Tradurre teatro con lo schwa

Un'intervista a Stefano Casi sulla traduzione di evǝ di Jo Clifford

Pubblicato il 01/03/2022 / di / ateatro n. 182

Eva Robin’s è evǝ

evǝ è andato in scena dal 18 al 20 febbraio presso Teatri di Vita a Bologna. Lo spettacolo, diretto da Andrea Adriatico, vede in scena Eva Robin’s, Patrizia Bernardi, Rose Freeman e Anas Arqawi, Met Decay, Saverio Peschechera.
Il testo di Jo Clifford è stato tradotto da Stefano Casi: gli abbiamo posto alcuni quesiti nodali per il contemporaneo, non solo teatrale ma anche sociale e politico.

Cosa significa porsi come traduttore di un testo teatrale? Come si colloca questa figura nel comparto teatrale e come interagisce con la regia dello spettacolo? Se ciò avviene, quanto è importante la relazione con l’autore che si è tradotto?

Non essendo propriamente un traduttore, per quello che mi riguarda la traduzione di un testo teatrale rappresenta prima di tutto un mettersi al servizio della regia. Nel mio caso, tutto parte sempre da una sollecitazione di Andrea Adriatico e dalla sua esigenza di avere una versione italiana attenta all’oralità. Per esempio, per The Sunset Limited di Cormac McCarthy, che portammo in scena per la prima volta in Italia nel 2010, l’impegno maggiore per me fu cercare di restituire in italiano quel parlato frammentato e incerto, adatto in scena, che la pur bella traduzione pubblicata in volume non poteva avere. Sapendo poi come Adriatico lavora con i testi, cioè impastandoli in una sua ulteriore “drammaturgia” che mette in relazione parole, corpi e spazio, e quindi facendoli diventare propri, il mio rapporto con l’autore è meno importante di quanto normalmente sarebbe per una traduzione: l’obiettivo, ovviamente nel rispetto e fedeltà assoluta al testo, è dare al regista una partitura testuale su cui intervenire. Nel caso dei due monologhi La maschia di Claire Dowie ed evǝ di Jo Clifford, ho lavorato soprattutto provando a ricostruire in italiano un tappeto verbale vivace, con riferimenti italiani coerenti e cercando risonanze lessicali particolari. Dopo la lettura delle mie versioni, è stato Adriatico a propormi i titoli italiani (in originale sono, rispettivamente, H to He e God’s New Frock), individuando evidentemente suggestioni che avevo sollevato, a dimostrazione di come nel nostro caso il lavoro di traduzione abbia indissolubili legami con le aspettative del regista. Anche se poi, dopo la consegna della traduzione, non ho alcun coinvolgimento nella creazione vera e propria dello spettacolo.

Il testo non è un banale trattato sul genere sessuale ma interroga politicamente una istanza di qualità della vita vissuta spesso inconsapevolmente dentro stereotipi e obblighi. Da dove è nata l’esigenza di tradurre questo testo? È prevista una sua pubblicazione?

Come dicevo, la spinta è venuta da Andrea Adriatico, sulla base del suo impegno sui temi legati all’identità di genere e all’orientamento sessuale, che sono anche parte dei miei interessi e dei miei studi. Dopo spettacoli che hanno affrontato le questioni LGBT attraverso prospettive insolite e capaci di sollecitare sguardi diversi, da Copi a Dowie, senza dimenticare l’approccio queer e disturbante dato da Adriatico alla sua trilogia di Elfriede Jelinek, era necessario aggiungere un tassello ulteriore. La scelta è caduta su quest’opera che era già stata portata in scena nel 2007 a Intercity Festival, e che effettivamente entra in modo ancor più tagliente nella questione dei generi, facendola diventare cartina di tornasole di un discorso più complesso che va alle radici della nostra cultura fondata sull’imprinting religioso. Da questo punto di vista, il testo, esplicitamente LGBT per le tematiche legate soprattutto alla transessualità, è in realtà una riflessione ben più ampia e potente sulle origini del patriarcato e della supremazia maschile, e quindi legge in altro modo, molto stimolante, i modelli su cui si basano le istanze sociali più recenti, dalla disuguaglianza di genere nella società e nell’economia al #metoo. Una traduzione italiana fu pubblicata proprio in occasione di Intercity da Ubulibri nel volume Teatro scozzese (anche se in realtà l’autrice è inglese), quindi al momento non pensiamo di pubblicare questa specifica versione.

Nel testo si ripete spesso che c’è un maschile, un femminile e “qualcosa che sta nel mezzo”. Di cosa si tratta? È necessario ribadirlo? Perché? Cosa sta accadendo in Italia e perché il testo porta un titolo così manifesto nella sua presa di posizione sull’uso della declinazione di genere?

Il testo è un grido di sofferenza da parte di una persona che non si riconosce nel sistema imposto da millenni di cultura patriarcale e di soprusi maschili, ma d’altra parte è il sistema stesso che non riconosce quella persona in quanto non binaria o in quanto transgender, oppure semplicemente in quanto persona che rifiuta le etichette e i dogmi. In un certo senso, il testo è una vera e propria preghiera laica per un umanesimo che mette la persona al centro della creazione (sia essa dovuta a un dio o a un big bang), e al tempo stesso un’invettiva. E allora sì, c’è proprio bisogno di ribadire che il mondo non è binario, e che c’è sempre “qualcosa nel mezzo”, che si tratti di identità, ma forse anche di etica, di arte, di politica internazionale: se ci sfugge quel “qualcosa nel mezzo” e si legge il mondo in bianco e nero, allora ci sarà sempre sofferenza da una parte e ignoranza dall’altra. E allora, il titolo con lo schwa, proprio durante mesi di dibattito che sta assumendo i toni dello scontro, si impone proprio per il suo concetto pacificante e inclusivo: e lo dico anche rivolgendomi ai dogmatici dell’uso dello schwa. O lo schwa è un’occasione per includere e sfumare i chiaroscuri, oppure diventa un’altra religione e come tale, per rimanere nel solco del testo di Jo Clifford, una violenza sulla realtà.

È possibile tornare alla “beatitudine del grembo materno”? Il teatro può essere un modo per fare dimenticare che esistono differenze e direzioni?

Il passaggio del “grembo materno” è potente e struggente: in quel momento, per un attimo, torniamo tutti e tutte a quello stato pre-vita che ci accomuna con ogni essere vivente. E il momento del testo in cui Dio stesso galleggia come in un grembo materno, in barba al maschio-centrismo delle religioni e a una Genesi interamente sull’asse maschile (un Dio maschio crea un individuo maschio, mentre la donna è solo un ripiego successivo), dissolve tutte le costruzioni e le sovrastrutture. Tornando al grembo materno, siamo esseri sospesi in un limbo che dovremmo sempre tenere a mente anche dopo. In tutto questo, il compito del teatro è semmai contrario, cioè quello di creare ulteriori costruzioni e sovrastrutture, grazie al meraviglioso meccanismo della finzione e della simulazione. Il teatro deve mostrarci come anche la nostra vita sia ricca di quelle finzioni e di quelle simulazioni che ci fanno dimenticare il limbo del grembo materno. Insomma, il teatro non deve far dimenticare le differenze, ma aiutarci a evidenziarle per averle più chiare. Quello che amo di più è proprio il teatro, per dirla con il primo Scabia, “nello spazio degli scontri”, il teatro che non ti porta alla pacificazione, ma che fa emergere i conflitti, spingendoti alla tua responsabilità rispetto a quei conflitti.

Il nome di Dio è femminile plurale e “Dio è come un uomo di mezza età con un guardaroba pieno di sottane” ma la sottana è un parametro. Cos’hai provato quando hai riscritto questo testo? Perché la traduzione è sempre una riscrittura, non è così?

La traduzione è sempre una riscrittura, inevitabilmente: nel caso di un testo teatrale è un atto drammaturgico. Per esempio, proprio nella frase citata sta una parola che ritorna spesso nel testo, su cui ho dovuto riflettere a lungo: “frock”. Nel 2007 era stata tradotta “tonaca”, visto che spesso nel testo è riferita ai preti, e quindi fu scelto il termine tecnico dei vestimenti talari. Ma evidentemente, come si capisce dalla frase citata, quella parola non si limita ai preti, e soprattutto è simbolo di altro: non è solo questione religiosa, ma è la cartina di tornasole della nostra subordinazione al sistema che ci impone maschere e ruoli. Alla fine, “sottana” è stata per me la parola giusta, così ricca di significati (rispetto sia alle donne sia ai preti), ma anche con una sonorità squillante che riflette bene anche il valore semantico della parola: “sottana” è ciò che sta sotto, che è a stretto contatto con l’intimità, che si nasconde, e allora, qual è la vera sottana del prete, la vera sottana di Dio, e soprattutto la vera sottana che tutte e tutti abbiamo? La domanda ha davvero centrato uno dei punti più stimolanti per me proprio sul senso drammaturgico della traduzione al servizio della regia. Quando ho visto lo spettacolo concluso, alle cui prove non ho mai partecipato, ho potuto vedere come anche Andrea Adriatico sia stato colpito, per la creazione dello spettacolo, proprio dalla parola “sottana” nell’individuare un punto nevralgico del lavoro scenico e attoriale, in modo totalmente inatteso per me, come se anche lui abbia a sua volta tradotto il mio “sottana” in qualcos’altro di imprevedibile e al tempo stesso semanticamente denso e illuminante.

Stefano Casi è direttore artistico di Teatri di Vita (Bologna) dal 1997, dramaturg e sceneggiatore. Per il teatro ha tradotto Donne. Guerra. Commedia di Thomas Brasch, The Sunset Limited di Cormac McCarthy, La maschia di Claire Dowie ed evǝ di Jo Clifford. Ha lavorato come giornalista per l’Unità e la Repubblica, e ha diretto la rivista culturale Società di pensieri. Ha pubblicato diversi libri sul teatro di Pasolini, Copi, Beckett, Scabia, Adriatico, Babilonia Teatri. Insegna al Master di Imprenditoria dello Spettacolo dell’Università di Bologna.



InformazioniVincenza Di Vita

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