Dau di Ilya Khrzhanovsky, ovvero il comunismo sovietico come opera d’arte totale

Il gigantesco progetto teatrale e cinematografico debutta a Parigi con una installazione immersiva 24/7

Pubblicato il 05/02/2019 / di / ateatro n. 167

Dau.

E’ il progetto cinematografico più lungo, ambizioso, complesso della storia. Forse non è solo cinema, ma un folle esperimento, cresciuto in un’aura di mistero e segretezza, che si allarga in altre direzioni: teatro, arte, storia, scienza, sociologia, politica, spiritualità…
La scintilla l’ha fatta scattare la biografia di Lev Landau, Premio Nobel per la Fisica nel 1962, scienziato visionario, geniale e anticonformista che praticava il libero amore in base a un “patto di non-aggressione coniugale”. Venne incarcerato da Stalin (era ebreo) e si salvò solo perché era l’unico in grado di fare i calcoli per costruire ordigni nucleari. Per lui Lenin era “il fascista rosso”.
Quando Ilya Khrzhanovsky (1975), che all’epoca aveva all’attivo solo una pellicola con qualche successo di critica, 4 (2004, premiato al Festival di Rotterdam), lesse la biografia di Landau scritta dalla moglie dello scienziato, decise di portare quella storia al cinema. Avrebbe potuto accontentarsi di un film biografico, ma le ambizioni di questo giovane regista carismatico e forse manipolatore (soprattutto nei confronti delle giovani donne, a quanto si dice) erano molto più ambiziose, quasi uno specchio delle ossessioni del suo personaggio.

Dal book per i costumi di Dau

A Kharkov, in Ucraina, Khrzhanovsky ha fatto costruire un gigantesco set cinematografico, 12000 metri quadri, un intero quartiere che ricostruisce meticolosamente la Mosca dei decenni tra il 1938 e il 1968: un doppio dell’Istituto scientifico dominato da Landau, che vi conduceva i suoi esperimenti.
Nel 2006 il casting ha coinvolto migliaia di volontari, selezionati attraverso test psicologi accurati e invasivi. 400 persone hanno accettato di piegarsi alle regole di questo universo concentrazionario per vivere in una “capsula del tempo” che riproduceva tutti gli aspetti della vita quotidiana sotto Stalin. A loro vanno aggiunte circa 10.000 comparse.
Il ruolo del protagonista è stato affidato al direttore d’orchestra greco-russo Teodor Currentzis (Dau), l’unica attrice professionista è Radmila Shchyogoleva (sua moglie).

Marina Abramovic come visiting professor di anatomia c Phenomen IP

Il progetto ha visto la partecipazione di Anatolij Vasil’ev, Marina Abramovic (una professoressa di anatomia) o Romeo Castellucci (un antropologo), Peter Sellars, Carsten Höller, Fanny Ardant, Monica Bellucci, Willem Dafoe oltre che di fisici come David Gross e Carlo Rovelli. Sul set ha lavorato a lungo Jürgen Jürges, direttore della fotografia di Fassbinder e Haneke.
Le riprese sono durate tre anni, tra il 2009 e il 2011, con gli attori impegnati 24 ore su 24 in un gigantesco reality dove ogni dettaglio doveva rimandare all’epoca sovietica: i tessuti e gli abiti, gli arredi e le stoviglie, il cibo (le scatolette con data di scadenza 1952) e gli sciacquoni (per ricostruire fedelmente anche il rumore)… Vietati ovviamente cellulari e internet. Il vocabolario dell’Istituto escludeva tutte le parole che all’epoca non esistevano e chi trasgrediva veniva multato: per aggirare questa censura, “Google” era stata ribattezzata in codice la “Pravda”. Per chi entrava in quel mondo ricostruito nei minimi particolari e governato rigidamente, in pochi giorni la finzione diventava realtà: gli abitanti du Dau sprofondavano un universo parallelo forse più appagante (o tranquillizzante) delle incertezze del mondo di fuori. L’immersione sensoriale aveva l’obiettivo di garantire verità all’azione degli interpreti. Gli amori, gli odi, le nascite, le morti, tutto è finito nel film: “Non sono burattini. Non stanno recitando, stanno vivendo”, era il mantra del regista. “Avevo bisogno di trovare certe personalità e di combinarle”.
Le riprese si erano concluse, passavano gli anni e il progetto sembrava destinato a restare incompiuto, anche per le inevitabili difficoltà finanziarie (uno dei maggiori sostenitori del progetto è il miliardario e filantropo russo Sergei Adoniev, attraverso il Phenomenon Trust con sede a Londra). Alla fine del 2018, quando tutto sembrava pronto, è stato annullato il lancio a Berlino: la ricostruzione e la successiva distruzione di un tratto del Muro, affrescata da Ai Weiwei, è stata annullata con qualche polemica: “Non ritengo sia opportuno un esperimento che ricostruisce un sistema totalitario”, aveva dichiarato l’esponente dei Verdi Sabine Bangert, contraria come molti berlinesi alla ricostruzione di un frammento di Muro a pochi metri dal luogo in cui passava il vero Muro.

Dau come macchina del tempo

Grazie a Parigi e alla Francia “il regista” – ma il termine è stato vietato e sostituito sul set da “il Direttore dell’Istituto” o semplicemente “il Boss” – è riuscito a evitare un fallimento di dimensioni epiche. Dalle 700 ore di girato sono stati ricavati 13 lungometraggi pieni di discussioni esistenziali e filosofiche, di perversi esperimenti scientifici sugli esseri umani, di memorabili sbronze e di qualche scena di tortura, il tutto condito di molto sesso (vero anche questo) e forse un po’ d’amore. Ai film vanno aggiunti cinque serie e i documentari che illustrano il progetto.
Dau ha visto la luce il 24 gennaio, con un’installazione immersiva che ha il cuore al Théâtre de la Ville e investe anche il Théâtre du Chatelet (con una mostra d’arte) e il Centre Pompidou, dove è stato ricostruito un piccolo set visibile in streaming dal Théâtre de la Ville, per dare un’idea del clima delle riprese.

Per entrare a Dau è necessario un visto. Gli accessi sono differenziati: dalle 6 ore di permanenza per 35 euro al visto illimitato, che con 150 euro consente di vivere l’esperienza integrale per diverse settimane. Superati i meticolosi controlli (e abbandonato il cellulare), si accede a un universo scandito da parole chiave che guidano il visitatore: “comunismo”, “futuro”, “storia”, ma anche “corpo” e “cervello”, oppure “scienza”, “potere”, “utopia”…

Una della parole chiave di Dau al Théâtre de la Ville

Il cuore del progetto sono i film, proiettati su grande schermo (e doppiati da una voce narrante) oppure disponibili su video in cabine per un solo spettatore (e sottotitolati). Nei cinque piani del teatro, sventrato per la ristrutturazione in corso, si possono visitare le riproduzioni di ambienti sovietici dell’epoca (ed è possibile dialogare con gli inquilini) e le installazioni (lo spazio è disseminato di manichini), assistere a concerti, performance e conferenze. Frequentatissimo il bar-ristorante molto sovietico e molto d’epoca. Il fornitissimo shop vende materiale documentario, ma anche ricostruzioni di oggetti d’epoca, con un merchandising degno di un parco a tema.
L’obiettivo è restituire un’esperienza simile a quella della vita quotidiana tra Stalin e Kruscev e insieme l’atmosfera dell’Istituto in cui è stato girato il film, anche se per un visitatore occasionale l’esperienza è senz’altro meno coinvolgente.

Dau: un’immagine del film

Restano i film, intimi e intensi, commoventi, sorprendenti, a volte perturbanti, che possono ricordare altri progetti monstre, come le quattordici puntate Berlin Alexanderplatz di Rainer Werner Fassbinder (1980) o le tre serie di Heimat di Edgar Reiz (1984, 1992 e 2004). Si possono avvertire gli echi degli spettacoli di massa post-rivoluzionari, ma ribaltati di segno, dagli esterni del Palazzo d’Inverno all’intimo delle stanze da letto. E tornano alla memoria gli affreschi teatrali storici di Lev Dodin, a partire dalle le nove ore di Fratelli e sorelle (1985). C’è l’eco dell’ormai onnipresente serialità. Ma in questo caso non c’è solo l’invenzione di un universo fittizio a fini spettacolari tipica di altre esperienze teatrali immersive (come Sleep no more in scena dal 2011 al McKritik Hotel di New York o Rosaline di Paolo Sacerdoti). C’è piuttosto la volontà demiurgica di ricreare un mondo e di piegare alla sua realtà centinaia di esseri umani. E’ un gigantesco esperimento sociologico sui meccanismi totalitari, tanto che per alcuni l’adesione fideistica al progetto ricorda quella delle sette religiose. Per alcuni Dau è una gigantesca e pericolosa mistificazione.

Dau: un’immagine del film

La ricostruzione d’epoca non è nostalgica e ancor meno celebrativa. Khrzhanovsky evita anche la critica ironica e dissacrante di artisti post-sovietici come Illja Kabakov o il duo Komar & Melamid. Quella di Dau è una realtà spesso brutale, psichicamente violenta, anche se umanissima. E’ la ricerca ossessiva di un tempo perduto. Il comunismo sovietico è stato definitivamente condannato dal tribunale della storia. Ma cosa ne resta? E’ finito anche nell’immaginario?
Sono passati trent’anni dalla caduta del Muro. Ma nel 2019 ricorrono anche i centodieci anni dalla pubblicazione del “Manifesto del futurismo” su “Le Figaro” e il centenario della fondazione del Bauhaus a Weimar.

Dau au Théâtre de la Ville

In Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale (Garzanti 1992), Boris Groy spiega che i regimi totalitari del Novecento sono stati la risposta politica alle avanguardie artistiche del Novecento e alle loro utopie. Hitler e Stalin non si accontentavano dell’esetica: volevano trasformare l’intera realtà nel loro capolavoro, plasmare il mondo e gli essere umani per renderli adeguati alla loro visione. Uomini nuovi per un mondo nuovo. Il Terzo Reich millenario o la gloriosa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Khrzhanovsky compie l’operazione inversa a quella di Stalin, trasformando il regime sovietico in un’opera d’arte, e al tempo stesso la duplica con un contorno di specchi e manichini, quasi a chiudere il cerchio: dall’estetico al politico e ritorno. Dau reinventa la quotidianità oppressiva del comunismo come opera d’arte totale, totalitaria e totalizzante. Il Grande Fratello che inquietava George Orwell, la Stasi che tentava di controllare “le vite degli altri” si sono ribaltati nel reality esibizionistico della storia, in un Truman Show popolato di volontari desiderosi di sottomettersi alle regole.
Il comunismo è morto con la fine dell’URSS ma sopravvive trasfigurato in un Gesamstkunstwerk che combina arti e saperi per farsi più reale della realtà. E per indagare in un mondo artificiale gli strati più profondi e complessi della natura umana, in una inquietante riflessione sulla libertà e sul dominio.

Dau. Il marketing

Bibliografia

Dau.com
Michael Idov, The Movie Set That Ate Itself, con fotografie di Sergey Maximishin, in “GQ”, 27 ottobre 2011.
Josie Thaddeus-Johns, It Started as a Movie. As It Ballooned, Its Troubles Mounted, in “The New York Times”, 23 gennaio 2019.
Joshua Barone, ‘DAU’ Has Finally Opened in Paris. Does It Live Up to the Hype?, in “The New York Times”, 28 gennaio 2019.
Louise Hermant, Qui est Ilya Khrzhanovsky, la figure controversée derrière le projet artistique DAU?, “Les Inrockuptibles”, 2 febbraio 2019.




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