Il performer come attore sociale

Richard Sennett, La società del palcoscenico. Performance e rappresentazione in politica, nell'arte e nella vita (Feltrinelli, 2024)

Pubblicato il 19/11/2024 / di / ateatro n. 201
Richard Sennett al violoncello

Richard Sennett al violoncello

Nella società dello spettacolo, mentre i giullari politici conquistano l’elettorato (vedi Oliviero Ponte di Pino, Trump, Johnson, Bolsonaro: la tirannia dei buffoni), è utile riflettere su un saggio come La società del palcoscenico. Performance e rappresentazione in politica, nell’arte e nella vita (Feltrinelli, 2024), che fin dalla prima pagina menziona William Shakespeare (“Il mondo è tutto un palcoscenico”), Erving Goffman (“La vita sociale è un mosaico di rappresentazioni”) e gli “abili performer” Donald Trump e Boris Johnson (p. 9). Anche perché l’autore, Richard Sennett, è uno dei massimi sociologi contemporanei, con le sue illuninanti riflessioni sulle città (La coscienza dell’occhio, 1992, e Costruire e abitare, 2018), l’identità (L’uomo flessibile, 1999, Lo straniero, 2014), il lavoro (L’uomo artigiano, 2008).

Roland Barthes al pianoforte

Roland Barthes al pianoforte

Sennett premette di non aver voluto “inserire questo libro nel fiorente filone universitario dei ‘performance studies’” (p. 14), per concentrarsi, oltre che sulle sue riflessioni e sulle sue esperienze di spettatore, anche sulla propria carriera di violoncellista, che comprende un divertente duo con Roland Barthes, che suonava il piano “mettendoci tutta la sua passione però con risultati pessimi” (p. 194).
Il titolo italiano si discosta dall’originale, The Performer. Arts, Life, Politics, anche mutando l’ordine delle priorità del sottotitolo. Tuttavia molti temi centrali della Società del palcoscenico sono al centro della riflessione di molti artisti e studiosi contemporanei: Jerzy Grotowski proprio sulla figura del performer, Erika Fisher-Lichte sul passaggio dal rappresentativo al performativo (o, nella prospettiva di Sennett, sul suo possibile recupero), Eugenio Barba sulla presenza scenica, Michel Foucault sul concetto di dispositivo (evocato nel passaggio in cui Sennett spiega che “sul palcoscenico, sono l’architettura, la gestualità, i costumi e le maschere a ‘dettare legge’ alla politica, sia per servire che per contrastare il potere”, p. 219), Claire Bishop sulle pratiche artistiche di partecipazione e sulle loro implicazioni (anche negative). Nell’indice dei nomi non figura nemmeno nemmeno Guy Debord, con il suo epocale La società dello spettacolo.
Sennett parte dai tre “spazi basilari del teatro” che animavano Atene, culla del teatro e della democrazia: l’agorà, ovvero la piazza (e dunque il mercato), dove “non c’era distinzione tra attore e spettatore” (e dove le persone si comportavano come se fossero su un palcoscenico); la Pnice, sede dell’assemblea, “dove l’attore politico era separato dal cittadino spettatore”; e la caverna, lo spazio “nascosto” del rito, dove “gli spettatori erano pietrificati da forze ultraterrene anziché da attori umani” (pp. 79-80). Tra gli spazi pubblici non viene menzionato il quarto: il Teatro di Dioniso, dove si rappresentavano le tragedie e le commedie, in una dialettica evolutiva (o involutiva) con gli altri tre spazi.
Il musicista Sennett è animato da una diffidenza di fondo nei confronti del teatro, sulla scia degli antidemocratici Platone e Aristotele, di Jean-Jacques Rousseau (che preferiva la festa comunitaria allo spettacolo, anch’egli citato nella pagina iniziale) e naturalmente dei critici del potere mistificatorio dei mass media. Per Sennett già nell’antica Grecia “gli spettatori si sottomettevano al palcoscenico” (p. 245). Le rappresentazioni sono “manipolative”, anche perché “l’espressione malintenzionata è troppo avvincente sul piano emotivo” (p. 11), e possono anche essere “distruttive” (p. 175). Il “teatro chiuso”, che “separa la tragedia dalla strada” (p. 95) e dalla sua spontaneità, impone “un’estetica della disuguaglianza” (p. 86). Anche il place-making può essere “una mossa pericolosa” (p. 184). Lo insospettisce la profonda e innegabile “connessione fra teatralità e violenza” (p. 171), che può dare agli artisti un inquietante potere profetico; mentre a volte la “violenza inscenata” cancella “la realtà del dolore” (p. 61, a proposito di Berretti verdi, il film di John Wayne sulla guerra del Vietnam).
Sennett mette in guardia contro i “poteri oscuri del teatro”: non lo fa mentre descrive una performance, ma rievocando un incontro con le ragazze e i ragazzi di Extinction Rebellion, che durante il pranzo paiono in grado di discutere razionalmente con il professore del cambiamento climatico, salvo poi trasformarsi “in una folla inacidita e furiosa” negli eventi pubblici del pomeriggio (pp. 164-165).

Un’azione performativa di due attivisti di Extinction Rebellion, che incollano le loro mani a Massacre en Corée di Pablo Picasso, National Gallery of Victoria, Melbourne, ottobre 2022 performativa

Sintetizzando l’ampio excursus storico di Sennett, il teatro – il “quarto spazio” – e la teatralità hanno deteriorato irrimediabilmente gli altri tre “spazi del teatro”. La divisione tra attori e spettatori passivi distrugge la comunicazione multidirezionale che caratterizzava l’agorà e insegna ai demagoghi a usare la “voce dominante” del protagonista tragico nelle riunioni politiche nella Pnice (p. 84). La fine della democrazia ad Atene è determinata anche (e soprattutto) dalla manipolazione emotiva dei capipopolo: la maggior parte degli individui carismatici, come ha insegnato Max Weber, “sono disgregatori dello Stato o della religione consolidata” (p. 149).
Rispetto alla “caverna”, il teatro desacralizza il rituale e dunque gli fa perdere l’efficacia e il potere di consolazione (p. 39), ovvero la capacità di reintegrare la comunità dopo fratture e traumi (p. 43).
Duemila anni dopo, la reinvenzione del teatro con il Rinascimento porta altre due conseguenze negative. Il confinamento dello spettacolo in spazi chiusi, negli appositi edifici deputati, toglie il teatro dalla strada e dalla sua ricchezza di relazioni anche informali. Il dispositivo che separa scena e platea porta a una crescente passività degli spettatori: le reazioni del pubblico popolare, che rispondeva con vigore a quello che accadeva sulla scena, vengono via via addomesticate dall’autodisciplina borghese (p. 97), fino al silenzio imposto al pubblico da Richard Wagner, che sancisce l’azzeramento delle interazioni tra scena e platea. Si completa così il passaggio da una comunicazione basata sul potere dell’immaginazione (che accende la creatività dello spettatore) a una logica della rappresentazione (che impone al pubblico la sua visione). La tappa finale di questa involuzione è lo schermo del nostro cellulare, “il dispositivo che, per il suo essere ermetico, esercita un potere ipnotico”, risucchiandoci in una “caverna digitale” (p. 89).
Inoltre il Rinascimento, con l’umanesimo, afferma la possibilità di “auto-modellazione”, che dà agli individui l’illusione di essere autori della “narrazione della propria vita” e dunque “padroni del proprio destino” (p. 148). Quella che era una prerogativa degli attori – grazie al lavoro sul personaggio – si estende all’intera società, consentendo la costruzione di identità fittizie, che permettono di evadere dalle rigide corporazioni medievali, ma anche dalle gabbie del genere. Si allarga il divario “tra apparire ed essere” (p. 149), con immediate ricadute politiche: Machiavelli insegna al Principe “il mascheramento strumentale a seconda delle circostanze” (p. 47). Peraltro questa spinta alla realizzazione di sé cambia la natura stessa dell’artista performativo, che “inizia a servire un nuovo padrone: il creatore” (p. 149).
Nell’Ottocento, l’invenzione dei grandi magazzini cancella le antiche contrattazioni dell’agorà, creando “un nuovo, particolare tipo di spettacolo commerciale”, che ha “l’obiettivo di stimolare l’immaginazione dell’acquirente” (p. 101).

Henri de Gissey, Luigi XIV come Apollo nel <em>Ballet de la Nuit</em> (1653)

Henri de Gissey, Luigi XIV come Apollo nel Ballet de la Nuit (1653)

Se il tracimare del teatro e della teatralità nel sociale ha conseguenze negative, il performer e il teatro possono avere un ruolo positivo all’interno della città. Sennett individua diverse aporie nelle pratiche del performer. La costruzione del sé appare a Sennett come un inganno (e forse prima ancora un autoinganno), ma il lavoro su di sé è alla base della pratica del performer. Il processo che porta da un pubblico popolare reattivo (perché non ancora educato alle buone maniere teatrali) alla passività dello spettatore borghese e poi del telespettatore, riflette il processo di civilizzazione evocato nella conclusione del volume.
Alla base di ogni pratica artistica c’è la potenziale divergenza tra il “rischio”, ovvero l’innovazione creativa, e l’“inclusione”, ovvero la necessità di assecondare i gusti del pubblico (pp. 27-28): questo può significare asservirsi al mercato e alla logica dell’audience, ma anche mettersi al servizio della propria comunità di riferimento e della sua identità, oppure piegarsi alle logiche censorie del politicamente corretto.
Un aspetto cruciale della riflessione della Società del palcoscenico riguarda il rapporto con il potere. Esiste un’arte di regime, esemplificata dalle danze di corte di Luigi XIV, che “mette in scena la gerarchia” e fa del proprio corpo un oggetto di venerazione politica e religiosa (pp. 137-144).

Il frontespizio delle <em>Rime</em> di Isabella Andreini (1603)

Il frontespizio delle Rime di Isabella Andreini (1603): l’attrice “riproduceva il suono esplosivo della flatulenze del dio Saturno”

Dunque i performer possono essere “agenti del potere”. In altri casi, però, le loro performance costituiscono “una sfida al potere”, come nel caso della Commedia dell’Arte di Isabella Andreini (che però Sennett riduce a una caricatura, p. 121) o di Bertolt Brecht (p. 219).
Tuttavia per Sennett le parole dette in teatro “hanno spesso un impatto politico debole”: più che nel potere di persuasione del logos, crede alla “capacità di cooperare con altri (…) radicata nel corpo” (p. 191), anche a partire dalla propria esperienza di musicista d’ensemble. Sa che l’uso dei corpi può avere un valore liberatorio (come insegna Bachtin), anche se quell’esperienza è solo “una valvola di sfogo per allentare la pressione; passato il Carnevale, la situazione tornava alla normalità”. Quel tipo di performance in apparenza rivoluzionaria, che mette il mondo e le sue gerarchie a testa in giù, non riesce davvero a “sfidare e indebolire il padrone” (p. 222). Sennett predilige invece l’uso collettivo dei corpi per ridisegnare lo spazio urbano, come accadde nella “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà” che il 28 agosto 1963 ebbe per protagonista Martin Luther King, ma che venne organizzata da un artista performativo, Bayard Rustin, che seppe usare la città come un teatro, modellando “la relazione tra le strade di accesso e il Mall il termini di quinte (le strade) che conducono dentro e fuori dal palcoscenico (the Mall)” (pp. 225-229).

Washington, 28 agosto 1963. Martin Luther King: "I have a dream"

Washington, 28 agosto 1963. Martin Luther King: “I have a dream”

Per riflettere sulla dimensione politica, Sennett non segue le tracce di Hannah Arendt, che mette gli agoni teatrali alla base della discussione democratica, basata sul dialogo, e dunque sulla ricerca del compromesso tra posizioni divergenti. La cooperazione nell’agorà si basa piuttosto sui segnali non verbali e sulle buone maniere, sulla scia di Norbert Elias. Il modello sono le prove di un quartetto d’archi o la direzione d’orchestra di Pierre Monteux, in “una collaborazione pacata, corporea, senza parole” (p. 205). Porta come esempio la sua esperienza in una Times Square ancora popolata di tossici e prostitute, quando “la gente, anziché voltarsi dall’altra parte, recitava un ruolo. In quel contesto degradato e potenzialmente carico di violenza, “sia di giorno che di notte, quella moltitudine di persone creava coreografie” (p. 247). E’ una dimensione pervasiva, che può riuscire in molti casi a gestire (o forse occultare) le situazioni di conflitto che possono investire l’intera polis.

Tania Bruguera, Tatlins Whisper #5 alla Tate Modern

Tania Bruguera, Tatlin’s Whisper #5 alla Tate Modern

A livello più generale, Sennett rilegge la dialettica hegeliana tra servo e padrone utilizzando Le nozze di Figaro di Beamarchais (e Mozart): “Se il servitore vuole la libertà – invece del riconoscimento -, allora deve uscire dal quadro di riferimento del padrone”. In questo processo, “la commedia aiuta il servo a mettere in dubbio il diritto del padrone a governare” (p. 235).
Ma in una società democratica, che dovrebbe essersi emancipata dalla dialettica tra servo e padrone, quale può essere la funzione politica del teatro? Gli antichi greci (e Hannah Arendt) sapevano che la città è attraversata da fratture e contraddizioni, che molti dei suoi abitanti in realtà non sono cittadini a pieno titolo, perché invisibili e marginalizzati, che la democrazia è un processo in costante divenire. Il teatro può offrire a individui e gruppi la possibilità di entrare nel quadro di riferimento della società (della polis), diventando visibili, ponendosi dunque come soggetto politico: non si tratta di “sottomettersi al palcoscenico”, ma di salire sulla scena della città. Magari senza adeguarsi alle “buone maniere”, e cercando di cambiare le regole, sia quelle scritte nei codici sia quelle non informali del galateo. Anche questo processo corre molti rischi, a cominciare dalla moltiplicazione di soggettività identitarie, che quando si assolutizzano entrano in conflitto. Ma proprio questo, in teoria, sarebbe il compito del teatro e della cultura: mostrare (o meglio, far sperimentare al pubblico) la molteplicità dei punti di vista, per poi spingere a trovare un compromesso che non limitarsi alle relazioni tra i corpi, ma deve diventare logos (e magari norma) e poi azione politica. La teatralità naturale e multidirezionale dell’agorà non basta.

Marina Abramović The Artist is Present

Marina Abramović, The Artist is Present (MOMA, New York, 2010)

A un certo punto Sennett nota che l’antica agorà “durò mille anni, mentre la Pnice scomparve dopo poche centinaia. Per i cittadini era più importante la vita sociale che si svolgeva nell’agorà della vita politica della Pnice” (p.187). Il declino della Pnice – presto ridotta da assemblea politica cittadina a una grande assemblea di condominio, visto che il potere reale si esercitava altrove – è prima di tutto il tramonto della democrazia. Anche sotto la tirannia e l’impero è possibile sopravvivere e magari prosperare, creare grandissima arte e sviluppare raffinate forme di galateo (rispetto allo sguaiato e rozzo agone politico). La storia ci insegna che di solito la grande maggioranza dei sudditi preferisce non rischiare la vita o la tranquillità personale: rinuncia alla libertà, anche perché spesso delega la responsabilità delle scelte politiche a qualche capo carismatico. In quei casi ci si accontenta del “teatrino delle buone maniere”, beneducato (o represso), dell’agorà.
Altre prospettive investono la porosità dei luoghi della cultura e la dimensione partecipativa. Con la prima, si tratta di attutire la separazione tra lo spettacolo e la strada. Con la seconda, di attutire la rigida separazione tra attori e spettatori.

Tadao Ando Kara-Za Theatre 1988

Tadao Ando, Kara-Za Theatre (1988)

Un altro possibile sviluppo utilizza la mise-en-abyme, ovvero il meccanismo del teatro nel teatro, di cui Sennett riconosce la dimensione politica e l’efficacia. Si tratta di utilizzare, come Amleto, la mimesi piuttosto che la denuncia diretta, sulla scia anche di Erwin Piscator e Bertolt Brecht: “Il carnevalesco fornisce una catarsi, la mise-en-abyme la trattiene. In questo sta la sua forza” (pp. 234-235). Prima ancora che i contenuti, la messa a nudo del dispositivo teatrale mette in discussione la logica della rappresentazione, la separazione tra verità e finzione, realtà e rappresentazione. Il teatro – e le microsocietà dei gruppi e delle compagnie teatrali indipendenti, con la loro esibita alterità – è una mise-en-abyme della comunità che in esso si rispecchia.
Resta sullo sfondo, sempre presente ma mai esplicitamente tematizzato, il potenziale trasformativo del teatro e della performance, per i singoli, per i gruppi e per l’intera collettività. In pratiche che partono necessariamente dal corpo.