Il potere delle parole, il potere delle immagini

Una intervista a Romeo Castellucci

Pubblicato il 10/11/2021 / di and / ateatro n. 180

Domenica 14 novembre 2021, alle 18.00, nel Salone d’Onore della Triennale di Milano, dopo la replica dello spettacolo Bros., si terrà la conversazione sul tema Città e teatro tra Stefano Boeri e Romeo Castellucci, nell’ambito del progetto A cosa serve il teatro?
Il 15 dicembre 2019 avevamo incontrato a Milano Romeo Castellucci, per parlare di La vita nuova, che dopo le repliche a Bruxelles e al Festival d’Automne di Parigi sarebbe approdato al DumBO di Bologna poche settimane dopo. È stata l’occasione per approfondire alcuni dei temi del suo lavoro, che abbiamo organizzato a partire dal ricordo di alcuni spettacoli e da alcune parole chiave.

[Immagine]

Gli spettacoli di Romeo Castellucci colpiscono da sempre per la forza delle immagini, che all’interno del lavoro hanno un’intensa forza generativa. Le sue visioni, che inglobano spesso elementi contemporanei, hanno la carica evocativa di una potenza archetipica.
La riflessione critica sul potere delle immagini è da sempre al centro di una pratica teatrale che ha attraversato, in una delle fasi iniziali con la Socìetas Raffaello Sanzio, il tema dell’iconoclastia, ovvero della proibizione delle immagini. Nel testo consegnato agli spettatori prima di Santa Sofia. Teatro Khmer (1986), nato dallo studio di figure come l’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico e il dittatore cambogiano Pol Pot, si poteva leggere:

“Questo è il teatro che rifiuta la rappresentazione (…) Questo è il teatro della nuova religione: perciò vieni tu che desideri essere seguace delle colonne dell’Irreale. Il reale lo conosciamo, e ci ha delusi fin dall’età di anni quattro. (…) Ma non credere che sia il surrealismo la chiave del problema; la chiave surrealista è completamente sbagliata, nel suo inconscio conservatorismo rielaborato. Questo è il teatro iconoclasta: si tratta di abbattere ogni immagine per aderire alla sola fondamentale realtà: l’Irreale anti-cosmico, tutto l’insieme delle cose non pensate.”
(Il teatro della Societas Raffaello Sanzio, p. 9)

Lo spazio che accoglie La vita nuova potrebbe essere un garage, un capannone, un deposito. Ma è anche una caverna, uno di quei “vani ricavati dalle fondamenta degli edifici” che “servivano da depositi per cose ferme e sementi: chicchi, larve, mosti, fermenti”. Ma ora questo ventre vuoto è invaso a perdita d’occhio da tre file di automobili, ordinatamente parcheggiate e ricoperte da un telo bianco. L’immagine è insieme semplice e perturbante.

ROMEO CASTELLUCCI

L’origine delle immagini è passiva: le immagini incontrano me. Per quanto paradossale possa essere, io organizzo ciò che già esiste. Probabilmente passando dal parcheggio di un aeroporto, ho delle auto coperte da teli, e da quella impressione sono partito. A quel punto si tratta di organizzare il tempo, come architettura che disegna forme temporali. Le immagini arrivano e passano, non mi appartengono, sono i fenomeni che ci circondano, gli accidenti esterni dotati della forza tremenda della banalità grazie alla quale si impongono alla mia attenzione, per quanto siano elementi spesso invisibili e non degni di attenzione, come appunto un parcheggio.
Partendo da un’immagine di realtà, e assumendola fino in fondo, un luogo può trasformarsi e tendersi come un arco, capace di scagliare lontano la propria forma, in funzione dell’errore, aprendo un rapporto di crisi rispetto alla realtà da cui proviene. Il teatro è il luogo “sbagliato”, il luogo dell’errore; questo è il lascito della lezione greca. Per La vita nuova ho insistito su questo elemento, inserendo, per così dire, una doppia temperatura. Questa estrema povertà e banalità – siamo circondati da automobili – si irradia nella mitologica. È bastato coprire tutte le auto con un panno bianco e queste hanno di colpo assunto una forma metaforica, un gregge di pecore o un consesso di fantasmi o un deserto di sale. L’immaginazione comincia a gemmare.
Stesso discorso per l’uomo che cammina in mezzo alle auto: lo si direbbe un parcheggiatore, poi si scopre che ci sono altri fratelli, vestiti di bianco, come le automobili. Compiono gesti trasfigurati, liturgici, anche se si tratta qui di una liturgia priva di qualsiasi misticismo: al contrario, è un fare liturgico che ha come compito quello di scardinare l’assolutismo della realtà.

[Testo e Immagine]

Negli ultimi lavori di Romeo Castellucci la parola è tornata ad avere un ruolo centrale, grazie ai testi di Claudia Castellucci. Alcuni degli spettatori di Democracy in America (2017) avevano già notato questa esplorazione della parola e attraverso la parola, sia nei testi pronunciati dagli attori (compreso un dialogo in due lingue, quella dei nativi e quella dei coloni), sia nelle didascalie proiettate in scena, sia nelle sciarade composte dagli attori, anche con la parola “DEMOCRACY”. Uno dei primi spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio, Kaputt Nekropolis (1984, poi ripreso in versione ridotta in occasione della personale del gruppo a Bologna E la volpe disse al corvo, nel 2004), era centrato sull’invenzione di una “lingua perfetta”, la Generalissima. La riflessione su potere della parola è anche al centro del più recente Il Terzo Reich (2021), come si legge nella presentazione dello spettacolo:

Il linguaggio può essere strumento violento e totalitario: Il Terzo Reich è l’immagine di una comunicazione inculcata e obbligatoria, dove la parola esaurisce interi ambiti di realtà, là dove i nomi appaiono uguali nella loro serialità meccanica.

Questa rinnovata attenzione alla parola e alla sua densità poetica si intreccia con gli aspetti visivi del lavoro, creando effetti a volte di sottolineatura, a volte di contrasto.

ROMEO CASTELLUCCI

Immagini e testo si sono uniti molto presto. Avevo queste immagini di pastori, altissimi, questo paesaggio, questa caverna, e l’idea degli ornamenti. Claudia e io ne abbiamo parlato e abbiamo capito che l’argomento poteva farsi carico di questo scisma, di questa contraddizione: la polemica tra arte e artigiano. Questa spaccatura culturale poteva essere una buona materia drammatica. Poi c’era l’idea del sermone e l’idea dell’Africa. Alla fine Claudia ha scritto il discorso. È sempre un grande privilegio per me poter lavorare con le sue parole. Affiorano alcune riminiscenze di Ernst Bloch1, anche se rimane sullo sfondo.

[Forma]

I primi spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio erano invasi da una densità di segni che travolgeva lo spettatore in un esplosivo gioco di contrasti e paradossi. Da tempo i lavori di Romeo Castellucci hanno una diversa tessitura, a cominciare da una rarefatta precisione formale: la visionarietà si concretizza in composizioni dall’equilibrio classico e in un artigianato teatrale fondato sulla cura e sulla precisione dei dettagli, che cancella ogni sbavatura. Ma questa rarefazione porta paradossalmente a un’altissima temperatura emotiva, in un cortocircuito con gli strati più profondi (o più antichi) della psiche. Resta la vertigine, ma il metodo di lavoro – e l’approccio al teatro – sono cambiati.

ROMEO CASTELLUCCI

Da una parte c’è una mancanza di controllo, dall’altra il controllo è totale. Vivo in questo tempo, in questa latitudine, non sono impermeabile a quello che arriva dal mondo esterno, ma il mio teatro non è un commento a quello che succede là fuori, non è una diagnosi. È piuttosto un sintomo, e il sintomo è muto, non ha proposte, non emette giudizi, non ha intenzioni. È la rivelazione di ciò che esiste già. Da una parte esercito un controllo sulla forma, che cerco di affilare sottraendo informazioni. In questo c’è una differenza rispetto ai miei lavori dei primi anni. Oggi uso strumenti diversi perché sono diverso. Il mio obiettivo è evitare di avere uno stile, ma so di fallire. Per me è essenziale toccare il “corpo” dello spettatore. Oggi.

[Opera lirica e Teatro]

Negli ultimi anni, Romeo Castellucci è stato spesso impegnato sul fronte dell’opera lirica, con allestimenti insieme creativamente provocatori – rispetto agli standard delle attuali regie d’opera – e profondamente rispettosi del senso del lavoro.

ROMEO CASTELLUCCI

Teatro e lirica sono due mondi e due linguaggi lontani, ma alla fine è sempre teatro. Mentre in teatro al testo puoi anche passarci affianco, nel teatro lirico devi accettare la dimensione temporale, che è data dalla partitura. Il limite della dimensione temporale ti spinge a scegliere le consonanze con certi autori: quella di Wagner mi appartiene completamente, mi ci riconosco. Anche le tecniche di lavoro sono diverse: intorno a un palcoscenico d’opera centinaia di persone aspettano di sapere cosa fare, non sono concesse titubanze ed è necessario presentarsi con un piano di lavoro di acciaio inossidabile e le molto chiare.
È un lavoro mentale dove niente dev’essere lasciato all’improvvisazione: se una scelta è giusta, lo scopri solo quando la fai, e se non è buona non puoi correggere.
Quando mi propongono una regia lirica, la mia unica libertà consiste nel scegliere a quali titoli dire sì o e a quali dire no. A quel punto si tratta di scoprire nuovi percorsi: il teatro lirico è come se fosse una montagna sempre scalata dalla stessa via, spesso si cerca di fare la “cosa giusta”, ma secondo me questa è strada sbagliata, perché è molto più giusto trovare altre vie con il rischio di fare la cosa sbagliata, bisogna girare lo stesso oggetto per trovare nuovi punti di vista.
L’approccio corretto nella differenza è la filologia: prima di mettere in scena un’opera studio molto, anche dal punto di vista musicologico, perché entro in un terreno che non mi è familiare, dove ci sono degli esperti. La filologia è un modo di esplorare la giungla: perché nell’opera si deve ancora fare tutto, c’è un potenziale incredibile. Ci sono autori e musiche che permettono una esplorazione straordinaria e quando i diversi elementi si allineano, avere davanti un’orchestra di 120 elementi è un’esperienza incredibile. Tutto è immediatamente tridimensionale e sul palco basta fare pochissimo.
Quindi si tratta di correre dei rischi, anche con il pubblico. Se gli si dà sempre gli stessi bocconi zuccherosi, rimarrà sempre abituato agli stessi sapori, senza brivido. All’opera trovo un pubblico misto: oltre agli spettatori fissi dell’opera mi segue anche il pubblico del teatro. Ma ho sempre avuto un rapporto positivo anche con i melomani più arcigni. L’atteggiamento è lo stesso, non puoi fare il casseur. Se ovunque arrivi fai la provocazione, non funziona: è stupido e prevedibile.
Il teatro d’opera è teatro, anche se con tecniche completamente diverse. Per me il teatro è il rapporto con la musica: il teatro dell’origine era questo, nella tragedia le parole erano cantate e non a caso l’idea di costruire la tragedia è venuta dai musicisti. E nel teatro d’opera la messinscena non è a servizio: e infatti i grandi autori, come Wagner, avevano una grande fiducia nella messinscena.
Come diceva anche Mahler, l’opera è fuoco, non è la custodia delle ceneri del passato. E nella Vienna d’inizio Novecento, Mahler proponeva opera nuove perché già all’epoca aveva avvertito il pericolo della museificazione.

[Arte e Artigianato]

Il testo che Claudia Castellucci ha scritto per La vita nuova attacca con ferocia l’arte contemporanea:

“Il numero degli artisti che abitano il pianeta sta aumentando.
In certi quartieri vivono soltanto gli artisti.
Le esposizioni internazionali di arte contemporanea sono frequentate
da centinaia di artisti che non riescono a esporre.
Hanno paura di morire
e si fidano solo dei colleghi e dei collegamenti.
(…)
Pensano alla loro fortuna e chiamano tutto questo ‘libertà’.
Chi ha concepito la parola ‘libertà’?
Una parola davvero incomprensibile, che fa diventare subito seri.”

All’autoreferenzialità dell’arte – e ai suoi spettatori, che “uccidono continuamente il corpo con dosi spirituali di coscienza” – si contrappongono “le arti pratiche”. O meglio, viene rivalutata l'”arte applicata, di tipo utilitario (…) pesantemente dimenticata / fatta dalle femmine e dagli effeminati”. È un elogio dell’artigianato che “non cerca i luoghi per esporre” ma “li fonda”.
È un intrico di paradossi. Un uomo porta in scena cinque altri uomini (anche se con un abbigliamento che li femminilizza) per tessere le lodi di un’arte femminile. Un artista, che grazie ai suoi spettacoli gode di fama internazionale, tesse le lodi dell’artigiano.

ROMEO CASTELLUCCI

La contrapposizione tra arte e artigianato è un’immensa faglia tettonica già presente nella storia dell’arte. È una contrapposizione paradossale, perché l’ornamento è profondo. Penso a William Morris o alla secessione viennese. Numerosi artisti si sono posti il problema di migliorare la vita dell’uomo: non a caso quelle che ho citato erano correnti artistiche vicine ai movimenti operai. Le loro carte da parati, quegli oggetti d’uso in apparenza lontani dalla dimensione spirituale dell’arte, erano elementi pensati per modificare e migliorare la vita, una sorta di riscatto concreto della realtà, dall’“umile vita quotidiana”. Ne La vita nuova si affronta il concetto spirituale di ornamento e si imputa all’arte di non toccare più il cuore delle persone, di essere una superstizione degli artisti sganciata dalla vita. L’arte, come si sa, ha bisogno di musei per affermare se stessa; l’artigianato invece lo spazio lo crea. Esistono oggetti artigianali che riscattano l’umiliazione della povera vita, che rendono i luoghi possibili e abitabili. L’ornamento nasce prima dell’arte ed è presente in tutte le civiltà: secondo i paleoantropologi, il primo gesto culturale sarebbe stato quello di levigare le superfici delle pietre, solo per il piacere di sentire tra le mani una superficie liscia: è una prima forma di ornamento, una forma di riscatto.
È come assumere un elemento estetico velenoso e parlare con questo veleno in bocca. È paradossale. Siamo in un panorama completamente smaterializzato, in mondi per lo più digitali, quindi questa polemica è destinata a cadere nel vuoto. Continuiamo a parlare dell’artigianato, ma l’artigiano è scomparso. L’interrogazione profonda sull’uso e sulla decorazione dell’oggetto d’uso o estetico cade perché viene pronunciata in un mondo in cui l’arte e l’artigianato sono sottoposti a una ulteriore tensione, perché il mondo nel quale viviamo è composto di piattaforme, lontane sia dall’una sia dall’altro. Però a me interessava questa concretezza, questa contraddizione tra arte e artigianato, perché l’arte può anche essere vista come forza reazionaria.

[Femminile]

La rivelazione del femminile – con la sua potenza “oscena” di origine del mondo – era al centro della rilettura dello sconvolgente Parsifal wagneriano (2011). Anche il titolo La vita nuova allude al femminile. Dante con La vita nova ha voluto rendere omaggio alla figura della donna amata, Beatrice, ma “la vita nuova” evoca subito il potere della maternità.
Il testo di Claudia Castellucci rivendica nel finale il potere sovversivo del femminile:

“Il disprezzo della produzione femminile di arte applicata
nasconde il terrore di subire il pegno del parto,
perché chi fa nascere, può anche giustamente far morire,
perché chi fa nascere supera il padre.”

Ma nello spettacolo i segni sono volutamente più ambigui.

ROMEO CASTELLUCCI

I protagonisti calzano scarpe da donna. C’è un riferimento costante alla potenza femminile. Le donne delle caverne, sono loro che hanno inventato la fantasia, che hanno avuto la capacità di inventare mondi: secondo alcune letture della paleoantropologia sono i gruppi femminili che hanno inventato l’arte e la religione, narrazioni e disegni, in funzione di equilibrio al potere maschile dei clan dei cacciatori.
Ecco perché a rivendicare la forza femminile doveva essere un uomo, che accampa, alla luce della visione femminile, la sua visione del mondo: in un sottofondo conflittuale, dai forti toni profetici, un pastore di pecore sale sopra un’auto rovesciata e parla al popolo – noi, spettatori – proferendo il suo sermone sull’Ornamento.
Anche il gesto di rovesciare l’auto, che appartiene al linguaggio delle rivolte urbane, è stato pervertito: non si tratta di un atto “contro” il potere – sebbene funzioni proprio per il significato che ha assunto nel paesaggio dei conflitti urbani – Qui avviene con metodo e delicatezza, con l’intento di “mettere le ruote rivolte all’azzurro del cielo”, con un riferimento all’utopia e all’orizzonte del nuovo mondo, della Vita Nuova che viene. Si tratta di capovolgere interamente un ordine – non basta contestarlo – e per farlo è necessario evocare la visione, l’utopia e l’immaginazione femminile.

[Origine]

Il teatro di Romeo Castellucci e della Societas si è spesso interrogato sul mistero dell’origine, nelle sue varie sfaccettature. Spettacoli come Gilgamesh (1990), La Discesa di Inanna (1989), Iside e Osiride (1990) e Ahura Mazda (1991) risalivano a un orizzonte mitico, che precedeva la nascita della tragedia. Sulla nascita e sulla decostruzione della tragedia si interrogava la straordinaria Orestea (1995).
Il confronto con l’Origine nelle sue varie forme è una delle grandi interrogazioni che attraversa il lavoro di Castellucci.

ROMEO CASTELLUCCI

Non è una origine nel passato, ma è una origine originante, operante. È qui. Il mio è un interrogare la radice in continuazione. Non ci sono dati di fatto. La radice è l’origine del gesto, è una domanda, è come un fuoco che deve rimanere acceso a dispetto delle abitudini e di tutto ciò che ci sembra di conoscere. Se è vero che il teatro è l’arte del contatto con lo spettatore, questo contatto si può avere soltanto se tocca e arriva all’origine, intesa anche come un grado zero della comunicazione. Non c’è niente da comunicare, non c’è un messaggio, ma c’è qualcosa – forse non così chiaro e illuminato – che ci appartiene e ci tocca profondamente. Al di là dei discorsi, sono dei movimenti che ti comprendono. Per raggiungere questo obiettivo, può accadere di parlare di preistoria, ma non perché siamo archeologi. Non mi interessa un punto di vista filologico, ma sento che interrogare l’origine può dare una spinta.

[Antico Testamento]

All’interrogazione sulla nascita della tragedia si è intrecciata quella sull’origine del male della violenza, che ritorna con particolare enfasi nella vicenda di Caino e Abele, esplorata prima nel terzo episodio di Genesi. From the Museum of Sleep (1999) e poi nel Primo omicidio (2019) (ma la teodicea riecheggia anche – ma a partire dalla quotidianità contemporanea e dalla rilettura del rapporto Padre-Figlio – in Sul concetto di volto nel figlio di Dio (2010). L’interesse per le vicende dell’Antico Testamento è evidente anche in Go Down, Moses (2009), fin dal titolo.

ROMEO CASTELLUCCI

Ho un interesse particolare per l’Antico Testamento e per la tragedia greca. Sono le due colonne della cultura occidentale e sono caratterizzate dalla dimensione dell’errore. La tragedia greca mette sempre in scena la peggiore delle possibilità. L’eroe è colui che commette un errore e ha sempre un rapporto negativo con la condizione umana e con il linguaggio. Il linguaggio è il grande fiume che trasporta le forme, ma c’è sempre una grande idiosincrasia, ogni livello è una battaglia con il linguaggio, che è alimentato dalla contraddizione.
Anche nella Vita nuova ci sono queste tensioni: non c’è niente di descrittivo o di illustrativo, anzi è un modo non per interrogare l’immagine, ma per farsi interrogare dall’immagine. Quindi c’è una prospettiva rovesciata: siamo noi spettatori l’oggetto di ciò che stiamo guardando in quel momento. Lo spettacolo ti guarda e ti riguarda. Non c’è un messaggio, il teatro non è contenutistico: si tratta di essere guardati e di essere messi a nudo. Per richiamare ancora una volta le caverne, il teatro è un fuoco, un cerchio, un luogo in cui ci si raccoglie, ma è vuoto, ha una forza tautologica. È la struttura che parla di noi: la struttura del teatro è una delle forme culturali più potenti dell’uomo.

[Profezia]

Ne La vita nuova oltre all’attenzione all’origine, come altri lavori, esprime una tensione profetica. Il ritorno all’origine si riverbera in uno sguardo verso il futuro, o il non-futuro, verso il quale siamo diretti.

ROMEO CASTELLUCCI

La profezia era una strategia per La vita nuova, che ha uno sguardo teso verso la linea dell’orizzonte. Entrano in gioco anche i profeti. Sono quelli dell’Antico Testamento, ma sono anche profeti africani: l’anello d’oro è anche una reminiscenza della schiavitù, e quindi c’è anche un rapporto con la nostra attuale schiavitù. Ma solo coloro che hanno conosciuto la reale schiavitù possono parlare della nostra.
La profezia non è sempre presente nel mio lavoro. Alcuni lavori sono totalmente chiusi, privi di prospettive e visioni. Il mio prossimo lavoro, un lavoro sulla polizia, sarà totalmente privo di prospettive, piuttosto oscuro.
Ogni tanto mi capita di portare sulla scena figure profetiche, ma sono profeti che confondono. Nel Velo nero del Pastore (2017), Willem Dafoe era su un pulpito e parlava, ma la sua profezia non diceva molto. Le linee dei sermoni erano profetiche, ma con linguaggi impossibili e contenuto sfuggente. Le cinque figure della Vita nuova non sono preti, non c’è nessuna tensione mistica, nessun rapporto con la salvezza intesa in senso metafisico. Al contrario, la profezia riguarda il principio di realtà, è immanente. In questo lavoro c’è semmai un rapporto critico con la realtà, che va rovesciata come vengono ribaltate le automobili: si tratta di convertire l’uso delle cose per renderle nuovamente efficaci per un altro uso. Per inventare mondi, che sono già qui.
Si tratta di mettere in crisi la realtà attraverso il reale. È solo il reale che può sospendere la realtà: fin dalle origini il teatro è una grande battaglia contro il principio di realtà, sovvertendo le leggi fisiche e temporali.

[Politica]

In Democracy in America (2017), all’indomani della vittoria presidenziale di Donald Trump, Romeo Castellucci ha affrontato in maniera diretta un diverso tipo di origine: la nascita della democrazia nelle colonie americane. La sua “riflessione per danze e immagini” scava nelle ambiguità: nel rapporto dei coloni con gli indigeni (e con il linguaggio) ma anche nei fondamenti teologici della fondazione di un nuovo ordine, per esplorare il nesso tra uguaglianza e violenza.

ROMEO CASTELLUCCI

Io sono attratto dalla letteratura americana perché c’è un rapporto profondo con il deserto: la cultura americana è l’Antico Testamento, qualsiasi scrittore americano ha un rapporto con questa forza, il cammino, i grandi spazi. È l’esodo del popolo di Israele, con tutta la violenza che questo comporta, l’uso del sangue, la legittimità di usare la forza per schiacciare i popoli, perché questo viene dall’Antico Testamento e i grandi autori americani ne parlano.
In America ci sono la legge, che è molto arida, e la forza religiosa, che è muscolare. La letteratura americana riflette tutto questo. E Democracy in America è una scusa per vedere il cuore di tenebra di una democrazia che non ha niente a che fare con quella ateniese, ma ha l’energia di quella che Tocqueville chiamava “puritan foundation”, il fondamento dei puritani, che erano l’estrema destra calvinista, una cultura aniconica che proibiva le immagini, come la cultura ebraica. Era di una severità assoluta. Nello spettacolo c’era anche una riflessione sul linguaggio: in una delle scene dello spettacolo c’era un chiasmo: due indiani, due nativi, per salvare la pelle erano costretti a imparare la lingua inglese, mentre la donna della coppia dei contadini si libera di tutte le menzogne parlando la lingua dei nativi. Perché a sterminare i nativi sono stati i documenti, perché non ne capivano il linguaggio, gli facevano fare una firma e portavano via le loro intere regioni. L’America si è formata attraverso una battaglia linguistica.

[Politica]

Si intravvede in trasparenza il confronto con la nascita della democrazia (e del teatro) ad Atene. Anche La vita nuova esplora dunque la dimensione politica.

ROMEO CASTELLUCCI

La politica ne La vita nuova è una politica interiore, interiorizzata, che sfugge al dominio. È una politica priva di discorso, e per questa ragione efficace. Per i greci la politica era la coscienza, ovvero la possibilità di scegliere: la cultura è scegliere. La politica è essere consapevoli, cioè avere cultura. Se hai cultura, scegli. E se scegli, sei politico. Ma è appunto una politica interiorizzata: non ci sono ideologie, è un modo di essere coscienti e in stato di veglia.
Democracy in America era il tema dello spettacolo, che partiva da quel titolo splendido, che mi ha subito colpito3. La parola “democrazia” era gettata sul tavolo, con tutte le sue contraddizioni, con tutti i suoi aspetti inaccettabili: Tocqueville aveva rivelato la problematicità di questa parola, in un’America in cui si poteva già dominare l’opinione pubblica. Cos’è la democrazia? La tirannia della maggioranza.

[Tragedia]

Una possibile sintesi tra mito, tragedia e contemporaneità Romeo Castellucci l’ha trovata nel poderoso ciclo della Tragedia Endogonidia (2002-2004), dove l’origine si proietta nel presente delle metropoli illuminate dal progetto:

“Nel nostro lavoro c’è sempre stato un riferimento al teatro antico, abbiamo sempre avuto questo pensiero rivolto alla dimensione tragica in cui la corruzione è costantemente presente. Il teatro è una lingua corrotta, la tragedia un inganno. Nella Tragedia Endogonidia vive questo pensiero. (…) La tragedia pone fine al rituale, pone fine al mito: essa, che è il perno della cultura occidentale, rappresenta un momento di crisi e contemporaneamente la nascita di qualcosa di nuovo. La creazione della tragedia è per noi un passaggio fondamentale, ed essa è e resta un argomento invincibile. È un problema aperto, e non un fatto archeologico come spesso vogliono farci credere a teatro. Essa rappresenta da sempre lo scoramento dell’uomo, il suo essere solo su questa terra, il suo confrontarsi con un silenzio immenso che gli sta intorno. Questo è un tema universale, e per chi lavora nel teatro resta una disciplina imprescindibile. Anche là dove c’è una commedia, da qualche parte deve esserci una tragedia”.
(Romeo Castellucci, in Andrea Lanini, Dopo la Tragedia Endogonidia, Una conversazione con Romeo Castellucci)

ROMEO CASTELLUCCI

I primi gesti politici sono guardare e stare insieme. La vera politica è strettamente connessa ai luoghi: è un’invenzione dei luoghi. Il teatro è un luogo che si inventa in continuazione, è uno sperimentatore di mondi possibili: quindi è politico ed è all’origine di ogni politica. In questo senso rivendico la valenza politica del teatro, anche se la mia politica non è certo una rivendicazione ideologica o una battaglia per il bene contro il male. La tragedia greca ti mette dalla parte del male: sei tu il cattivo. E questa è anche una grande lezione shakespeariana: il fuoco nero del teatro è portare alla luce il rapporto che si è instaurato con il male, è qualcosa di perturbante, che scandalizza profondamente. È spiacevole, imbarazzante. È il motore dell’estetica occidentale, che non ritrovo solo nella tragedia ma in generale nell’atteggiamento tragico: usiamo un linguaggio che non ci basta ma che al contrario ci domina. La tragedia è insieme un grido altissimo ma anche il controllo midollare della forma, un grido chiuso in un cristallo perfettamente sfaccettato.




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