interno dello stesso ecosistema. A quelle «piccole isole tecnologiche perdute nel mare delle loro insicurezze» che sono gli spettatori appare nella nebbia una testa di cervo che ha la voce un migrante, di un giovane di passaggio rifugiatosi in qualche angolo del museo. Prima di riprendere il viaggio, ringrazia la direttrice per avergli insegnato tante parole nuove. Parla in una neolingua franca che mescola inglese, italiano, latino, frammenti di idiomi lontani. Ed è notevole l’intuizione che ha portato a incrociare con quello delle migrazioni il grande tema animale, la sua prossimità e insieme la sua irriducibile alterità.
Soprattutto nella prima parte, con attori e spettatori in movimento tra gli animali imbalsamati, emerge con forza la sensazione di essere noi stessi oggetto di una classificazione che, mentre ci riporta al nostro posto nella biosfera, sembra ammonire l’animale uomo a non ignorare il rapporto migrazione/evoluzione, «pena una regressione della specie. Forse l’estinzione. Poi, chi resterà a classificare, spiegare, esporre la nostra storia?»