Un’arte transitiva e sperimentale: tre saggi su teatro, donne e potere
Laura Mariani, L'Ottocento delle attrici. Da Carlotta Marchionni a Eleonora Duse | Annalisa Sacchi, Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979) | Stefania Bruno e Loredana Stendardo, Donne e impresa teatrale
Forse non è un caso se studiose di generazioni diverse si siano interrogate sul rapporto tra spettacolo e potere, in momenti storici di forti rivolgimenti anche politici. In una fase di conformismo e regressione culturale e politica, la loro riflessione s’intreccia con quella di chi approfondisce il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea. In Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale (Feltrinelli, 2024) David Bidussa si interroga sullo smarrimento della funzione e del ruolo dell’intellettuale e pone come modello una genealogia di pensatori e pensatrici “eretiche” e solitarie. In I cani sciolti (Einaudi, 2024) Franco Marcoaldi tesse l’elogio dell’artista e dell’intellettuale solitario, che
volontariamente, si scioglie da inutili servitù e soggezioni. Non sta al gioco. Abbandona. Cambia scena. Prende un’altra strada. Si ritira nel bosco. Se ne va. In cerca di altri tragitti – più segreti, autentici, personali – volti a celebrare l’esistenza e a lodare il mondo.
(p. 3)
Ma il teatro è un’arte sociale. Il rapporto con il pubblico e la microsocietà del teatro (e della compagnia) obbligano a stratificare la riflessione storica e politica. Soprattutto quando ci si interroga sul ruolo delle donne nello scenario delle lotte per l’emancipazione femminile.
Laura Mariani, L’Ottocento delle attrici. Da Carlotta Marchionni a Eleonora Duse
Laura Mariani, in L’Ottocento delle attrici. Da Carlotta Marchionni a Eleonora Duse (Viella, 2004) esplora il periodo che vede, insieme all’unificazione dell’Italia, una crescente consapevolezza della subordinazione delle donne all’interno della società.
Le quattro protagoniste – Carlotta Marchionni, Adelaide Ristori, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse – sono altrettante lottatrici. Combattono le loro battaglie contemporaneamente su vari piani: quello della pratica artistica, che le vede affermarsi come dive ma prima ancora come artiste; quello imprenditoriale, quando assumono il ruolo di capocomico in una società patriarcale; quello dell’emancipazione femminile, con militanze diverse a seconda del carattere e delle fasi storiche (Mariani, p. 244). A colpire, in una vita di grandi successi ma anche di durissime e logoranti battaglie artistiche e civili, è la consapevolezza del ruolo e degli obiettivi di queste quattro artiste strardinarie. La loro lucidità, conquistata a caro prezzo, ne ha fatto dei role models per tutte le donne, a partire dell’eccezionalità del loro essere attrici, o meglio nonostante l’eccezionalità della loro professione.
Si pensi a quanto risulta determinante e complesso per le donne, e perciò più interessante, il rapporto fra il vissuto personale e l’esibizione pubblica, fra l’immedesimazione e il distacco dal personaggio, fra la microsocietà di appartenenza e la società che deve accettarle e riconoscerle come artiste. Sono le attrici, molto più degli attori, a mettere al centro il corpo (e con esso la voce): non solo come strumento di espressione e come polo di attrazione per il pubblico, ma come motore complesso della creatività. Sono loro a suggerire un modo diverso di gestire il rapporto fra tradizione e rivoluzione teatrale, fra vecchio e nuovo.
(Mariani, pp. 17-18)
Grazie a queste caratteristiche, le attrici hanno svolto un ruolo spesso anticipatore. L’autobiografismo femminile moderno in Italia, fa notare Laura Mariani, viene fatto iniziare da Una donna di Sibilla Aleramo (che fu tra l’altro grande amica di Eleonora Duse), pubblicato nel 1906. Ma già nel 1887 Adelaide Ristori aveva pubblicato con successo il best seller Ricordi e Studi artistici, tradotti in inglese, francese, spagnolo e russo. Il divismo convive con la consapevolezza di sé, l’eccezionalità con la creazione e la condivisione di un altro sguardo.
Annalisa Sacchi, Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979)
Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979) (Marsilio, 2024) di Annalisa Sacchi si concentra sulla svolta tra gli anni Sessanta e Settanta, e dunque sull’emancipazione dal conformismo paternalista esplosa nel Sessantotto, non solo sul versante dell’emancipazione femminile.
Il prologo è centrato su quattro episodi: Carmelo Bene, con il Caligola a Roma nel 1959; il primo happening europeo ovvero L’Anti-Procès sulla guerra d’Algeria di Jean-Jacques Lebel e Alain Jouffroy a Venezia nel 1960; il musicista John Cage che vince il telequiz Lascia o raddoppia? come esperto di funghi nel 1959 (e presenta la fenomenale Water Music in diretta tv); la bagarre veneziana per Intolleranza 1960, dove Luigi Nono nel 1961 segue le peripezie di un emigrante nella società capitalistica, su libretto di Angelo Maria Ripellino.
Nei capitoli successivi, l’analisi esplora alcuni “casi studio”:
# La fabbrica illuminata, sempre di Luigi Nono, con testi di Giuliano Scabia ispirati alle lotte operaie all’Italsider di Genova e presentata alla Biennale veneziana del 1964, misurando le contraddizioni tra lavoro operaio e lavoro artistico;
# la straordinaria esperienza di Leo De Berardinis e Perla Peragallo tra il 1972 e il 1978 a Marigliano, nell’hinterland napoletano, dove la cultura “bassa” della sceneggiata napoletana veniva mixata in stile jazz ai classici testi di Shakespeare; Leo e Perla salivano in scena con alcuni sottoproletari del luogo, sbeffeggiando le ipocrisie della sinistra benpensante, dal decentramento di Paolo Grassi al circuito alternativo della Comune di Dario Fo;
# il cinema-verità (o la “performance registrata”) di Anna, girato tra il 1972 e il 1973 a Roma e visto in sala nel 1975, dove il regista Alberto Grifi con Massimo Sarchielli seguìva una minorenne senza fissa dimora incinta e tossicodipendente;
# la schizofrenia rivendicata – negli anni in cui Franco Basaglia chiudeva i manicomi – dalla poetessa e performer d’avanguardia Patrizia Vicinelli come arma estetica (Apotheosys of schizoid woman, 1979); Vicinelli fu anche protagonista del film di Grifi In viaggio con Patrizia (1966-67-2007); eroinomane impenitente, fu dal 1969 esule in Marocco e una decina d’anni dopo, al suo ritorno in Italia, venne incarcerata a Rebibbia, dove allestì una Cenerentola con le altre detenute, per morire di AIDS nel 1991;
# l’incredibile condanna a nove anni di carcere per plagio comminata il 14 luglio 1968 ad Aldo Braibanti, filosofo e artista d’avanguardia colpevole di omosessualità, rimosso dalla cultura italiana di destra e di sinistra; dopo la sua morte (nel 2014), la sua storia è stata riscattata dall’oblio da Gianni Amelio con Il signore delle formiche (2022).
Stefania Bruno e Loredana Stendardo, Donne e impresa teatrale
Stefania Bruno e Loredana Stendardo si concentrano sul ruolo delle donne all’interno delle cooperative che negli anni Settanta diedero un notevole impulso al teatro italiano. Anche se il sistema teatrale italiano, soprattutto nei ruoli apicali, è ancora oggi troppo maschilista, quella stagione segnò un svolta, come testimoniano all’interno del volume Mimma Gallina (Gruppo della Rocca, la cui testimonianza Passato e futuro della cooperazione teatrale si può leggere su ateatro.it), Mariella Fabbris (Teatro Laboratorio Settimo), Silvia Ricciardelli (Teatro Koreja), Cristina Maccioni (Teatro di Sardegna), Costanza Boccardi (Teatri Uniti) e Natasha Czertok (Teatro Nuleo), ma di esempi se ne potrebbero fare anche altri.
A favorire il cambiamento, oltre a un contesto in cui le istanze femministe trovano una voce nuova e forte, nella società e anche dentro i teatri, contribuì la proprio forma della cooperativa, come emerge dal volume Donne e impresa teatrale e organizzatrici del convegno che ne è all’origine, promosso a Napoli dalla cooperativa En Kai Pan l’11-12 giugno 2021.
In una cooperativa, notano le due curatrici Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel loro saggio “Donne e cooperazione”,
i soci, principalmente attori e attrici, diventano proprietari e responsabili del proprio lavoro e, soprattutto, interlocutori diretti sia con i finanziatori che con i canali della circuitazione. L’obiettivo è garantire ai soci e alle socie continuità lavorativa e indipendenza creativa insieme.
(p. 86)
Tutto questo ha conseguenze sulla struttura organizzativa e sulla divisione del lavoro, molto diversa sia dalle tradizionali compagnie capocomicali sia dalle gerarchie dei teatri stabili.
La cooperativa è una struttura orizzontale in cui la divisione dei ruoli è basata su principi di parità, solidarietà e mutualismo. In questa struttura, di fatto, viene eliminato il principio in base al quale la direzione, sia in termini di potere decisionale che di responsabilità economica, è attribuita a un vertice, diviso in direzione artistica e amministrativa, e al concetto stesso di potere viene sostituito quello di rappresentanza, la quale è distribuita tra tutti le socie e i soci, che possono esprimersi attraverso lo strumento dell’assemblea.
Di conseguenza cambiano anche i percorsi formativi e i ruoli professionali e si affermano nuove figure professionali:
da un lato la professionalizzazione avviene molto più velocemente, perché non v’è più distinzione tra formazione e lavoro, le socie e i soci si formano lavorando e l’acquisizione di un ruolo avviene spesso per l’emergere di una specifica vocazione durante il percorso di apprendistato lavorativo; dall’altro nella pratica di molti gruppi i ruoli possono diventare “fluidi”, attrici e attori raccontano di essersi occupati per anni sia degli aspetti amministrativi che di quelli tecnici, dalla compilazione della pratiche burocratiche al trovarobato.
Con un’avvertenza:
L’aspetto della fluidità non va confuso con una maggiore amatorialità all’interno delle coooperative, piuttosto va assimilato alla definizione di un diverso tipo di professionalità: si forma in questi anni la figura dell’operatore teatrale.
(p. 93)
Questi processi avvenivano in una fase di grande espansione, in cui il teatro riconquistava territori che aveva abbandonato dopo l’avvento di cinema e televisione. E in questo modo
le donne – attrici, registe, organizzatrici – cominciano a essere visibili, si avviano importanti percorsi di empowerment, si definiscono nuove professionalità. Ciononostante il ruolo delle donne è un vero e proprio rimosso nella storia del Nuovo Teatro.
(p. 102)
Una politica della performance
Negli studi di Sacchi e Mariani, è sintomatica l’attenzione alle reti amicali dei protagonisti e soprattutto delle protagoniste, anche se spesso questo cordone di colleghi e artisti non è stato sufficiente a evitare un destino di marginalità o peggio la deriva dell’autodistruzione. Così come le cooperative e i gruppi teatrali nascevano sulla base di affinità elettive estetiche e politiche (e spesso anche personali e sentimentali).
Quelle narrate da Sacchi e Mariani sono esperienze segnate dall’esperienza del fallimento, o meglio dal beckettiano “Fallire meglio”. Le due autrici condividono anche la fiducia nel teatro e nel performativo come arma politica – o meglio, dai corpi, dalle voci, dai gesti dei performer come terreno di scontro politico.
Per Mariani,
Il teatro corrode i tabù, mostra che alcuni stereotipi della femminilità possono essere ripensati e rovesciati, mette in crisi la distinzione tra verità e finzione. (…) L’attrice in scena mostra quanto sia imperscrutabile il confine fra verità e artificio, come l’artificio possa servire alla verità e viceversa, che tecnica raffinata occorra per valorizzare certi crinali.
(Mariani, p. 143)
Per Sacchi, la performance è un
territorio ontologicamente relazionale e collaborativo (…) dove si articolavano coscienza politica e sapere artistico, conoscenza sensuale e militanza contro i sistemi di dominio e di sfruttamento, contro il conformismo e la distruzione ecologica.
(Sacchi, p. 247)
![Adelaide-Ristori-in-Giuditta](https://www.ateatro.it/webzine/wp-content/uploads/2025/01/Adelaide-Ristori-in-Giuditta.jpg)
Adelaide Ristori in Giuditta di Paolo Giacometti
Sacchi è affascinata dai contro-eroi (e dalle contro-eroine) irriducibili: personalità che il sistema sociale e artistico non è riuscito a normalizzare (in molti casi, nemmeno dopo la loro morte, come è invece capitato a molti grandi del passato). Sacchi sembra incasellare gli artisti in categorie, a seconda del grado di compromissione con il potere. Ci sono gli autentici “inappropriabili”, destinati all’emarginazione, come Vicinelli e Braibanti, o anche la protagonista di Anna. E forse anche Perla Peragallo, che dopo Avita murì (1978), lo spettacolo a due dal titolo programmatico che chiuse l’esperienza di Marigliano, abbandonò le scene per diventare pedagoga. C’è chi – trovando un sottile sentiero tra queste tensioni distruttive (e autodistruttive) e la tendenza alla normalizzazione – è sceso a compromessi, pur mantenendo una fondamentale diversità: in questa categoria ricadono Carmelo Bene e soprattutto Giuliano Scabia e Leo De Berardinis, che sono poi diventati maestri eccentrici per le generazioni successive, il primo con il corso di drammaturgia al DAMS di Bologna, l’altro con la sua compagnia, che sempre a Bologna è stata fucina di alcuni dei più interessanti talenti della scena italiana. E poi, in questa visione, ci sono le schiere di artisti funzionali allo stato delle cose.
Né dive né dannate, ma certo determinate, le giovani teatranti che negli anni Settanta hanno lottato per trovare un dignitoso spazio professionale nell’ambito teatrale, magari in ruoli fino a quel momento riservati ai maschi, sono state tra le protagonste di una profonda trasformazione della società, che ha visto le donne assumere ruoli di crescente resposabilità all’interno delle nostre società (inutile aggiungere che il cammino è ancora lungo, anche nel mondo del teatro, come indicava l’analisi di Laura Mariani e come ribadiscono oggi le statistiche di Amleta). Nei decenni successivi, le cooperative hanno preso strade diverse: alcune hanno terminato la loro parabola, altre continuano a lavorare nell’area marginale della ricerca teatrale, altre sono diventate importanti realtà di livello nazionale, in dialettica con gli equilibri di potere consolidati.
![Mirella Schino Eleonora Duse](https://www.ateatro.it/webzine/wp-content/uploads/2025/01/Mirella-Schino-Eleonora-Duse-174x246.jpg)
Mirella Schino, Eleonora Duse
Per Mariani, le grandi attrici sono anche, più o meno consapevolmente, delle ribelli, a loro modo inappropriabili: e infatti continuiamo a interrogarci ossessivamente sul “genio” della Duse e sulle ragioni del suo successo mondiale, come ha fatto di recente Mirella Schino nel suo appassionato e illuminante Eleonora Duse. Storia e immagini di una rivoluzione teatrale (Carocci, 2023). Per il loro successo le attrici ottocentesche hanno pagato un prezzo altissimo a livello fisico, psichico, economico, sociale… La possibilità del fallimento era sempre in agguato. La loro non è mai una vittoria piena, senza traumi, ma una lotta costante, impari.
Le loro difficoltà nascono anche perché, suggerisce Mariani, hanno incarnato un’arte di rottura, che riusciva ad anticipare i movimenti profondi della società (e dei desideri femminili), che dava forma a emozioni e sentimenti latenti. La dialettica sociale che emerge dai loro percorsi è più complessa e ambigua dello scontro romantico tra il genio ribelle e il conformismo collettivo che poi si incarna negli apparati repressivi, e anche della “normalità” di una società che si fodna sulla cooperazione e che supera le discriminazioni di genere.
La radicalità dell’arte, necessaria e sempre pericolosa, refrattaria alle logiche dell’intrattenimento preconfezionato, è indipendente dal successo immediato. A volte, anche quando ha successo, può essere sottilmente sovversiva, pervertire l’immaginario. La performance resta in ogni caso il suo terreno privilegiato, con la compresenza di un pubblico reattivo, la capacità di attraversare territori sempre diversi. La sua imprevedibilità implica una dimensione sperimentale: perché, come nota Mariani, “al teatro si addice la transitività” (p. 145).
IL LINK
Laura Mariani, Risorgimento teatrale