Alla ricerca dei teatri perduti | La Piccola Scala di Milano

Il secondo palcoscenico che manca alla Scala

Pubblicato il 27/12/2021 / di / ateatro n. 180

Nino Sanzogno alla Piccola Scala

Nata sotto maligna stella… forse, affrontando la vita breve della Piccola Scala, esagero nel rievocare il tragico destino di Desdemona. Anzi, esagero senz’altro. Perché l’avventura era iniziata sotto buoni, anche se non proprio ottimi auspici. Il teatro, dall’aspetto gradevolmente dimesso disegnato dall’architetto Piero Portaluppi e purtroppo con un ingresso decisamente scomodo per insuperabili ragioni di spazio, venne inaugurata il 26 dicembre del 1955 con l’opera Il matrimonio segreto, il gioiello di Domenico Cimarosa che mandò in estasi i primi spettatori viennesi del 1792 che la vollero ascoltare due volte di seguito (così almeno si racconta). Sei personaggi, un’unica scena, niente coro: perfetta per un piccolo teatro. E cantanti difficili da dimenticare: Luigi Alva quasi esordiente (infatti con qualche esitazione in scena, che aggiunse fascino alla timidezza dell’innamorato Paolino), Graziella Sciutti e Giulietta Simionato, guidati da Nino Sanzogno, sempre accurato e affidabile, e coordinati da Giorgio Strehler, che poche settimane prima (il 5 dicembre) aveva dato il via nell’altro Piccolo, quello di via Rovello, al grande successo del Nost Milan (e alla Scala c’era anche Luciano Damiani, scenografo di entrambi gli spettacoli).
Insomma, un titolo quasi di repertorio e uno spettacolo di buon livello, ma senza quel tocco di novità che avrebbe potuto renderlo adatto a dare ampia risonanza alla inaugurazione di un teatro. Infatti, e giustamente, si era pensato ad altro, puntando su un giovane direttore d’orchestra italiano in rapida ascesa – aveva già diretto a New York e a Vienna – alla guida di un cast con nomi di fama internazionale: Così fan tutte diretto da Guido Cantelli, con la Schwarzkopf, la Merriman, la Sciutti, Alva, Panerai e Calabrese. Ma questa teorica inaugurazione, per ragioni mai del tutto chiarite, venne spostata in seconda posizione, il 27 gennaio del 1956, una serata di gala in coincidenza con il bicentenario della nascita di Mozart: un grande spettacolo (documentato da una registrazione dal vivo), che ebbe poi qualche ripresa anche all’estero.
Ma anche questa era una seconda scelta. L’idea, o meglio, il sogno del sovrintendente Antonio Ghiringhelli era un altro: il Falstaff diretto da Arturo Toscanini. L’ultima volta che il Maestro aveva diretto opere in scena era stato nel 1937 al Festival di Salisburgo (Fidelio, Falstaff, Flauto magico, Maestri cantori di Norimberga), e dopo quasi vent’anni sarebbe stato un ritorno clamoroso, che avrebbe segnato fortemente la vita futura del teatro: l’ultima fatica direttoriale e scenica del grande Maestro, alle prese con l’ultima opera di Verdi, in un piccolo teatro creato su misura per quell’evento che, senza dubbio, avrebbe segnato la storia dell’interpretazione musicale. Luchino Visconti, probabile regista dello spettacolo, nel 1957 scrisse che Toscanini immaginava e “voleva il vero Falstaff, in cui i personaggi recitano proprio la commedia più ancora che cantarla”: qualcosa sulla misura di un palcoscenico di dimensioni ridotte, cantanti quasi a contatto con il pubblico, una piccola orchestra che avrebbe potuto esaltare quel tanto di cameristico che affiora dalla partitura. Ma il Maestro nel 1955 aveva 88 anni – sarebbe morto quasi novantenne il 16 gennaio 1957 – e proprio nei giorni in cui più attivamente si dedicava al progetto ebbe una crisi cardiaca e dovette rinunciare.

La Piccola Scala in un disegno di Piero Portaluppi

Le inaugurazioni, dunque: quella vera, ma soltanto sognata; l’altra, affidata a un direttore in irresistibile ascesa ma declassata in seconda posizione; quella reale più che dignitosa, ma priva di quello smalto necessario a segnare la vita di un teatro; che poi, al di là del valore simbolico, e anche pubblicitario che può derivare da una inaugurazione, vive della natura di chi lo frequenta.
Il bello di questo teatro – non so perché ho usato questa espressione, “il bello”, sarebbe stato più corretto scrivere “la caratteristica”, ma mi è venuto d’istinto – il bello di questo teatro è stato il suo pubblico. In parte, forse in gran parte il medesimo della Scala, ma particolarmente attento, aperto, fiducioso di partecipare a qualcosa che riguardava solo ed esclusivamente la musica, anche perché suggestionato dalle linee essenziali della sala che non lo distraevano dalla vista di ori, stucchi e velluti.
E vorrei aggiungere la determinante influenza di un nome, quello di Nino Sanzogno che, nei primi vent’anni di vita della Piccola – ossia due terzi dell’intera vita del teatro – ha diretto il settanta per cento degli spettacoli. Un direttore d’orchestra di grandi risorse professionali, diligente, capace di affrontare un repertorio vastissimo, ma non destinato alla fama. Nel 2011 non abbiamo celebrato i cento anni dalla sua nascita, il 4 maggio 2008 nessun teatro ha deciso di intitolarsi al suo nome in occasione dei venticinque dalla morte. Ma, nella vita della Piccola Scala, è stato essenziale: ci ha insegnato che la nostra attenzione non doveva essere condizionata da quello che stava accadendo in buca, ma un poco più in alto, sul palcoscenico, e che lo stimolo che ci aveva fatto entrare in sala era il desiderio di ascoltare una musica del tutto sconosciuta, o poco nota, o già del tutto familiare ma non in quella forma, in quei modi che solo un piccolo teatro ci poteva assicurare.
Quale musica, appunto. E ritornando alle inaugurazioni, Matrimonio segreto e Così fan tutte sono quasi coetanee: rispettivamente 1792 e 1790. Un ampio giro d’orizzonte nell’ambito del teatro del Settecento poteva essere la scelta più ovvia, arricchita da qualche incursione nel secolo precedente che aveva visto la nascita del melodramma. Infatti, già nella prima stagione venne presentato il Mitridate Eupatore di Alessandro Scarlatti, un’opera seria del 1707. Ma non era un buon momento per quel genere di musica, che pareva avesse la necessità di una revisione per farla assomigliare il più possibile a qualcosa di simile al suono del primo Ottocento, senza contare il problema dei cantanti allora disponibili, del tutto inadatti ad affrontare quel repertorio. Ancora più problematica l’esplorazione del Seicento, e l’unica esecuzione attendibile fu Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, diretto da Harnoncourt, che inaugurò la stagione 1972-73. Più adatto alle modalità esecutive di quegli anni il mondo dell’opera buffa settecentesca, che infatti fu abbastanza presente ma con le solite opere di Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, Piccinni, Fioravanti, che già circolavano in molti teatri italiani. L’unica vera riscoperta fu Il marito disperato di Cimarosa.
Molto meglio inoltrarsi nel Novecento contemporaneo, alla ricerca di qualcosa di veramente nuovo, o presunto tale. E l’occasione si verificò nel 1965, con Atomtod di Giacomo Manzoni, che venne realizzata con un particolare impegno produttivo: spettacolari scene di Josef Svoboda, inserti cinematografici come si usa fare oggi, un giovane direttore d’orchestra alla prima prova scaligera, Claudio Abbado, non propriamente emergente ma destinato a esserlo.

Il progetto di Josef Svoboda per la scena di Atomtod di Giacomo Manzoni alla Piccola Scala (1965)
(Josef Svoboda Archives)

Come spesso accade, e al di là del valore del singolo esperimento, sono imprese destinate a non avere un seguito, a meno che non facciano parte di un progetto di ampia portata, che non era nelle intenzioni della Piccola Scala. E tuttavia, prima di trinciare giudizi e condanne – scrisse Eugenio Montale sul “Corriere della Sera” – “bisognerà chiedersi se oggi dall’altra parte, da quella dei musicisti di teatro tradizionali, ci venga dato qualcosa di meglio. Si può legittimamente dubitarne”.
Proprio quelli che Montale definisce “musicisti di teatro tradizionali” esprimendo qualche dubbio sulla qualità delle loro opere, sono i più presenti nei programmi della Piccola Scala: con molte prime esecuzioni – La donna è mobile di Riccardo Malipiero nel 1957, Una domanda di matrimonio di Luciano Chailly nello stesso anno, La scuola delle mogli di Mortari nel 1959, La notte di un nevrastenico di Nino Rota nel 1960, Il linguaggio dei fiori di Rossellini nel 1963, e di Gino Negri Pubblicità ninfa gentile nel 1970 e Diario dell’assassinata nel 1978, e altri ancora. Di maggiore interesse, anche se non in prima esecuzione, Il cappello di paglia di Firenze di Nino Rota, Il Cordovano di Goffedo Petrassi, Il torneo notturno di Gian Francesco Malipiero.
C’erano altri campi di esplorazione, per esempio all’estero. Nella prima stagione ci fu una bella edizione del Retablo de Maese Pedro di De Falla con “I Piccoli” di Podrecca, nel 1957 comparve per la prima volta Stravinskij con l’Histoire du soldat, dove Strehler svolgeva le funzioni di regista e narratore, seguito tre anni dopo da Mavra, che inaugurò la stagione delle opere straniere cantate in traduzione italiana, come Arianna a Nasso di Strauss diretto da Hermann Scherchen, Il giro di vite di Benjamin Britten, Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Kurt Weill, ancora con la coppia Strehler e Damiani. Niente di memorabile, con anche qualche passo falso, come nel 1977 L’opera del mendicante di Gay e Pepusch nella revisione di Britten, la ballad-opera che, affidata al direttore Pierluigi Urbini e al regista Filippo Crivelli riuscì un po’ a mezza via fra opera all’italiana e cabaret.
Poi, fu nuovamente la volta di Toscanini. Il 16 gennaio 1982, venticinquennale della morte del Maestro, la Piccola Scala prese il nome di “Piccola Scala Arturo Toscanini”, con una serata di gala di rievocazione che è meglio dimenticare. Tanto più che, a distanza di un anno, un’ordinanza dei Vigili del fuoco ridusse la capienza del teatro, per motivi di sicurezza, da 550 a 400 posti. Tolti i 50 riservati a giornalisti e invitati, rimanevano solo 350 spettatori paganti: troppo pochi per cercare di bilanciare spese e ricavi. La stagione 1983-1984 venne di conseguenza cancellata quando già era stata in parte delineata, e l’Orfeo di Luigi Rossi, un’opera del 1647, trasmigrò armi e bagagli nella sala grande.
“Superior stabat lupus”… Era inevitabile. In mancanza di una direzione artistica autonoma, di un progetto a lungo termine, di una volontà autonoma e capace di imporsi, il teatro piccolo era destinato a diventare soltanto la riserva di quello grande: anche in un senso del tutto materiale. Dominato ormai da quella tendenza allo spettacolare che dura tuttora, il teatro maggiore aveva sempre più bisogno di spazi, e la contiguità dei due palcoscenici era un’opportunità da non trascurare. Si cominciò forse per caso, poi divenne una pratica costante: magazzino delle scene. L’ultimo spettacolo nel novembre del 1984.
La stella era dunque “maligna”? Forse soltanto sfortunata e, per tornare al Falstaff, o più precisamente al beffardo Bardolfo, possiamo dire che si trattava soltanto di “una favola ch’egli ha sognato”. Chi? Ghiringhelli? Toscanini? Tutti e due? No… tutti coloro che, negli anni Cinquanta, erano ancora ingenui appassionati di melodramma, avevano sperato che la favola potesse durare un tempo infinito, e non si sono neppure accorti che invece era tutto finito.




Tag: Alla ricerca dei teatri perduti (3), Giorgio Strehler (17)

InformazioniEduardo Rescigno

Eduardo Rescigno (Milano, 1931) è un musicologo, scrittore e commediografo italiano. Altri post