Una tragedia all’italiana. Un’intervista a Massimo Popolizio

Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller approda al Piccolo Teatro di Milano

Pubblicato il 09/05/2023 / di / ateatro n. 189

Uno sguardo dal ponte debuttò in una prima versione a Broadway nel 1955. La sera della prima, tra gli spettatori c’era Marilyn Monroe, che pochi mesi dopo avrebbe sposato l’autore. Nel 1956 il testo, in una versione più ampia, in due atti, venne allestito a Londra da Peter Brook.
In Italia il testo arrivò nel 1958, regia di Luchino Visconti con Paolo Stoppa e Rina Morelli nei panni di Eddie Carbone e di sua moglie Beatrice. Nel 2010
A View from the Bridge è stato riallestito a New York: per calarsi nei panni della diciassettenne italoamericana Catherine, la bionda Scarlett Johanson era diventata castana. Anche se il testo ha una storia di allestimenti importanti, non è tra le opere più celebri di Arthur Miller, rispetto a testi come Morte di un commesso viaggiatore o a Il crogiolo.

Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller: Massimo Popolizio (ph. Yasuko Kageyama)

Massimo, che cosa ti ha interessato di Uno sguardo dal ponte?

Succede tutto in un microcosmo italiano, anche se siamo in America. I rapporti e le dinamiche sono profondamente italiani. Siamo a Brooklyn, ma in realtà di americano ci sono solo i due poliziotti, il ponte e il telefono. Tutto il resto è italiano, a cominciare i nomi dei personaggi. Anche il narratore, l’avvocato che rievoca la vicenda si chiama Alfieri.
Storie come questa possono accadere solo a certe latitudini. Sono passioni devastanti, fortissime, violente, molto siciliane. Le sento vicine anche per le mie origini. Una vicenda come questa non potrebbe certo capitare in Belgio o in Finlandia! Ma quei personaggi non potrebbero neanche essere napoletani. Solo in certi luoghi si può morire d’amore. La canzone che attraverso tutto lo spettacolo arriva da Sedotta e abbandonata e dice “Brucio pe’ ttia”. Solo un siciliano può dire “Brucio per te”…

Per certi aspetti il testo potrebbe apparire datato, sia per gli anni Cinquanta in cui è stato scritto e ambientato, sia per l’ambizione di Miller di tornare alla tragedia, con l’avvocato Alfieri che svolge quasi la funzione del coro..

Però ha una sua contemporaneità. Ci aiutano alcuni riferimenti cinematografici abbastanza immediati: sono gli stessi ambienti di Fronte del porto. Ed quella che affronta Miller è una situazione cinematografica.

Peraltro la vicenda ci viene narrata dopo che tutto si è consumato, il testo è un flashback.

Sembra quasi una sceneggiatura. Come ambientazione avevo pensato a un interno vero e a una strada vera, ma questa è anche una storia di fantasmi. Marco Rossi ha realizzato questi mobili sbiaditi dal tempo, con gli attori che appaiono come dal nulla e scompaiono nel nulla. E diventano fondamentali le luci di Gianni Pollini, che dividono lo spazio come in una serie di inquadrature.

E il tuo personaggio?

A una certa età fai i preti, oppure i padri e i nonni… Invece mi ritrovo per la terza volta nei panni di un uomo maturo alle prese con una donna molto giovane. Prima c’era stata Lolita, la sceneggiatura di Vladimir Nabokov portata in scena da Luca Ronconi nel 2001 al Piccolo Teatro, e poi Blackbird dello scozzese David Harrower nel 2011 con la regia di Luis Pasqual, un testo problematico sulla pedofilia ispirato a un fatto di cronaca. Ma nel caso di Uno sguardo dal ponte non è pedofilia, è un altro tipo di passione. E’ uno sentimento possessivo: Eddie non vuole vederla crescere, vuole che Catherine resti lì, che non se ne vada.

Anche se una tensione sessuale di sicuro c’è…

Fortissima. Ma più che sessuale, erotica, fortemente erotica. Ed è un testo violento, molto violento.

Sono rapporti complessi, con molte ambiguità.

La nipote non è solo una vittima. La la sua prima battuta è “Ti piace questa gonna? Ti piacciono i miei capelli?” Vuole consenso. A un certo punto è come se Catherine dicesse allo zio: “Posso andarmene solo se tu mi dici che posso andarmene”. Ma che sentimenti prova per questo uomo molto più anziano di lei, che diventa sempre più patetico? Forse gli fa pena, ed è per questo che fatica ad andarsene.

Anche se questo atteggiamento riflette forse il punto di vista – o le fantasie – di un uomo come Miller. Nel film di Sidney Lumet (1962), Eddie era Raf Vallone…

Con quella sua bellissima faccia! Per gli stranieri aveva proprio quel volto da neorealismo…

Ed era pure bello!

Belloccio e proprio perbene. E molto più buono di me. La sua metamorfosi era molto più chiara. Il mio Eddie invece è un uomo potenzialmente violento. Il testo si apre già in una situazione familiare corrotta, in cui i rigurgiti di violenza vengono portati a galla dall’arrivo dei due immigrati che sbarcano “da giù”, da un qualche paese non identificato della Sicilia. Ed è come se la loro presenza gli tirasse fuori quello che aveva dimenticato vivendo in un paese straniero.

Perché Winnie Carbone si perde?

L’irrazionalità. C’è qualcosa di molto profondo che lo fa cadere a pezzi. Vede cose che non si vedono. Perde lucidità e acquista violenza. E fa cose inimmaginabili.

Come il bacio a Rodolpho, che nel film di Lumet sarebbe è il primo bacio tra due uomini della storia del cinema…

Eddie arriva al parossismo per cui un ragazzo biondo deve essere per forza un omosessuale. Ma quel bacio è un paradosso, una provocazione.

Eddie vive e lavora nel microcosmo degli immigrati che abitano proprio sotto il ponte di Brooklyn: l’immagine del ponte giganteggiava sullo sfondo della scena ideata da Mario Garbuglia per Visconti. Com’è questa immigrazione italiana vista da Arthur Miller, in un’atmosfera che a tratti sembra ricordare La Cavalleria rusticana?

Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller: Lorenzo Grilli, Valentina Sperlì, Massimo Popolizio, Gaja Maciale (ph. Yasuko Kageyama)

E’ lo sguardo di un americano che ha le sue idee sull’Italia. A un certo punto nel testo di Miller Rodolpho si stupisce perché a New York non ci sono fontane: nell’immaginario dello scrittore l’Italia del Sud doveva essere piena di fontane. Ma oltre a questi cliché, che abbiamo sfrondato, c’è qualcosa di più profondo, di più vero. A Miller l’ispirazione era venuta da un fato di cronaca che, come ricorda lui stesso, lo aveva colpito molto e gli era rimasto nella memoria. Aggiunge che aveva dovuto scrivere Uno sguardo dal ponte perché, se quell’episodio gli era rimato nella memoria, in quella storia ci doveva essere qualcosa che andava trasmesso agli altri. Mi viene da chiedermi perché, tra tutti i fatti di cronaca in cui si era imbattuto, a Miller fosse rimasto impresso proprio questo. Forse nel personaggio di Eddie c’è qualcosa di Miller, non realizzato ma eroticamente forte.

Miller dipinge questo gruppo di immigrati in un paese straniero, che tipicamente vivevano quasi sempre tra di loro, e magari mandavano in patria le cartoline con la celeberrima vista.

Molto spesso agli attori suggerivo: “Questa battuta, pensatela in turco! Pensate di essere una comunità straniera, in un luogo che ha le sue abitudini”. C’è questa possessività, la paura di perdere l’identità. Un po’ come in quei film inglesi dove si vede una ragazza indiana di seconda generazione che si innamora di un “altro” e i suoi parenti vanno in crisi…

O come in certi episodi di cronaca nera, anche italiana, in cui una ragazza si ribella alla volontà dei parenti e si scatena la tragedia.

Anche se qui l’immigrazione è solo un gancio, Furore su questi temi è molto più esplicito.

E poi in quella New York sono tutti italiani – o italoamericani… Non c’è l’ingresso dell’“altro” che mette in crisi l’identità del gruppo.

In questo caso non c’è quella paura del diverso. A Eddie arrivano in casa due ragazzi. Marco ha tre figli, è più posato, vorrebbe solo fare i soldi e tornarsene in Sicilia. Suo fratello invece vuole essere americano. E’ più vitale, il nuovo mondo lo affascina, gli piace il mondo dello spettacolo. Questa ansia di contemporaneità fa andare Eddie fuori di testa, perché rischia di spazzare via i suoi affetti.

Il dialogo – o il contrasto – tra la Sicilia e l’America si riflette anche nelle musiche…

Si sentono delle bande, ci sono canzoni siciliane molto scure. E poi ci sono alcune canzonette americane, musica leggera. Ma in realtà non è che da una parte ci sia la cupezza e dall’altra l’allegria. Molte canzoni apparentemente spensierate nascondono molta più violenza di una banda siciliana.

I’m gonna buy a paper doll that I can call my own
A doll that other fellows cannot steal

Mi comprerò una bambola di carta che sarà solo mia
Una bambola che gli altri ragazzi non mi potranno rubare.

Il testo mette a confronto due donne che dipendono da un brav’uomo, fin troppo affettuoso e premuroso, che in realtà è un padre-padrone.

Quando la interpretarono Paolo Stoppa e Rina Morelli, lei era un po’ una succube del marito. In altri allestimenti, veniva fuori il cliché della donna siciliana. Per me invece Beatrice è una specie di pantera. La moglie è l’unica che sa. Capisce tutto. E’ lei che dice a Catherine: “Guarda che non sei più una bambina. Io ti capisco perché sono donna e come donna tu devi andare via”.

Deve giocare la sua partita.

A Valentina Sperlì ho detto: “Pensa a una belva ferita. Sai che per salvaguardare l’uomo che ami devi far fuori quella ragazzina”. C’è una scena un cui Beatrice dice a Catherine: “Ma tu credi che io sono gelosa di te?”, e si mette il rossetto, come a dire: “ Nonostante l’età, esisto”. Catherine invece è una specie di selvaggia, con una vitalità prorompente. Per un uomo che sta invecchiando, questa energia può avere un certo fascino: la voglia di vivere, la freschezza, il fatto che lei gli risponde e gli si contrappone in maniera forte. Eddie è attratto anche da questo.

In questi anni, con le tue regie, stai lavorando a quello che potremmo definire “un teatro popolare di qualità”. Penso a spettacoli come Ragazzi di vita (2016) dal romanzo di Pier Paolo Pasolini, a Furore (2020) da John Steinbeck in forma di monologo, fino a M (2021), dal romanzo di Antonio Scurati, tutti e tre con la drammaturgia di Emanuele Trevi, e poi a Un nemico del popolo di Henrik Ibsen (2019) e a questo spettacolo. Emerge un modo assai preciso di fare teatro.

Finché c’è stato Ronconi, non avrei mai osato fare una regia… Ma questo percorso non è frutto di una scelta fatta a tavolino. E’ che io so fare solo questo, e sto male se non lo faccio. Quando vengo scritturato come attore, rispondo a una richiesta che mi arriva dall’esterno. Ma quando mi assumo in prima persona la responsabilità della scelta del testo e degli attori, riesco a farlo solo cosi. Sopratutto con un dramma come questo, basato sui rapporti tra i personaggi e dunque sulla recitazione. La mia esperienza con Ronconi, e con quasi tutti gli altri registi con cui ho lavorato, mi ha insegnato che al centro della situazione c’è sempre un nucleo di attori. Io, lo dico con molta umiltà, non sono un uomo estremamente colto, ho una cultura media, ma ho un istinto di palcoscenico che mi fa superare certe difficoltà culturali. Con gli attori mi esprimo in un certo modo, perché è quello che so fare: qualità, ma anche con una certa semplicità.

E come si arriva a questa semplicità?

Bisogna venire a vedere le prove per capire quanto sono maniaco. Per arrivare a quei movimenti semplici, che però sono sincronizzati come un metronomo, ci vogliono molte prove. Tutte le repliche hanno la stessa durata, come se ci fosse un metronomo, anche perché gli attacchi musicali danno punti di riferimento precisi. Durante le prove, agli attori devo dare molti esempi per far vedere quello che voglio. E fatico molto, perché faccio la parte di tutti gli altri, oltre che la mia. Ho avuto l’imprinting di un regista come Ronconi, che durante le prove faticava molto.

C’è anche una dimensione politica e civile negli spettacoli che hai fatto in questi anni.

Spero di poterla mantenere anche nel futuro. Oggi ripensavo a Ruy Blas di Victor Hugo, una tragedia in versi ambientata alla corte di Spagna nel Seicento. Ero protagonista dello spettacolo che Luca Ronconi allestì a Torino nel 1996. Oggi forse non si coglierebbero i riferimenti all’attualità, alla dimensione politica: ma quel testo parla di corruzione e di potere, ed eravamo all’epoca di Tangentopoli. Io allora non mi rendevo conto di tutte queste implicazioni, anche perché avevo molti problemi pratici da risolvere: era uno spettacolo in versi, molto difficoltoso per un attore.

Popolare significa anche saper comunicare con il pubblico, voler comunicare con il pubblico.

In passato ho fatto anche tanto di teatro per addetti ai lavori. Ma ormai ho 62 anni e quel tempo è finito. Mi piace di più che ci applaudano, è anche un fatto fisico. A questo punto della mia vita, so che l’asticella è sempre alta. E in ogni caso, penso che ci debba essere sempre un buon motivo in più per far alzare uno spettatore dal divano di casa, per farlo uscire e venire a teatro. Può essere una motivazione sociale, può essere il cast, o magari la curiosità per un evento molto spettacolare, che dice qualcosa di più del testo. A volte questa esca l’ho trovata in maniera più esplicita, per esempio con M o con Furore, in altri casi la seduzione è meno evidente, come in questo caso.
Soprattutto uno spettacolo, per essere popolare, deve avere una qualità alta, altrimenti non ti viene a vedere nessuno. Nonostante il nome dell’autore, del regista, degli attori. Oggi il pubblico non lo puoi fregare.

Secondo te l’atteggiamento del pubblico è cambiato dopo la pandemia?

C’è un grande ritorno in platea. Anche per questo spettacolo, che non strizza l’occhio al pubblico. Per esempio, all’inizio ci sono battute in siciliano stretto, che ho fatto tradurre a Salvo Tessitore, per rendere evidente questo ritorno di sicilianità.
In generale, la mia impressione è che ci siano meno abbonati. Dopo la pandemia, le motivazioni per portare gente al teatro sono molto cambiate: oggi lo spettatore sceglie di volta per volta che cosa andare a vedere. In questi anni, con una serie di spettacoli che hanno seminato bene perché hanno avuto una cera importanza, ci siamo creati un piccolo credito che non deve andare deluso. Bisogna essere attenti a fare spettacoli non troppo facili, a nemmeno troppo difficili, che offrano chiavi d’accesso al pubblico.

Come fate tu e la compagnia a mantenere questa precisione, nel corso di una tournée con decine di repliche, in tanti teatri diversi?

Per loro disgrazia, i miei attori hanno il regista in scena. “Valentina, quel cooooosì lo hai tenuto troppo lungo.” “Michele, in quella battuta hai perso energia…” Ogni sera cerco di dare consigli, e naturalmente rivediamo lo spettacolo a seconda degli spazi in cui andiamo, se i palcoscenici sono più grandi o più stretti. Periodicamente, dopo un certo numero di repliche, facciamo un tagliando. Il reset scenico dello spettacolo viene fatto di continuo. Questo è un bene, perché ci mantiene vivi, ci risparmia la routine che spesso appesantisce il teatro privato. Noi ripetiamo lo spettacolo, sera dopo sera, avendo sempre un bersaglio preciso da cogliere.




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