Volontari dietro le quinte

Diario di una stagista da Santarcangelo a Castiglioncello a Arcidosso

Pubblicato il 13/09/2003 / di / ateatro n. 057

C’’era, questa estate, una Cinquecento verde, carica di bagagli, in giro per le strade italiane, e, alla guida c’’ero io, Noemi, 25 anni, una laurea in Lettere, un Master in Teatro iniziato da pochi mesi, tante aspettative per il futuro e desideri di conferme.
Ora, dopo due mesi, al mio ritorno a casa, porto con me l’’esperienza vissuta come stagista in tre diversi festival di teatro, e cerco faticosamente di tirare le somme di un periodo estremamente intenso e significativo.
“Santarcangelo dei Teatri”, “Armunia, Festival Costa degli Etruschi”, “Toscana delle Culture”: queste le tre tappe del mio viaggio.

“Santarcangelo dei Teatri”: la prima impressione
Ricordo la sensazione della prima partenza, da Pisa, in un pomeriggio torrido: negli occhi ancora brillavano i Lungarni illuminati per la festa di san Ranieri, e nella mia testa risuonavano le parole dell’ultima lezione del Master prima della pausa estiva.
Il viaggio iniziava con la netta percezione della necessità di pratica, dopo mesi trascorsi tra lezioni teoriche e libri. L’’obiettivo era imparare a fare, capire cosa realmente fosse questa “organizzazione” per la quale avevo deciso di investire tutto il mio tempo e le mie energie.
Il Master si è interrotto con Andres Neumann che, all’’aria aperta e a piedi nudi sull’erba, a una classe di studenti in partenza per gli stage ha riferito quel che anni prima gli aveva detto Peter Brook: in teatro bisogna saper conservare sempre “l’’attenzione della spia in una città nemica”, aggiungendo poi che non bisogna mai dimenticare il motivo per cui ci si trova in un posto, non perdere mai il contatto con ciò che si sta facendo.
Sono partita con gli occhi bene aperti, decisa a non lasciarmi sfuggire nulla.

Certo che tutto mi è sembrata fuor che una città nemica Santarcangelo di Romagna, prima tappa del mio viaggio, dove sono arrivata il 17 giugno e dove sarei rimasta per un mese, fino alla fine del festival.
L’’impatto è stato spaesante, travolgente: mai visto il festival di Santarcangelo, in realtà mai visto un festival prima di allora. Difficile da immaginarne il clima: immediata è stata la percezione di transitorietà, necessaria l’’accettazione di alcune condizioni chiare: flessibilità, adattabilità, assoluta disponibilità. E’ una realtà in cui gettarsi a capofitto, una macchina da cui lasciarsi risucchiare, assorbire, un mondo che ingloba ed esclude l’’esterno. Si avverte da subito una compressione assoluta del tempo nella quale si bruciano in pochi giorni mesi di lavoro e per la quale tutto acquista un’accelerazione incredibile. Le conoscenze, le amicizie, le relazioni sono velocissime e innumerevoli, tutto si consuma nella frenesia, nell’’adrenalina pura.
Un festival vive dell’’effimero che lo sostanzia.
C’’è stato bisogno di qualche giorno per ambientarmi, poi è iniziato il conto delle ore di sonno perso. Mai parole furono più profetiche di quelle che Oliviero Ponte di Pino mi disse il 16 giugno, quasi come avvertimento: “Ma tu lo sai che a Santarcangelo non dormirai mai?”.

Il popolo degli stagisti
Forse si parla sempre poco di queste figure “marginali”, ma credo che sia importante considerare il fatto che, soprattutto in clima di tagli e ristrettezze economiche, molto spesso i volontari sono una delle risorse più importanti che consente la realizzazione materiale di un evento complesso come un festival.
Uno stage è fondamentalmente un’’esperienza a doppio scambio e un arricchimento reciproco: lo stagista si mette a disposizione di una struttura, lavorando gratuitamente; in cambio riceve vitto alloggio e tutta una serie di opportunità che, a partire dai propri interessi, deve riuscire a capire e carpire. Per questo motivo uno stage può tramutarsi in una grossa occasione per imparare a “fare”, capire come funzionano realmente le cose sul campo; il fatto di essere quotidianamente circondati da giornalisti, operatori, critici, artisti, è sicuramente una condizione ideale per il confronto continuo. A livello professionale, chi non ha esperienza e tuttavia vuole intraprendere un certo mestiere, ha la possibilità di vedere da vicino alcuni modi di operare, alcuni metodi di lavoro (perché non c’è n’è soltanto uno): sta poi all’abilità di ognuno “rubare”, selezionare e trattenere ciò che si ritiene funzioni e capire quali sono gli errori da evitare di commettere in futuro.

Io credo che l’’apporto dato dagli stagisti al festival di Santarcangelo non sia trascurabile, anzi ritengo che sia materialmente indispensabile. Intorno a un nutrito organico di base, infatti, ruota circa un centinaio di ragazzi per la maggioranza provenienti da Università, corsi di formazione post-universitaria, scuole di teatro. Quel che ancora oggi mi meraviglia è come tante persone fra loro estranee possano riuscire a compattarsi in una squadra efficiente in così breve tempo. Credo che in questo stia il successo di un festival dal punto di vista organizzativo: quando si è in grado di dare un fine comune alle azioni di ognuno e suscitare un senso di appartenenza a un luogo e a un gruppo di lavoro.
Durante l’ultima edizione del festival, gli organizzatori hanno pensato di considerare in modo nuovo il ruolo di queste figure di “contorno”. Poiché la realtà è che lo stagista arriva sempre a macchina già avviata e rischia di ritrovarsi a svolgere compiti che sembra non abbiano attinenza alcuna con l’organizzazione di un festival (vedi la tanto temuta e aborrita fotocopia…).
I giorni immediatamente precedenti l’’inizio della kermesse sono stati dedicati anche ad attività che consentissero di avere da subito una visione globale e non parcellizzata di un ambiente lavorativo dalla struttura ben definita. In un’’idea di progetto di tutoraggio per gli stagisti, è stata pianificata una serie di incontri con tutti i responsabili dei vari settori, finalizzata alla presa di coscienza dell’’effettivo ruolo di ognuno e delle competenze di ciascun ufficio. In questo modo, abbiamo potuto comprendere più facilmente il funzionamento interno dell’intero sistema, riuscendo così ad avere una percezione esaustiva di quello che è un metodo di lavoro estremamente sfaccettato e di primo acchito spiazzante. Perciò, qualunque fosse l’’incarico assegnato, abbiamo preso atto del perché della nostra presenza, compreso più facilmente i nostri compiti e gli obiettivi del nostro lavoro senza mai perdere di vista il risultato globale che è il fine anche della mansione più umile.
Quest’anno il progetto è partito informalmente: si è trattato di un esperimento pilota che non ha avuto una definizione ben precisa proprio perché si è adeguato giorno per giorno ai tempi e ai modi di un festival che devono e non possono non essere estremamente flessibili. In prospettiva, però, si è profilato un progetto formativo da istituzionalizzare anche in collaborazione con enti preposti alle attività di formazione. Pur non essendo ancora del tutto chiare le modalità di tale progetto, tuttavia era ben chiara l’intenzione di dare visibilità e maggior peso anche a quelle persone che spesso si limitano a svolgere mansioni di pura manovalanza e che probabilmente sono soltanto di passaggio.
Credo che sia un gesto di grande attenzione nei riguardi dell’enorme risorsa costituita dai volontari. Gli organizzatori hanno capito che se c’è consapevolezza c’è maggiore responsabilità, se c’è partecipazione c’è maggiore affezione, e, quando si lavora in gruppo, e per di più in teatro, la condivisione è tutto.

Un’esperienza fra le tante, la mia
Raccontare uno stage è compito assai arduo: ogni giorno dura un attimo e si conclude come una settimana a ritmo accelerato. Anche a distanza di poco tempo il ricordo è una fitta nebulosa attraversata da flash improvvisi: la lucidità della vita regolata è assolutamente inconciliabile con quel coacervo di impressioni, sensazioni, incontri che è stata la mia esperienza al festival.
Quel che mi resta è un profondo senso di arricchimento, la consapevolezza di essere cambiata, di aver acquisito nuovi strumenti, di avere ancora tanto, tutto da imparare, il desiderio e l’entusiasmo di andare avanti, sostanzialmente una serie di conferme: adesso, nel passaggio dalla teoria alla pratica, so finalmente quale sarà il mio mestiere.
Ho iniziato senza un ruolo ben preciso, e questo mi ha dato la possibilità di guardarmi attorno e di ritagliarmi un posto tra gli altri.
Durante i primi giorni ho svolto i compiti più disparati: telefonate, fotocopie, traduzioni in inglese di schede di spettacoli, ritaglio di articoli di giornale per la rassegna stampa, creazione delle plance. Ho stretto le prime importanti amicizie: le prime serate trascorse in “cantinetta” con le mie coinquiline della foresteria (quando ancora non aveva aperto il Circo) spesso per me erano vere e proprie “lezioni” perché, davanti a un bicchiere di vino, Sonia (la vulcanica responsabile del Circo Inferno) e Alessandra (la responsabile dell’Ufficio Stampa) mi hanno raccontato a lungo e con grande disponibilità la loro esperienza ai festival degli anni passati, elargendo preziosi consigli e suggerimenti.
Sono state loro a parlarmi per la prima volta della dimensione totalmente altra che si vive durante il festival e a farmela desiderare; e sono state loro a contagiarmi con la “malattia” da cui tutti prima o poi ci si ritrova affetti, quando già paventavano con precoce nostalgia il senso di panico e “lutto” in cui sarebbero cadute alla fine del festival.
Nel clima prefestivaliero c’è stato da fare l’ingente trasloco dalla Contrada dei Fabbri alle scuole elementari di Piazza Ganganelli con l’allestimento di tutti gli uffici. Poi ci sono stati gli spettacoli del Premio Scenario con il Lavatoio gremito di ragazzi. Il lavoro preliminare in ufficio procedeva a ritmi sempre più incalzanti. Ricordo la fuga di una mattina in moto con “Pollo” (Paolo Rodighiero, direttore tecnico) per lo spettacolo dei Fanny & Alexander.
Poi il Circo ha aperto i battenti, dato il via alle danze, e il festival è cominciato.

Giornata tipo: Inizio dei lavori: ore 9. Fine delle attività: ore 4 (di mattina…)
Il mio ruolo si è definito: in Ufficio Organizzazione la mattina, la sera “responsabile di spazio”, ovvero la persona che si occupa di gestire uno spazio spettacolo e tutto quello che vi accade prima durante e dopo una rappresentazione.
Ho lavorato per cinque sere al Teatro Petrella di Longiano per I canti del caos di Teatro Aperto: lo spazio era bellissimo, un piccolo teatro all’italiana del 1870, con un’acustica fantastica.

Canti del caos di Teatroaperto.

E nella confusione di quei giorni capita di conoscere finalmente Oliviero, sedersi una mattina al bar e intavolare una discussione con lui, Antonio Moresco, Renzo Martinelli e Federica Fracassi.
Ricordo le sere delle repliche e l’ansia per l’ingresso in sala del pubblico, i giornalisti, gli operatori, il desiderio che tutto si svolgesse senza imprevisti,
l’incubo delle casse informatizzate che si inceppano all’ultimo minuto e non emettono più biglietti,
Il direttore organizzativo del festival che viene a salvarti sul suo “motore”,
La tesa concentrazione e poi l’abbraccio del regista che ti ringrazia per aver lavorato ogni sera durante le repliche del suo spettacolo,
e il sorriso di gratitudine della compagnia
E ogni sera l’odore di quel teatro, l’odore del teatro che mi si attaccava addosso, forte e indelebile, me lo porto ancora dentro.

E nel frattempo passavano le mattine assonnate in ufficio
Le riunioni e gli innumerevoli “punti della situazione” da fare
I pranzi a mensa, i caffè shakerati al Caffè Commercio
La foresteria di Sant’Ermete con la signora matta del piano di sopra
Le lunghe notti del Circo Inferno, le minacce quotidiane dei carabinieri, e i kebab e le fette di cocomero delle 3 del mattino
Un’attrice della Valdoca che una notte ti legge in macchina le poesie di Fuoco centrale…

Dopo il Petrella, sono stata assegnata a un nuovo spazio, il Teatro degli Atti a Rimini, dove si prevedevano momenti difficili per uno degli spettacoli di punta del festival, Cinema Cielo di Danio Manfredini.
Forse è stata la situazione più difficile da gestire, sicuramente una bella sfida da affrontare.

Cinema Cielo di Danio Manfredini.

La gratificazione vera viene dalla sola ragione
Per la quale valga la pena di fare questo mestiere
L’emozione
Che ogni volta si ripete
Ti scuote dentro
Ti tocca le corde più profonde
La senti nella pancia
E poi montare su
Sudore e lacrime
Struggente poesia di Cinema Cielo
Sconcia e pura
Squallida e immacolata.

Cinema Cielo di Danio Manfredini
Ho visto Cinema Cielo quattro volte, sempre in piedi e sempre con una torcia in mano (da brava Responsabile di Spazio), a controllare la sala.
Ne ho visto l’evoluzione, giorno dopo giorno, ho capito perfettamente cosa significhi l’unicità e l’irripetibilità di un evento: forse è lapalissiano, ma posso dire di aver visto quanto diversa sia una replica dall’altra, quanto parziale e arbitrario sia quindi il giudizio, quanto peso abbia la presenza del pubblico. Ogni sera la risposta è stata diversa e, al sentire diverso di un uditorio, corrispondeva un diverso agire degli attori.
Uno spettacolo del genere è, secondo me, la dimostrazione di come sia superflua la spiegazione razionale di un metodo e dell’intenzione artistica quando un’idea si traduce in atto che non necessita di alcuna rielaborazione teorica.
Spesso alcune operazioni sono poco chiare, spesso gli stessi registi hanno bisogno di spiegare e chiosare in sede preliminare e di sopperire alla mancanza di immediatezza con lunghi programmi di sala e glosse al proprio lavoro.
Altre volte, invece, il messaggio arriva senza mediazioni, superfetazioni, anche irrazionalmente, e l’illustrazione di un metodo può soltanto aiutare al riconoscimento di un qualcosa di cui si è avuta un’esperienza diretta, può soltanto essere una conferma a ciò che si era intuito a prescindere da tutto il resto.
E’ una questione di ingredienti dosati nel modo giusto: l’emozione arriva quando tutto, gesto parola luce musica, è misurato alla perfezione, un po’come una pozione per la quale la magia riesce. A volte è inspiegabile, ma la ritualità del teatro è davvero misteriosa.
Dopo aver visto lo spettacolo, ho letto la Conversazione con Danio Manfredini, pubblicata su “ateatro”. Leggerla mi ha fatto annuire, mi ha aiutato a dare una veste razionale e intellettuale a un’insieme di sensazioni che erano arrivate comunque, ad un altro livello, e attraverso altri canali di percezione.
Dice Danio che “inizialmente hai una sensazione, che come tale esiste e ti dà un ritmo, ti offre una possibilità di azione, di densità fisica nello spazio, di presenza. Però non sai necessariamente come ricrearla, quella cosa; ma puoi attingere a un immaginario che è un deposito di esperienza personale. E quando suoni un certo tasto, si genera una determinata sensazione: a quel punto hai attinto a una consapevolezza di tipo immaginativo-esperienziale per ricreare quella sensazione, che magari originariamente era una pura sensazione, data dal corpo. E’ come se il corpo facesse un movimento e quel movimento ti procurasse una sensazione, e tu avverti che quella è la sensazione sulla quale dovresti lavorare”.
E’ un po’ quello che diceva anche William James: “Il sentimento è il risultato dell’espressione corporea”: se per la legge della “pars pro toto” la “pars” suscita il sentimento del tutto, è possibile suscitare un’emozione adottando i moti e gli stati d’animo che le sono propri e quindi può rivelarsi paradossalmente vero l’assunto per il quale “noi non piangiamo perché siamo tristi, ma siamo tristi perché piangiamo”.
Questo per quanto riguarda “il lavoro dell’attore su se stesso”.
Ecco che però si può andare oltre questo paradosso quando si passa alla relazione tra attore e pubblico: l’evento che accade crea un’esperienza da attraversare e da condividere. Per dirla con Manfredini, “il corpo ha la possibilità […] di scandire momento per momento il passaggio delle sensazioni, dei livelli e degli stati d’animo”, rende visibile un processo sensoriale e percettivo che diventa osmotico nel momento in cui si instaura la “relazione tra l’attuazione di quell’esperienza e il pubblico”.
Si arriva così a condurre il pubblico a uno stato quasi “patologico” in cui l’emozione è priva di un oggetto preciso, perché lo spettatore parte da stati d’animo per lui immotivati per arrivare a uno stato emotivo necessario. E’come una maieutica che estrae, riuscendo ad attingere al patrimonio emozionale di tutti.
Questo il mio maldestro tentativo di trovare il perché di un’emozione, e spiegare, con parole razionali, l’intensa esperienza di Cinema Cielo…

Il festival poi è finito, con una festa su una collina,
il direttore artistico, scalzo, danzava con i pantaloni arrotolati al polpaccio.
Il giorno dopo sono ripartita.

Castiglioncello, “Armunia, Festival Costa degli Etruschi”, sezione “Inequilibrio”
Altro festival, altro stage.
In viaggio dall’Adriatico al Tirreno valicando l’Appennino.
Ho salutato il Circo da smontare che ogni anno lascia visibile per giorni la sua orma impressa sul terreno, e sono partita. L’effimero di cui parlo sta anche in questo: nella necessità della partenza, dei saluti.
Ho imparato che bisognerà abituarsi alle partenze, ma ho anche scoperto che ci si perde per ritrovarsi. E’ proprio vero che il Teatro è una “grande famiglia”: perché può capitare di passeggiare per il bosco del Castello Pasquini e sentirsi chiamare dalla voce familiare di Pollo che è in giro con Virgilio Sieni;
rivedere gli spettacoli vincitori del Premio Scenario e fare amicizia con Amal e Samir di Progetto Aisha, assistere insieme allo spettacolo di Federico Tiezzi con Silvio Castiglioni e ripensare al giorno della premiazione a Santarcangelo proprio sulla scenografia di In fondo a destra;

In fondo a destra di Raffaello Baldini con Silvio Castiglioni.

ritrovare Massimo Marino, rispondere alla prima telefonata in ufficio e parlare con Cristina Ventrucci, incontrare di nuovo la solare Frie Leysen a caccia di spettacoli da esportare a Bruxelles…
Tutto torna.
Purtroppo 11 giorni sono pochi per riuscire a capire un altro festival, soprattutto quando si è reduci da un’esperienza coinvolgente come quella vissuta a Santarcangelo. E’ difficile rendersi nuovamente disponibili, riazzerare e ripartire da capo. Il confronto è inevitabile e spesso non consente una visione obiettiva delle cose.
Sono arrivata a Castiglioncello e il festival “Inequilibrio” era appena cominciato: ho dovuto fare un grande sforzo per saltare su una macchina già in moto e mettermi alla pari. E, arrivando in ritardo, mi sono dovuta accontentare dei ruoli rimasti scoperti.
Sono stata maschera la sera durante gli spettacoli, accompagnatrice sul bus navetta, hostess durante un convegno della DBM (Danse Bassin Méditerranée), ancora traduttrice di testi, “volantinatrice”. Tuttavia, anche il lavoro di volantinaggio e affissione mi ha consentito di comprendere meglio i meccanismi della promozione (aspetto quanto mai importante), tastare il polso del potenziale pubblico, valutare la strategia promozionale migliore da adottare a seconda degli spettatori, del luogo e dell’offerta degli spettacoli.
Non è poi mancata l’occasione per approfittare di alcune circostanze favorevoli: un’esperienza estremamente interessante è nata grazie alla fortuna di saper parlare l’inglese. Ho infatti collaborato con i tecnici del festival come interprete simultanea aiutandoli a comunicare con un regista americano durante l’allestimento di uno spettacolo: Untitle me di Random Scream. Per un giorno e mezzo sono stata l’aiuto regista di Davis Freeman e la consulente di tre tecnici poco ferrati nelle lingue straniere. Per la prima volta ho assistito allo smontaggio di una scenografia, di notte, e poi all’immediato allestimento della successiva, la “nostra”. Ho visto un aspetto che non conoscevo affatto: il lavoro dei tecnici, che è quello che c’è dietro, il lavoro pesante, fatto di sudore e arrampicate ad altezze vertiginose su traballanti elementi sospesi. Quanto mi è sembrato affascinante anche questo lato nell’ombra, nascosto, profondamente materico del lavorare in Teatro… Ho lottato con le difficoltà che i termini tecnici comportavano, cercando al mio meglio di mediare fra l’intenzione dell’artista e la sua realizzazione materiale. Negli intervalli ho rubacchiato qua e là, facendo domande con curiosità inesauribile e costante stupore, su filtri, luci, effetti, suoni.
Abbiamo lavorato in squadra per ore, fino allo spettacolo che ho seguito insieme ai “miei ragazzi” dalla cabina di regia.
Anche da Castiglioncello riporto una profonda esperienza a livello umano, tanti incontri con persone che spero di non perdere.

Il Castello
La realtà del Castello Pasquini è unica. Alla forza centrifuga e irradiante di Santarcangelo corrisponde la forza centripeta e accentrante del Castello, luogo in cui si concentra tutto: uffici, spazi per gli spettacoli, foresteria per artisti e stagisti.
A volte il castello può apparire una “turris eburnea” scollata dalla realtà in cui è inserita, da un territorio che forse non trasmette la necessaria linfa vitale.
Il luogo, dalle enormi potenzialità molte delle quali ancora da scoprire, risente di una scarsa attenzione da parte dell’opinione pubblica, è ostacolato anche a causa di motivi politici ed economici, comunque poco valorizzato proprio da chi dovrebbe invece considerarlo una ricchezza e una risorsa, e questo contro le intenzioni di una direzione artistica dalle grandi idee e dai grandi sogni. E’ un posto che può tramutarsi in una vera dimora, grazie ai progetti di residenze che si svolgono durante l’inverno e ai festival estivi durante i quali si popola di artisti e stagisti.
La residenza è una soluzione incredibilmente interessante: chi ospita offre sostegno logistico, tecnico, a volte economico, dà alle compagnie la possibilità di dormire mangiare e provare, mettendo a disposizione il laboratorio di scenotecnica, le luci, l’ufficio stampa. In cambio gli artisti ospitati mostrano il loro lavoro: prove aperte, training, anteprime, conferenze spettacolo, materiali scenici.

Zero spaccato di Leonardo Capuano.

Zero spaccato di Leonardo Capuano, sicuramente uno degli spettacoli più interessanti del festival, è una nuova produzione nata durante una residenza nel castello, e già mostrata al pubblico nelle diverse fasi di elaborazione. L’ultima edizione di “Inequilibrio” ha presentato lo spettacolo finito, frutto di un lavoro nel quale una direzione artistica sensibile ha fortemente creduto e che ha sostenuto con entusiasmo.
Durante il festival, il terzo piano del castello è la foresteria per le compagnie e gli stagisti. Se la socievolezza non è dote di tutti, tuttavia alcune presenze non si possono dimenticare: Massimo Schuster (la “mamma” delle stagiste), protagonista indiscusso di tutte le colazioni del mattino; Roberto Abbiati, compagno fedele durante le lunghe file per il bagno, Giacomo Verde prima del suo spettacolo in cucina alla ricerca di pane raffermo per le “mollichine” di Hansel e Gretel, e poi Francesco Niccolini, la famiglia Brie al completo…

Hansel e Gretel di Giacomo Verde.

E’ un’esperienza intensa e positivamente demistificante l’incontro con le persone, e non solo con i personaggi sul palco.
I pochi giorni a Castiglioncello sono trascorsi velocemente: il festival finiva e mi sfuggiva ancora qualcosa. Così, dopo l’ultimo spettacolo, è successo che uno spontaneo colloquio con Massimo Paganelli al quale confidavo il mio dispiacere per non essere stata in grado di integrarmi completamente, abbia dato lo spunto al Direttore artistico per intavolare un dibattito estemporaneo. Sull’installazione colorata di Toni Ulivieri, è iniziato un discorso al quale hanno partecipato tutte le persone che hanno lavorato al festival: è stata una riflessione finale, un bilancio, un riepilogo dei successi e degli insuccessi. Interventi vari si sono susseguiti su molti argomenti: dalla qualità degli spettacoli, ai problemi con la stampa locale, le questioni politiche ed economiche, i sogni del “Conte Pasquini” (Paganelli) che romanticamente continua a credere in un ideale utopistico e che conserva ancora negli occhi il guizzo di un ventenne entusiasta della vita.
Ricordo, tra le tante, le belle parole di Paolo Maier e quelle di Gian Maria Tosatti. Quel momento forse è valso tutto il festival, e ne conservo un ricordo vivido e indelebile.
Abbiamo visto il sole sorgere sull’installazione e, quello stesso giorno, anche il mio secondo stage è finito.

La tappa successiva è stata Arcidosso, il festival “Toscana delle Culture” (dove, per inciso, ho incontrato ancora una volta Pollo…).
Ora che sono tornata a casa sono già pronta per una nuova partenza.
Il mio viaggio sembrava appena finito, e invece mi trovo nuovamente e inaspettatamente a partire con la mia Cinquecento, la mia casa viaggiante, guscio di lumaca, ora alla volta di Riccione, per il mio primo lavoro, premio Riccione Teatro, premio Tondelli, prima edizione di una rassegna teatrale.
E’ una coazione a ripetere, è un bisogno ormai innescato: mi tornano alla mente le parole scelte per il progetto del Circo Inferno 2003, quelle di Josè Saramago: “Il viaggio non finisce mai… La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro”.

Noemi_Quarantelli

2003-09-13T00:00:00




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