Passato e futuro nella cooperazione teatrale: memorie del Gruppo della Rocca

In anteprima il saggio dal volume Donne e impresa teatrale a cura di Stefania Bruno e Loredana Stendardo

Pubblicato il 30/09/2024 / di / ateatro n. 198

Due eventi riaccendono i riflettori sulla cooperazione teatrale, che è stato uno degli elementi più dinamici del sistema teatrale italiano.

Il primo è il convegno Cooperazione e teatro: una storia al futuro, nel pomeriggio del 4 ottobre 2024 al Teatro Vascello di Roma, nell’ambito delle celebrazioni per i cinquant’anni della Cooperativa La Fabbrica dell’Attore.
Scarica il programma del convegno Cooperazione e teatro.

Il secondo è la pubblicazione di Donne e impresa teatrale a cura di Stefania Bruno e Loredana Stendardo (Napoli, Editoriale Scientifica, 2024), che documenta il convegno organizzato dalla Cooperativa En Kai Pan, che si è svolto a Napoli il 10 e 11 giugno 2021. Il volume ricostruisce e ri-narra l’emersione delle donne all’interno della cooperazione teatrale in Italia dagli anni Settanta del secolo scorso in poi attraverso il dialogo tra studiose, artiste, organizzatrici, attiviste e rappresentanti di associazioni di categoria e sindacati con un approccio multidisciplinare.
La documentazione storica si incrocia con la memoria orale delle protagoniste, gli studi sul Nuovo Teatro con quelli sul Teatro delle Donne, il racconto del passato con l’analisi delle questioni del presente.
Il movimento cooperativistico è uno dei fenomeni che ha maggiormente contribuito a ridisegnare il sistema teatrale italiano e a ridefinire i ruoli e le relazioni all’interno delle compagnie.
Nel segno del decentramento culturale, della ricerca artistica e della democratizzazione dei processi creativi e organizzativi è nata una nuova idea di teatro per la comunità, un processo in cui il ruolo delle donne è stato fondamentale.

A partire da due giornate di studio, il libro mette anche a fuoco la definizione di impresa teatrale dalla seconda metà del Novecento a oggi e propone una lettura del Nuovo Teatro come territorio di relazioni e trasformazioni artistiche.
Pubblichiamo in anteprima il contributo di Mimma Gallina al convegno e al volume Donne e impresa teatrale.

Passato e futuro nella cooperazione teatrale: memorie del Gruppo della Rocca

Il grande balzo degli anni Settanta

1973: tournée del Sogno di una notte di mezza estate, Mimma Gallina a uno scarico da qualche parte in Toscana

Il mio intervento sarà solo in parte una riflessione sul femminile, e si concentrerà invece sulla funzione, le origini, la storia, il presente e un po’ il futuro della cooperazione teatrale.
Vorrei partire da una premessa e cioè che il fenomeno della cooperazione teatrale è stato studiato pochissimo, non ha avuto lo spazio che meritava negli studi dedicati all’organizzazione del teatro e anche in quelli dedicati all’estetica del teatro. Merita di sicuro un’attenzione maggiore, se pensate che il grande balzo e la crescita quantitativa del sistema teatrale italiano negli anni Settanta è in gran parte dovuto all’attività della cooperazione teatrale.
Per darvi un’idea di questo effetto quantitativo, fra gli anni Settanta e Ottanta i Comuni interessati all’attività teatrale passano da un centinaio a ottocento, gli spettatori da quattro milioni circa a più di dieci milioni e le rappresentazioni da 20.000 a 48.000, i complessi sovvenzionati passano da 44 a 264 (vedi Mimma Gallina, Teatro di impresa, teatro di stato, Rosenberg & Sellier, 1990). Evidentemente non sono solo le cooperative teatrali a produrre questo risultato, ma sono sicuramente co-protagoniste di un balzo eccezionale.
E’ inevitabile fare un po’ di autobiografia a partire dalla mia esperienza con il Gruppo della Rocca, dove ho cominciato a lavorare poco prima dei vent’anni.
Il Gruppo della Rocca mi sembra interessante non soltanto in quanto cooperativa teatrale con una storia significativa, ma perché è stato un modello, anche da cui distanziarsi per molti, per l’interpretazione che incarnava della funzione delle cooperative in teatro e, soprattutto, dell’autogestione.
Non è stata la prima, ma fra le prime cooperative, fra le quali c’era un legame forte, ci si sentiva spesso, c’erano contatti frequenti e precisi. Il confronto sui temi della gestione era appassionato tanto fra i gruppi storici, che erano composti da attori con una formazione e provenienti da esperienze più tradizionali, come il Teatro Insieme, gli Associati, più avanti il Salone Pier Lombardo, che con quelli più orientati alla funzione politica del teatro, spesso legati ai movimenti dell’epoca, come Nuova Scena o il Collettivo di Parma – poi Teatro Due – che arrivava dal teatro universitario, o, qualche anno dopo, con i più giovani come il Teatro dell’Elfo. Ma erano numerose anche le cooperative emiliane, toscane, romane – in qualche caso eredi delle cantine – e campane e ce n’erano in tutto il Sud: era un fenomeno nazionale. I contatti erano anche informali, ma nella sede più ufficiale, la sezione cooperative teatrali dell’AGIS, sono rimaste memorabili nei ricordi di chi c’era certe assemblee accesissime e interminabili con trenta o quaranta organizzazioni rappresentate.

Il Gruppo della Rocca: la Dichiarazione programmatica

Il Gruppo della Rocca era un modello radicale per l’applicazione rigorosa che si era dato dei principi dell’autogestione, ma aveva riflettuto e rifletteva a fondo sulle strategie organizzative oltre che sui temi della gestione interna: l’autogestione era un principio sicuramente, ma non era una questione ideologica. Era, o era considerata, una modalità efficace e coerente rispetto ai presupposti e agli obiettivi.
A questo proposito cito la Dichiarazione programmatica del Gruppo della Rocca, un testo scritto alla nascita della cooperativa nel 1969, che è stato rinnovato e rilanciato in tutte le stagioni successive sui materiali della compagnia. Era un punto di riferimento importantissimo all’interno del gruppo, non si poteva toccare una virgola, quando abbiamo cominciato a ritoccarla è stato in rapporto a cambiamenti rilevanti della compagnia e del sistema cooperativistico e non è successo prima della fine degli anni Settanta.

Il nostro gruppo è formato da attori, operatori teatrali, tecnici della scena che si sono trovati uniti da alcuni essenziali elementi programmatici e hanno avvertito l’esigenza di crearsi un autonomo spazio di lavoro entro cui poter verificare, in concreto e con l’impegno di muoversi in una prospettiva a lungo termine, i punti di convergenza e di incontro. Affrontiamo la sesta stagione della nostra vita confermati nelle premesse e nel nostro accordo con la consapevolezza di aver istituito un metodo di lavoro capace di mettere ciascuno di noi in condizione di determinare, verificare e controllare i significati dei nostri spettacoli. Alcune scelte hanno già trovato un’attuazione pratica, autogestione, struttura cooperativa, parità di diritti e di doveri, partecipazione di tutti alle scelte artistiche, culturali, economiche e organizzative e alla loro realizzazione, parità di compensi. La volontà di suscitare una domanda ovunque sia possibile il contatto con un pubblico popolare e nuovo, e ovunque sia possibile creare spazi per fare teatro ci ha reso promotori e partecipi di iniziative varie di decentramento.
(Gruppo della Rocca, 1974)

Il tono, il respiro del documento, vuole essere quello di un manifesto. I punti che elenca sono gli elementi programmatici del Gruppo della Rocca, ma anche i temi con cui le cooperative alla loro origine si sono confrontate, con maggiore o minore profondità e consapevolezza e con cui in fondo si misurano le compagnie anche oggi: penso alle riflessioni dei movimenti recenti che si sono sviluppati in piena pandemia, soprattutto legati al tema del lavoro.
Innanzitutto si sottolinea che all’interno della cooperativa sono presenti tutte le professionalità, in questo il testo riecheggia il manifesto Per un convegno sul nuovo teatro (Aa. Vv., 1966), che ha anticipato il convegno di Ivrea. Nello stesso programma di sala l’elenco dei soci e dei collaboratori contiene nomi di professionisti già allora affermati a fianco di molti giovani che avrebbero lavorato nel teatro italiano, con ruoli diversi, nei quarant’anni successivi. La cooperativa è stata molto attrattiva in tutti gli anni Settanta: nel momento di massima espansione i soci attivi erano quasi cinquanta .

Indipendenza, durata e controllo dei significati

Autunno 1983, conferenza stampa al Teatro Adua di Torino: Guido De Monticelli, Mimma Gallina, Dino Desiata e Fiorenza Brogi

La prima riflessione del manifesto collega il tema dell’indipendenza, l’autonomo spazio di lavoro, con la durata: anche in questo caso non sono concetti astratti, in concreto la prospettiva a lungo termine è l’orizzonte entro cui costruire un percorso basato su convergenza e incontro. E l’obiettivo è determinare, verificare e controllare il significato degli spettacoli. Sono parole decise, corrispondono a una convinzione forte rispetto alla funzione e alla responsabilità del teatrante in quanto intellettuale, si respira un clima di movimento. Le cooperative sono nate sull’onda del Sessantotto e per molti la scelta di fare compagnia, e della forma cooperativa, è anche la conseguenza del conflitto che si era verificato, ed era in atto, all’interno dei teatri stabili, soprattutto del Piccolo Teatro di Milano. In quegli anni i modi di gestione degli stabili erano oggetto di scontro, e il tema era proprio la partecipazione alla gestione, ai contenuti delle scelte e ai metodi. Era un’opposizione all’organizzazione, che non favoriva la condivisione delle scelte, ma era anche, o soprattutto, una contestazione a un modo di intendere la regia, la stessa che leggiamo nel manifesto di Ivrea, e questo, per inciso, rende abbastanza sorprendente la scelta di Giorgio Strehler di fare una sua cooperativa (anche se questo è l’episodio più studiato dagli storici del teatro del fenomeno cooperativo).
Torniamo al documento, che elenca gli ambiti e gli strumenti attraverso cui si realizza questo tipo di controllo: sono l’autogestione, la direzione collettiva, la struttura cooperativa, la parità di diritti di doveri e di compensi.

Per un pubblico nuovo e popolare

È preciso il riferimento alla «domanda» e alla ricerca del contatto con un pubblico «popolare e nuovo», realisticamente «ovunque sia possibile». Il pubblico nuovo e popolare era allora l’obiettivo perseguito in concretezza attraverso l’altro punto forte di questo documento e delle politiche di quegli anni che è il decentramento.
Nello stesso programma di sala c’è un’ulteriore indicazione programmatica dal titolo Per un nuovo Teatro Popolare. Non solo il Gruppo della Rocca, ma molte, se non la maggior parte delle cooperative in quegli anni persegue proprio questo obiettivo. È anche una presa di distanza dai colleghi e dai gruppi che, in un percorso quasi parallelo a quello che stiamo raccontando, perseguono sperimentazioni, a volte estremamente interessanti, a volte un po’ estenuate, e per cui il pubblico, non solo in termini quantitativi, era una variabile del tutto secondaria. Il tema del nuovo Teatro Popolare è una questione estetica, di interpretazione, di scelte drammaturgiche, di identità stilistica, ma organizzativa e politica allo stesso tempo. Il programma di sala che ho citato, è quello di Schweyk nella seconda guerra mondiale di Bertolt Brecht, per la regia di Egisto Marcucci, spettacolo che ben incarnava questa visione, e che arrivò a toccare quattrocento repliche in due stagioni e mezzo, un traguardo inarrivabile oggi per qualunque grande compagnia, anche affermata sul piano commerciale. Nella stagione in questione erano state fatte, con più spettacoli, più di cento date in Toscana. Questa era la dimensione del lavorare in cooperativa allora.

All’origine dell’autogestione

A proposito della cogestione e dell’autogestione c’era una grandissima consapevolezza rispetto alle strategie organizzative ed economiche, oltre che nella scelta degli spettacoli e dei testi da mettere in scena.
Vorrei fare una piccola parentesi storica, un riferimento che mi piace molto, mi commuove anche un po’, è l’atto notarile di costituzione di una Fraternal Compagnia del 1545. Vi propongo in particolare questo passaggio, ci sono dei comici veneti davanti al notaio e, fra le altre cose, decidono questo:

[…] acciò detta compagnia habia in ogni amorevolezza a durar infino al tempo preditto, li compagni prefatti cossì d’acordo hanno statuito et deliberato che si habbi a far una cassella, la qual habia tre chiavi che sian sicure, una de le qual habia et tener debba detto capo, l ́altra Francesco de la lira, l’altra Vincentio da Venetia, ne la qual ogni giorno che si guadagnerà se li habia a reponer hora un ducato, hora più et mancho, segondo li guadagni che occoreranno; qual cassella mai possi esser aperta, né altrimenti di quella tolto denaro alcuno, senza expresso consentimento et voler di tutta la compagnia. Et se durante ditta compagnia, il venisse in fantasia ad alcuno di tal compagni, over due et più, partirsi et piantar li altri a suo grandissimo danno et vergogna, che allora et in tal caso, quel tal over tali che si partiranno, oltra le pene infrascripte, debba aver perso ogni comodo et utile del denaro che si ritrovasse in ditta cassella. (Tessari, 1981, p. 113)

L’autogestione nel 1970, quindi quattrocentotrenta anni dopo, non era molto diversa.
Mi commuove questo tipo di materiale, qui c’è un atto scritto ma si sente la presenza fisica di queste persone, ce li possiamo immaginare questi attori dal notaio. La discussione, le decisioni di una cooperativa “vera” erano simili: c’era il tema dei contenuti degli spettacoli e di come metterli in scena ma c’era fortissimo il tema della consapevolezza economica.
Nel dibattito interno alle cooperative all’epoca, si era creata una biforcazione fra le “vere” cooperative, contrapposte alle “false” cooperative, ovviamente alimentata da chi si considerava portatore di autentico spirito cooperativistico. Fa un po’ sorridere, ed era a dir poco manicheo, ma c’erano in effetti molte gradazioni nel modo di intendere la cooperazione e la differenza si misurava sulla partecipazione alle scelte artistiche e alla loro realizzazione e alla gestione economica e organizzativa.
Nel Gruppo della Rocca eravamo tutti, tranne chi proprio sceglieva di non interessarsene, assolutamente consapevoli (fra l’altro) di quali teatri ci avevano pagato e quali no (e quanto), dei crediti e dei debiti, delle scelte dei principali fornitori, c’era una divisione del lavoro che, pur rispettosissima delle specificità professionali in altri ambiti, in quello amministrativo ripartiva le funzioni. Non era certo il solo metodo possibile e poteva essere estenuante, ma era una forma efficace di controllo e responsabilizzazione.

Il primato del lavoro

C’era stata una decisione importante all’origine, nel momento della partenza materiale della compagnia, che ricorda un po’ la scelta di welfare dei nostri amici comici veneti del 1545, una scelta che credo pochissimi altri avessero: si accantonava (su un conto della cooperativa) una piccola quota giornaliera per tutti, una sorta di indennità di fine rapporto o per emergenze, la chiamavamo “conguaglio”. Non so quanto sia stato possibile nella vita della cooperativa mantenere questo uso, ma per quanto mi riguarda, quando lasciai il Gruppo nel 1986 (con tempi programmati e concordati), era funzionante e ne beneficiai.
Era una scelta rilevante dal punto di vista della gestione economica e rende bene l’idea di come si attribuisse al lavoro una centralità assoluta, come nella formula cooperativa dovrebbe essere.
In merito alla consapevolezza della situazione economica e della relativa divisione del lavoro interna, va precisato che il Gruppo della Rocca (fino all’86 almeno) non era gestito da consigli di amministrazione, come di norma sono le cooperative, ma in modo assembleare, il consiglio di amministrazione contava veramente pochissimo.
Nella gestione delle cooperative “vere” di quegli anni, la condizione dei soci si caratterizza per una convivenza consapevole del ruolo di lavoratore e di datore di lavoro. È un tema molto importante per qualunque realtà associativa, ancor di più oggi in una situazione di precarietà economica molto maggiore. Nel caso del Gruppo della Rocca la potenziale conflittualità dei due ruoli, era neutralizzata dalla gestione collettiva e assembleare. Mi spiego meglio: come conciliare le tue aspirazioni come lavoratore con l’impossibilità di garantirle come datore di lavoro? Ti devi porre il tema della sostenibilità sui due fronti. La gestione collettiva responsabilizzava tutti rispetto a questo problema, era molto faticosa, ma teneva sotto controllo le potenziali conflittualità.
La priorità del lavoro nel Gruppo della Rocca era comunque fuori discussione e orientava tutte le scelte: se ne teneva conto nella distribuzione dei ruoli, cercando di dare spazio a tutti il più possibile, salvo richieste individuali diverse, e nella diffusione degli spettacoli. Almeno fino al 1986 l’obiettivo di dare a tutti i soci periodi di occupazione adeguata, con paghe uguali per tutti e relativamente contenute, fu raggiunto.
Rispetto alla centralità del lavoro, in merito alla particolarità dei contratti collettivi di lavoro del secondo dopoguerra, che furono in vigore fino alla fine degli anni Sessanta, quindi erano ancora il riferimento quando si formò il Gruppo della Rocca – prima dello Statuto dei Lavoratori, per intenderci – c’era una modalità che pochi conoscono, cioè la facoltà di ridurre il compenso alle coppie. È un aspetto molto interessante rispetto alla funzione della famiglia nella vita materiale del teatro. Il contratto prevedeva che non si dovesse «separare l’unione maritale»: il capocomico era invitato a favorire l’unità della coppia all’interno del teatro – notoriamente considerato un ambiente piuttosto immorale – che poteva essere garantita incentivando l’assunzione di coppie. Si consentiva pertanto una riduzione fino al 50% del compenso sindacale per le coppie, cioè fino a uno stipendio per due in sostanza. Nei primissimi anni del Gruppo della Rocca si praticava, anche se non al 50%, una riduzione per le coppie: sembra incredibile, non era una scelta contro le donne, ma le coppie esistevano e nella valutazione molto empirica del Gruppo, in rapporto alla vita di tournée che era una condizione costante, i soci accoppiati risparmiavano rispetto agli altri e quindi ridurre il compenso sembrava una cosa buona e giusta. Poi questa pratica è saltata, forse perché le coppie non erano più così chiare e dichiarate, o perché si è percepito che era una cosa obsoleta, o perché sono cambiati i CCNL. Però mi sembra interessante che questa sia stata, almeno nei primi anni, la sola deroga all’equivalenza dei compensi.
Il compenso uguale per tutti era un punto fermo, per cui un ventenne prendeva lo stesso compenso di protagonisti quarantenni, fondatori della cooperativa. Era una scelta ideologica, forse. Oggi penso che l’equivalenza dei compensi non fosse giusta, ma probabilmente qualunque altra differenziazione avrebbe potuto generare conflitti.

L’invenzione del “decentramento”

Il decentramento è stato la vera chiave organizzativa, economica e di crescita del mercato e ha consentito lo sviluppo delle cooperative. E’ il dato che citavo in premessa: la crescita incredibile dell’attività negli anni fra la fine dei Sessanta e i primi Ottanta è stata il frutto di una spinta congiunta degli operatori teatrali, dell’associazionismo, degli enti locali e della sensibilizzazione rispetto allo spettacolo dal vivo che è maturata in quegli anni.
Degli anni d’oro del decentramento, quando l’attività cresceva, personalmente ho molta nostalgia, anche per la qualità delle pubbliche amministrazioni con cui lavoravamo, scoprendo il territorio, le grandi risorse umane e politiche dei piccoli comuni. Era un periodo anche di grande creatività politico-organizzativa per l’entrata in campo, dal 1970, delle Regioni. Il decentramento ha riguardato tutte le compagnie che tendenzialmente si muovevano proprio verso questo famoso pubblico nuovo e popolare, andandolo a cercare. Anche qui i più ferrati in documenti sentiranno un contrasto molto preciso con le politiche degli stabili: il manifesto di Paolo Grassi e Giorgio Strehler dice «recluteremo» i nostri spettatori, li andremo a prendere e li porteremo in centro. Il decentramento, che peraltro lo stesso Grassi praticò nella città di Milano e in parte in Lombardia, è la mossa inversa a parità di obiettivo. Del resto in tutti gli anni a cavallo fra la fine del 1950 e il 1965, il pubblico teatrale era calato in misura davvero preoccupante, il reclutamento non aveva funzionato, almeno non su scala nazionale, andare verso il pubblico era un modo diverso di intendere il «teatro d’arte per tutti» (Apollonio, Grassi, Strehler, Tosi, 1947, p. 68).

1984, conferenza stampa al Teatro Adua di Torino per la produzione di Negro contro cani di Bernard-Marie Koltès, regia di Mario Missiroli. Nella foto Bernard-Marie Koltès e Mimma Gallina

Questo movimento verso il decentramento ha convissuto con i processi di stabilizzazione attuati da molte cooperative a partire dal 1972. Mi riferisco soprattutto al Teatro Franco Parenti, più avanti al Teatro dell’Elfo, ma anche al Teatro della Tosse di Genova, ad Attori e Tecnici a Roma, più tardi al Collettivo di Parma. Il Gruppo della Rocca ci arrivò nei primi anni Ottanta, a Torino e non fu una scelta facile. Altre cooperative nate “di giro” non si stabilizzarono mai.
All’inizio anche la stabilizzazione è stata legata all’idea del decentramento, perché quasi tutti i teatri che si aprivano erano decentrati. Il Teatro Franco Parenti oggi a Milano lo percepiamo come centrale, ma allora quasi tutti i teatri erano concentrati fra via Rovello e Piazza San Babila, quindi anche le cooperative che si stabilizzavano puntavano a nuovi assetti dei sistemi teatrali urbani e a una ricerca di pubblico nuovo.

Le cooperative, il Ministero e i partiti

Anche il Ministero del Turismo e dello Spettacolo si accorge dei cambiamenti. E se analizziamo i provvedimenti ministeriali durante tutti gli anni Settanta, intuiamo il ruolo delle rappresentanze del teatro in questa direzione, intendo soprattutto la funzione dell’AGIS, che era fondamentale nel guidare le scelte ministeriali.
Nella stagione ’71-72 la forma della cooperativa teatrale è solo citata, nel ’72-73 ottiene un articolo ad hoc che gerarchicamente acquisisce una posizione sempre più importante e anche i contributi crescono, nel ’75-76 si arriva a un articolo sui Circuiti Teatrali Regionali. Negli stessi anni si ritagliano spazi sempre più significativi il Teatro Ragazzi e il Teatro di Ricerca, ambiti dove è molto presente la gestione cooperativa.
Cresce anche l’attenzione per il movimento cooperativo da parte della politica, che evidentemente coglie le trasformazioni del settore e una funzione crescente del teatro nella società. Sono anni di progetti di legge, soprattutto quando nel 1976 esce il Decreto 616 che precisa i compiti delle Regioni: il Parlamento avrebbe dovuto chiarire entro il 1979 che cosa avrebbero fatto le Regioni, anche in termine di spettacolo. Sappiamo che non lo fece (né allora né mai), ma nel frattempo se ne discuteva e si stendevano progetti di legge.
Per avere un’idea di come la politica fosse attenta al movimento delle cooperative cito una dichiarazione del 1976 di Claudio Martelli, che era allora il numero due del PSI:

[…] se noi ponessimo sullo stesso piano cooperative e impresariato privato non capirei più perché noi, intendo in particolare noi socialisti e comunisti, abbiamo costruito un movimento cooperativo radicato e possente con il quale vogliamo che lo Stato le Regioni e i Comuni abbiano rapporti preferenziali. E perché invece non abbiamo dato vita a società per azioni, perché sosteniamo l’ARCI anziché buttarci nell’industria culturale. C’è spazio anche per il teatro privato certo ma uno spazio diverso e un rapporto diverso rispetto ai pubblici poteri. (Martelli, 1976, p. 26)

Questo pensava il Partito Socialista a metà degli anni Settanta. In quegli anni si stava in effetti definendo all’interno del movimento cooperativistico l’obiettivo di ottenere una sostanziale assimilazione al teatro pubblico. Le cooperative rivendicavano uno spazio speciale in nome del fatto che non perseguivano scopo di lucro, avevano il lavoro come elemento centrale, cercavano un nuovo pubblico, non dividevano gli utili se non nella misura consentita dalla legge, che era scarsissima. Si riteneva che teatro pubblico e cooperative avessero funzioni sostanzialmente equivalenti, su scale di grandezza diverse. L’obiettivo della equivalenza di ruolo fra teatro pubblico e cooperative non è mai stato raggiunto. In compenso non molti anni dopo, nel 1982, nella circolare ministeriale di quell’anno c’è una sostanziale equiparazione fra teatro pubblico e teatro privato: non è la cooperazione a raggiungere una posizione preferenziale, ma è l’impresa privata tout court a beneficiare del riconoscimento pubblico, ma anche – nei fatti – della crescita del mercato, dell’affermazione di quei dieci anni. Oggi di cooperative nei decreti ministeriali non si parla più, non si riconosce alcuna specificità. Sulla funzione pubblica e la funzione privata si potrebbe dire molto e anche sugli assetti del sistema e del mercato in quegli anni, qui mi limito a dare atto della fine della parabola: di come – a mio parere – l’attenzione rispetto alla cooperazione si sia trasformata nella resistibile ascesa del teatro privato (impresariale, capocomicale, spesso commerciale).

L’AGIS e la Lega delle Cooperative

24 maggio 1983, riunione del direttivo AGIS-UNAT Cooperative: Nucci Ladogana, Mimma Gallina, Alfredo Balsamo, Bruno Borghi, Fiorenzo Grassi, Letizia Eugeni

In questo percorso sono molto importanti la funzione dell’AGIS e, all’interno dell’AGIS, dell’UNAT-Cooperative, e le discussioni sulle normative ma anche sui contributi statali di ciascuno, quasi arrivando a suggerirne l’entità, con qualche equivoco quindi sul ruolo delle parti, ma con livelli di partecipazione e coinvolgimento eccezionali. Invece non fu rilevante la funzione della Lega delle Cooperative – e delle altre confederazioni – o almeno non a livello nazionale, forse con qualche eccezione in alcuni territori, come in Emilia-Romagna e a Milano. Quasi tutte le cooperative aderivano tanto all’AGIS che alla Lega, ma le cooperative culturali non riuscirono a trovare una specificità, un terreno su cui la Lega si potesse muovere con autorevolezza o efficacia superiore all’AGIS: forse sarebbe stato proprio quello della distinzione fra impresa privata e cooperativa.
Questa debolezza ha fatto sì che nel momento in cui sono cambiate le cose e l’attenzione si è spostata verso il teatro privato tout court, cooperative comprese, queste non trovassero più nessuna rappresentanza riconosciuta, capace di difenderne la specificità, il valore aggiunto della forma giuridica, sempre che ne avessero interesse. Le stesse cooperative negli anni Ottanta stavano cambiando pelle: il fenomeno principale del periodo, secondo me, è il progressivo spostamento del mercato verso scelte che definirei di “pacificazione”, rispetto ai temi, che non dovevano essere più temi conflittuali: quindi basta teatro politico, e rispetto al repertorio, dove la preferenza era soprattutto per autori e attori riconoscibili. Queste tendenze hanno contribuito a indebolire il teatro cooperativo in quanto tale fino a sparire, come si è visto, dalla normativa (e dalla scena):
Naturalmente ci sono moltissime esperienze attive interessanti negli anni Ottanta e Novanta, ma la fine della storia che ho raccontato, se vogliamo indicare una cesura temporale, è l’82/83. Nel febbraio del 1983 fra l’altro brucia il Cinema Statuto a Torino, una vicenda che cambierà molte cose rispetto alla sicurezza e ridisegnerà la mappa degli spazi teatrali e la geografia del decentramento.

Le edizioni del Gruppo della Rocca

La percezione della forma cooperativa oggi

Vorrei però dire qualcosa sulla situazione attuale e su una cosa piuttosto inquietante che ho notato seguendo da osservatrice l’attività del Coordinamento Spettacolo Lombardia, durante l’occupazione del Piccolo Teatro di Milano nella primavera del 2021. Ho seguito il loro dibattito, letto le osservazioni che si facevano in rete rispetto a un progetto di riforma del welfare di settore e mi sono accorta che la percezione della cooperazione teatrale che oggi hanno i lavoratori dello spettacolo è lontana anni luce, è l’opposto di quello che noi intendevamo negli anni Settanta. Nella bozza di proposta di legge per un nuovo welfare dello spettacolo, presentata con il titolo di Riforma strutturale del lavoro nello spettacolo, i lavoratori insistono molto sulla responsabilità dell’impresa rispetto al lavoro:

Chiediamo a tutti i livelli istituzionali, enti locali, Regioni e governo, la revisione e l’inserimento di nuove norme in materia di appalti e subappalti che garantiscano la trasparenza ed eliminino le gare al ribasso che in questi anni hanno prodotto infiltrazione della malavita organizzata e l’aumento vertiginoso dei rischi per la sicurezza dei lavoratori. (Coordinamento Spettacolo Lombardia, 2021, p. 9)

A che cosa si riferiscono questi lavoratori dello spettacolo? Si riferiscono alle cooperative che perseguono prestito di personale. Un tecnico milanese, oggi, non pensa alle cooperative di cui ho parlato finora, ma a quelle che hanno trovato la propria funzione e uno spazio di mercato nelle difficoltà di assumere da parte degli enti e associano e rifatturano il lavoro dei propri soci. Ho notato che i lavoratori, sulla base della propria esperienza, tendono a dare un giudizio molto negativo delle cooperative attive in questa funzione, con un paio di eccezioni, casi virtuosi cui riconoscono una funzione positiva: il problema esiste, è generato dalla precarietà, ma anche dalla specificità del lavoro nello spettacolo e in qualche modo va risolto.

Il mandato di Nicolaj Erdman, regia di Egisto Marcucci (1987)

Ma cosa può fare il movimento cooperativistico (se esiste ancora) per ribaltare eventualmente le pratiche e la percezione negativa di queste esperienze, che ricadono sulla cooperativa, in quanto forma giuridica? Se la cooperazione ha ancora un valore aggiunto, come promuoverlo? L’autogestione, il tema del controllo dei contenuti e della funzione dell’intellettuale, la visione secondo cui l’operatore culturale non può essere solo un lavoratore scritturato che non controlla il proprio lavoro, tendenzialmente precario, tutti questi ragionamenti tipici degli anni Settanta hanno ancora un senso? Mi sembra un tema interessante su cui riflettere per il futuro.

Una équipe tutta femminile

Ho tenuto le riflessioni sul ruolo femminile, con particolare riferimento al Gruppo della Rocca, in conclusione.
Nel gruppo c’erano molte donne, anche se la percentuale di uomini era ovviamente maggiore. Le attrici erano importanti come punto di riferimento nella scelta dei testi, quindi si teneva in grande considerazione il loro parere. Non erano forse particolarmente protagoniste negli aspetti gestionali, ma erano presenti e attive in sede assembleare. Voglio ricordare però una proposta che arrivò da loro, dalle donne: lo spettacolo intitolato Processo per aborto (1975) fu fatto in occasione della campagna per il referendum e partiva dal processo che aveva visto protagonista l’avvocatessa Gisèle Halimi in Francia. È stato l’unico caso di teatro documento realizzato dal Gruppo della Rocca, regia di Egisto Marcucci: fu una creazione collettiva molto interessante e avrebbe potuto avere un seguito.
Una presenza femminile rilevante, anche in termini di partecipazione alla gestione, si è verificata invece nell’organizzazione. Io me ne sono occupata dal 1972, con Giorgio Guazzotti che ne era responsabile, fino a che non è andato a dirigere il Teatro Stabile di Torino nel 1975, mantenendo però una consulenza, per fortuna, perché avevo ventitré anni, e non è stato facile all’esterno e all’interno, con un’assemblea cui rendere conto, ma è stata anche una formidabile opportunità. Negli anni si sono affiancate altre colleghe e l’organizzazione del Gruppo faceva capo a un’equipe tutta femminile, seppure sempre con la consulenza di Guazzotti. Anche l’immagine esterna, quindi, era molto femminile.

Estate 2023, Versilia: Elena Brignani, Patrizia Cuoco, Mimma Gallina e Marina Gualandi

Eravamo un gruppo di quattro ragazze, Elena Brignani, Patrizia Cuoco, Marina Gualandi e io. Dopo aver lasciato il Gruppo della Rocca abbiamo avuto tutte un percorso professionale importante, percorrendo strade diverse, e siamo ancora molto amiche. Sarebbe interessante analizzare che cosa questo marchio femminile significasse, in concreto, in termini di metodo: contano soprattutto le persone, naturalmente, ma credo che avessimo un’attitudine alla cura, intesa come intreccio di strategie, attenzione alle persone e ai dettagli, che non è frequente dove predomina il maschile.
Al di là dell’esperienza del Gruppo della Rocca, l’organizzazione del teatro italiano ai vertici, come sappiamo, è maschile, ma sono donne la maggior parte dei quadri intermedi. Io ho insegnato per molti anni alla Civica Scuola Paolo Grassi, dove il Corso Organizzatori ha un taglio molto professionalizzante, mediamente partecipavano dai dieci ai quattordici allievi, non c’erano mai più di due uomini ad annata, e la proporzione non è molto diversa negli altri master di questo tipo che conosco, quello di Bologna per esempio. Sono in contatto con decine di ex allieve e quasi tutte lavorano e con soddisfazione, anche se si contano sulle dita di una mano quelle che rivestono una posizione direttiva riconosciuta.
A proposito della cura, ci sono diverse accezioni a questo modo di approcciarsi alle cose, però penso che siamo tutte d’accordo sul fatto che il ruolo organizzativo non è subalterno. Sono sempre stata convinta – è quasi un marchio che deriva proprio dall’origine del mio lavoro in cooperativa – che la funzione organizzativa non debba essere subalterna ma dialettica rispetto a quella artistica. Quando anche i miei studenti mi dicono che il ruolo dell’organizzatore è realizzare al meglio delle possibilità quello che vuol fare l’artista, rispondo che non è questa la funzione. La funzione organizzativa è intrecciata con quella artistica, contribuisce a progettarla, per me questo è un problema di fondo.
In conclusione, non so come si possa ridare impulso alla gestione del teatro in forma cooperativa nel momento in cui si parla tanto di imprese, terzo settore, imprese sociali, imprese culturali. Non mi ritrovo in questo dibattito. Ma credo che, al di là delle parole e delle forme giuridiche, anche al di là delle linee artistiche, del tipo di teatro che ciascuna organizzazione fa, sia importante ricordarsi sempre che il teatro è un arte collettiva, è un lavoro collettivo. Al centro ci sono le persone. La partecipazione e la consapevolezza delle persone era alla base della gestione in cooperativa, è anche la base della democrazia. E’ questa l’idea e la pratica che andrebbe sempre coltivata.