Le maschere del tempo

Visite del Teatro dei Gordi a Operaestate Festival a Bassano

Pubblicato il 25/09/2019 / di / ateatro n. 169

Se si guarda Visite, il nuovo spettacolo del Teatro dei Gordi, come una verifica sperimentale dell’infinito tema dell’identità e della maschera – dunque come una meditazione sulla persona– condotta con strumenti cinetico-visivi, appare evidente l’intenzione rappresentativa con la quale il regista Riccardo Pippa dispone e muove gli attori in scena (Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza). Tutto il lavoro sembra infatti teso a svelare, proprio attraverso l’uso concettuale e fisico della maschera, le nostre resistenze – sociali, antropologiche – al disvelamento, la nostra incapacità di strapparci di dosso la maschera delle convenzioni. Una sorta di pirandellismo applicato, che alla elucubrazione verbale sostituisce il parossismo gestuale e prossemico.

La prima parte mette in scena la spensieratezza giovanile di un gruppo di amici. Festicciole, seduzioni, scherzi, in un frenetico andirivieni di personaggi nella camera matrimoniale di due di loro. La coppia è affiatata ma a corto di intimità: è sempre in quella stanza ma appunto riceve continue visite e intrusioni di personaggi appena abbozzati. Una passerella di giocose forme di relazione su accattivanti ritmi ballabili. Gli attori non indossano ancora maschere e tuttavia sembrano mascherati nelle forme stereotipate, e dunque prevedibili, di ruoli e tipi fissi. Se ne ha più chiara consapevolezza con la distanza che impone la seconda parte dello spettacolo, ambientata in un ospizio grigio e asettico sorto, con un efficace cambio di scena a vista, dalla decostruzione del caldo ambiente domestico. Qui le maschere di Ilaria Ariemme consentono agli attori di eclissarsi e di mettere in primo piano i linguaggi dei corpi invecchiati. I piccoli passi incerti dei degenti, la poltrona meccanica, le pasticche, gli applausi al concerto ascoltato alla radio, la caramella Rossana contesa. Una danza geriatrica tra ricordi, manie, solitudini. Della coppia iniziale è rimasta solo la donna, che infine sembra riuscire a raccogliere le forze per uscire dalla malinconia di quell’ambiente.

C’è una delicata ironia nello spettacolo, e una attenta indagine sui margini rappresentativi della maschera e sui suoi effetti nella recitazione. Forse anche al di là delle intenzioni. Perché la prima parte risulta a un certo punto prolissa e ripetitiva. Come se, pur senza parole, rimanesse incrostata di linguaggio verbale. E non riuscisse a inventarsi una lingua altra se non ricorrendo alla maschera, né a far sentire il vibrare inquietante della voce tolta.

Sono temi assai interessanti e affrontati, con strumenti ed esiti diversi, da molte realtà della ricerca teatrale anche italiana, basti pensare a Zaches, Teatropersona, Dispensa Barzotti, Teatro Presente. I limiti sono drammaturgici. L’esile filo narrativo fatica a reggere l’equilibrismo attorale nell’incalzante e tecnicamente pregevole rincorrersi di situazioni e cambi d’abito della prima parte come nelle sospensioni e nelle dilatazioni temporali della seconda. Il richiamo a Filemone e Bauci è poco più di un pretesto. La rappresentazione della vecchiaia è a tratti commovente, ma rischia di fermarsi alla rappresentazione. “Giovinezza” e “vecchiaia” diventano a loro volta delle maschere – dei luoghi comuni – che rischiano di soffocare l’interessante riflessione sul trascorrere del tempo.




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