BP2011@Torino Dalla Lituania all’Africa

Con una intervista a Marius Ivaškevičius in margine a Madagaskaras e alle sue utopie tragicomiche

Pubblicato il 28/02/2011 / di / ateatro n. #BP2011 , 132

Stefano Moretti e la Compagnia degli Incauti stanno lavorando alla traduzione, messinscena e auto-produzione di un testo teatrale lituano del 2004, Madagaskar, del giovane dramaturgo Marius Ivaškevičius. In anteprima per i lettori di www.ateatro.it, la presentazione del progetto e una ampia intervista con l‘autore.

Perché mettersi in viaggio Verso Madagascar…

1. Com’è nato il progetto (ammesso che lo sia)
Si parlava di utopie e di teatro. Di testi teatrali ambientati su isole utopiche, luoghi reali e immaginari, proprio come lo spazio della scena (un tema che seguo da alcuni anni, con articoli e interventi). (1)
Ci è passato per la testa che uno di questi testi, scritto in Lituania nel 2004, potesse avere il diritto di essere letto e ascoltato in lingua italiana. Toma Gudelyte, dottoranda di letterature comparate a Genova, mi ha fatto leggere Madagaskaras di Marius Ivaskevicius, il più importante drammaturgo contemporaneo lituano. Sono rimasto folgorato dal respiro della sua scrittura, epica e assurda allo stesso tempo. Per darvi un’idea: immaginate che i Monty Python facciano il Peer Gynt di Ibsen o che Little Britain racconti della migrazione degli indiani alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
C’è chi pensa che tradurre una commedia che parla di nazione e nazionalismo, sia semplicemente impossibile. Un’utopia insomma, che per presunzione o per troppo amore del testo, abbiamo provato a seguire.
Traddotto il testo, chiedendo spesso consiglio all’autore, al quale abbiamo anche fatto una lunga intervista scritta, abbiamo iniziato a muoverci in tre direzioni:

a) cercare un editore italiano interessato alla pubblicazione;
b) mettere in scena il testo;
c) produrre materiale scentifico tramite convegni e contributi su riviste scientifiche.

2. Strategia artistica e produttiva
La strategia artistica e produttiva che stiamo ponendo in essere con il nostro progetto su Madagascar esula inevitabilmente dalla pura e semplice ricerca di fondi e di strutture logistiche per la creazione di uno spettacolo teatrale. Come ci capita di osservare sempre più di frequente, lo stesso allestimento di uno spettacolo o di una performance presuppone che gli artisti si facciano produttori e promotori del loro stesso lavoro. Ritorno al mecenatismo? Diremmo piuttosto trionfo dell’economia di mercato e del marketing culturale. Nell’ambito di quell’ “ampliamento della prospettiva” auspicato e promosso dal C.Re.S.Co, la nostra progettualità vuole e deve fare i conti, inevitabilmente ma non senza sforzi e idiosincrasie, con la totalità delle pratiche sociali e economiche che riguardano la comunicazione, i media e lo spettacolo.
La prima riflessione – e forse anche l’ultima, ossia da farsi a consuntivo della nostra esperienza – riguarda lo statuto giuridico, artistico e in senso più ampio politico della nostra compagnia. Gruppo di ricerca, spazio di intervento culturale, associazione o impresa culturale? I confini tra queste diciture, pur delimitando abissi di differenza, sono assai labili e confusi. (2)
Nella pratica (cattiva, certo), la differenza spesso risiede nell’impossibilità di fornire una continuità retributiva ai componenti del gruppo, donne e uomini che a vario titolo collaborano alla creazione e alla promozione di un evento teatrale. Precarietà lavorativa che non equivale a una sana spinta verso la competitività e la creazione ma che può inficiare la stessa libertà di ricerca, il suo “respiro”. Di fronte alla necessità vitale di ricevere da un gruppo di “esperti” la facoltà di esistere, gli stessi progetti artistici rischiano di subire il fascino dei tempi, delle mode, del compiacimento personale. Quelle realtà che sono e si definiscono “agevolatori” delle produzioni rischiano di trasformarsi in ostacoli nuovi e ancor più pericolosi da superare. (3)
Cercando non solo di intrecciare le scelte artistiche a quelle produttive e organizzative, ci siamo chiesti se fosse possibile di farle coincidere. L’organizzazione e la ricerca di finanziamenti può diventare in sé un’occasione di intervento culturale (rubiamo l’espressione alla dicitura di “Alfabeta2”, che seguiamo anche se lei non segue molto noi teatranti)? È possibile, per un progetto culturale che non è ancora appetibile per il mercato diffondersi senza essere stritolato dalle sue logiche? Tra essere sul mercato e esserne completamente fuori, una terza opzione è davvero impossibile? Nell’attesa di trovare (forse) risposta a queste domande, ci siamo mossi seguendo questo schema, solo in parte premeditato:

Creazione di una progettualità triennale (il progetto sulle Utopie e le distopie MAi – mondi alternativi ir/realizzabili) presentata:
a) al Comune di Bologna, per partecipare alla gestione di una stagione Off del teatro Duse di Bologna (ex ETI). Questa proposta è stata a sua volta accompagnata da una lettera di interesse e sostegno da parte dell’ERT e della società privata CAMST
b) ad aluni sostenitori privati nell’ambito dell’imprenditoria emilana: gruppo Maccaferri, Camst (che hanno risposto finanziando i costi di vitto e alloggio della compagnia nella fase di preparazione dello spettacolo)
c) alle Fondazioni bancarie di Bologna (che hanno già finanziato il programma di intervento precedente e che stanno al momento valutando il nuovo progetto)

– Partecipazione a bandi e concorsi (quelli che il C.re.s.co definisce “agevolatori” della produzione):
a) residenze creative 2010 del Teatro Garybaldi di Settimo Torinese (vinto)
b) Premio Scenario 2011 (in concorso)

– Attivazione di collaborazioni con teatri e associazioni teatrali:
a) con Agriteatro di Tonino Conte, con sede a Cremolino (AL) che ha ospitato in residenza la prima fase di laboratorio del lavoro, abbattendo i costi di pre-produzione
b) con il Teatro Consorziale di Budrio (Bo), che dal 2009/2010 ospita stabilmente le produzioni della compagnia

– Presenza nella programmazione culturale di amministrazioni locali (ed eventuale finanziamento)
a) con la Città di Ovada (AL) che promuove e finanzia lo spettacolo nell’ambito di una rassegna diretta e gestita dalla compagnia per il 150° dell’Unità d’Italia
b) presentando il progetto agli assessorati alla cultura delle città di Genova, Milano e Torino, nell’ambito dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

– Presenza nella programmazione culturale di amministrazioni regionali
a) il progetto Madagascar, all’interno della progettazione triennale della compagnia è entrato nel monitoraggio della commissione cultura della Regione Emilia Romagna per le attività del 2011.

– Traduzione del progetto in un’operazione di intervento culturale e di discussione ad ampio raggio, che coinvolge artisti, università e operatori culturali
a) coinvolgendo nella creazione del progetto un fotografo, uno scultore e un musicista che non siano solo corredo e maestranze al servizio della regia di uno spettacolo, ma che partendo dal lavoro comune sul testo teatrale, portino avanti un lavoro personale e autonomo, che potrà portar loro accrescimento, riconoscimenti e gratificazioni anche al di fuori dell’ambito specifico dello spettacolo.
b) presentando e discutendo il progetto al convegno di Storia Comparata e Teoria della Letteratura, intitolato Performance e performatività tenutosi a Messina il 18-20 novembre 2010
….e dulcis in fundo…
c) presentando il progetto a… Torino per le Buone Pratiche 2011!

NOTE

(1) Sulle isole utopiche a teatro, dal Seicento di Andreini e Shakespeare al Novecento di J. M. Barrie e Tom Stoppard, ho pubblicato «Arcadia maledetta». Ismenia, La Tempesta e l’utopia cortigiana di Giovan Battista Andreini, su www.drammaturgia.it e in «Annuario Internazionale della Commedia dell’Arte», 3 (2010), Firenze, Olschki (in via di pubblicazione), e redatto due interventi inediti presentati a Torino (Il potere di un’isola che non c’è. Utopie teatrali barocche e contemporanee, in I volti degli intellettuali di fronte al potere. Giornata di studi della Scuola di dottorato in Culture moderne e comparate dell’Università di Torino, 13 maggio 2009) e Oxford (Never Land Stages. Theater as Utopian Space in J. M. Barrie’s insular plays, Utopian Spaces of British Literature and Culture, 1890-1945. A One-Day Conference at the University of Oxford, 18 September 2009).

(2) Nel citato Quaderno di Bassano, si legge che «un ulteriore elemento per innescare dinamicità nel sistema è sicuramente quello di identificare una forma giuridica adeguata per le compagnie teatrali. Le compagnie teatrali possono anche essere riconosciute come “imprese” ma a patto che vengano inquadrate in un modello specifico di “impresa culturale”, le cui caratteristiche e funzionalità sono ancora tutte da delineare con appositi studi di settore, ma che riconoscano almeno la natura lavorativa atipica e intermittente non solo dei dipendenti, ma pure delle imprese del settore»; p. 6.

(3) Questo punto apre una discussione più ampia su quello che ci pare essere un tabù dell’attuale organizzazione teatrale. Pur essendo meritori e assolutamente necessari alla vita e allo sviluppo futuro del teatro italiano contemporaneo (come lo sono per il nostro progetto), le residenze creative, i bandi per le giovani compagnie, per i drammaturghi e performers non possono essere lasciati soli nel dialogo con le nuove generazioni, come rischia di avvenire ora che, tra l’altro, è scomparso il pur farraginoso e complesso rapporto con l’ETI. Il rischio che si corre è quello che le scelte artistiche e le progettualità delle compagnie stesse si modellino di volta in volta sulla contingenza di una scadenza e di una commissione. Una dinamica che và ben aldilà di quella storica, naturale e necessaria dialettica che da secoli presiede ai rapporti tra committente, mecenate e artista, tra mercato e libero professionista della cultura e del pensiero. La questione è spinosa e antica, perché da sempre il produttore ha imposto – o tentato di imporre – il proprio volere al regista; è cosa risaputa sin ai più ingenui. Nuova invece è la scarsa capacità degli artisti di far fronte a questa scommessa; perché, resi vulnerabili dalla quasi totale assenza di altri interlocutori, si trovano nella condizione di dovere la loro stessa esistenza e sopravvivenza a queste nuove forme di finanziamento – a loro volta fragili e sottofinanziate.

Madagaskar. regia di Rimas Tuminas, al Piccolo Teatro di Stato di Vilnius (2004).

SM: Nel 2004, come tu stesso confessi nella Premessa, ti sei accinto a scrivere Madagascar su invito del regista Rimas Tuminas. Prima d’allora non esistevano pièces teatrali che affrontassero la controversa figura di Kazys Pakštas. A chi si deve l’idea di far diventare Pakštas un personaggio teatrale? Che significato ha riprendere la sua figura e il suo pensiero negli anni Duemila?

MI: Sulla figura di Kazys Pakštas non solo non esistevano pièces teatrali, ma in generale non c’era quasi nessun materiale a disposizione. Era un eroe dimenticato della Lituania del primo dopoguerra. Per la prima volta ne ho sentito parlare proprio da Rimas Tuminas ed è stato lui a propormi di trasformare questo materiale prima in pièce e poi in spettacolo.
Tuminas, però, aveva una visione un po’ diversa: l’idea del regista era quella di far arrivare Pakštas nella Lituania rustica, dove avrebbe incitato i contadini a trasferirsi in Africa. Io invece, approfondendo il materiale, sono rimasto più colpito dall’élite lituana di quel periodo, da quel mondo intellettuale. Forse sono stato suggestionato dallo stesso pensiero di Pakštas: lui aveva fondato il suo progetto del trasferimento della nazione su calcoli precisi, aveva riflettuto su tutte le possibili conseguenze e difficoltà di questo grandioso progetto. Lo avrebbe eseguito a un livello nazionale e statale e non incitando di volta in volta i villaggi separatamente.
La pièce è comparsa nel tredicesimo-quattordicesimo anno dopo la ricostituzione dell’indipendenza e, certo, lo spettatore ha visto sul palcoscenico molti paralleli con la siuazione attuale, perché anche nella pièce è passato più o meno lo stesso arco di tempo dalla prima ricostituzione della Lituania nel 1918. Ritornano oggi la stessa idealizzazione della Lituania, gli stessi slogan patriottici insieme alla mancata strategia da parte dello Stato e alla massiccia emigrazione dei lituani spinti da motivi economici verso l’Occidente.

SM: Le teorie geopolitiche e razziali di Pakštas, lette oggi, possono sembrare assurde ma al tempo stesso inquietanti. Negli stessi anni in Germania Hans Grimm pubblicava Volk ohne Raum, che ispirò la teoria hitleriana dello spazio vitale. Così pure in Italia, schierandosi a fianco di Hitler, Mussolini disse che un popolo senza spazio non può esistere. Leggendo la commedia, però, si ha l’impressione che, nella sua follia, Casimiro abbia un lato patetico e tragicomico che ce lo rende in qualche modo “simpatico”. Del resto, hai scelto di giocare con la sua figura sin dal nome, chiamandolo Pokštas. Che ruolo hanno, per te, la parodia e la comicità nella riscrittura della Storia? E, in generale, che cosa è per te il comico?

MI: Esattamente, la retorica e le idee di Kazys Pakštas possono sembrare razziste solo nel contesto di oggi. All’inizio del XX secolo era invece la norma: tutto il mondo occidentale era intriso di spirito razzista, i bianchi si consideravano la razza superiore nei confronti degli altri sia negli Stati Uniti, sia in Europa e molte nazioni erano dominate dall’idea di colonizzare di nuovo e questa volta definitivamente il continente dell’Africa, dove fondare i surrogati delle Americhe. Ovviamente, nessuno chiedeva agli africani cosa ne pensassero, come precedentemente nessuno aveva chiesto agli indiani dell’America l’opinione sul trasferimento dei bianchi nel loro continente.
Il colonialismo era un’idea ancora viva e secondo Kazys Pakštas era l’unico modo per la Lituania di sopravvivere. Ma il mondo d’allora è cambiato e oggi parlare seriamente di quella realtà è impossibile, il comico diventa l’unico modo per ricordarla e per rifletterla. Solo utilizzando il comico si può invisibilmente passare al tragico e attraverso la loro combinazione (il tragicomico) parlare di questo tema con lo spettatore contemporaneo.

SM: Al riguardo, di recente il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha ripreso la nota formula di Marx secondo cui la Storia si ripete sempre, con l’unica differenza che se la prima volta si presenta come una tragedia, la seconda volta si ripete in farsa. Sei d’accordo? In una intervista recente, lo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas dice che, per descrivere “lo stato agonizzante del nostro tempo” è necessaria la “lente della parodia” che permette di raccontare la vita, sempre tragicomica. Che cosa ha significato per te descrivere un mondo agonizzante, quello che precede la Seconda Guerra Mondiale, mettendolo in relazione alla nostra società odierna e alla sua crisi?

MI: Credo di aver risposto a questa domanda.

SM: Affrontando l’ideologia del Pakštas storico, emergono temi come il colonialismo, il razzismo, l’emigrazione forzata e lo studio della demografia malthussiana. Per questo, rappresentare Madagascar in Italia oggi tocca alcuni nervi scoperti: sotto la spinta di movimenti xenofobi e razzisti, gli italiani stanno rispondendo con diffidenza e paura all’immigrazione di decine di migliaia di persone provenienti dall’Europa dell’Est, dalla Cina, dall’Africa, dal Maghreb. Com’è la situazione in Lituania? Qual’è stata la reazione degli spiriti più nazionalistici e sciovinisti? Esiste un problema razziale nella Lituania di oggi?

MI: Il razzismo non è scomparso, si è solo camuffato sotto la maschera della correttezza politica. Ma è sempre dentro di noi e potrebbe erompere in qualsiasi momento. Così è successo in Lituania e in molti paesi dell’Europa Orientale durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il regime nazista che li aveva occupati ha dichiarato gli ebrei fuori legge e praticamente oltre i confini della concezione dell’uomo. Tutti gli strati più bassi e meno educati della società si sono accinti con zelo a uccidere gli ebrei. Anche oggi le risorse della tolleranza nell’Europa Occidentale cominciano a diminuire, gli stranieri non si sentono più al sicuro.
La situazione della Lituania è un po’ diversa, da noi quasi non ci sono immigrati. Ma compariranno inevitabilmente e allora anche a noi toccherà quel difficile esame di tolleranza. Considerando l’opinione dominante dei lituani sugli immigranti dagli altri paesi e altri continenti, non sarà facile né per loro, né per noi.

SM: Scrivendo Madagascar, hai scelto di intrecciare le peregrinazioni di Pokštas in giro per il mondo con le vicende di un’altro personaggio tratto dalla storia, la poetessa Salomėja Nėris. Entrambi i personaggi sembrano rappresentare una parte della storia lituana e, di conseguenza, dell’avventura degli intellettuali europei della prima metà del Novecento: i nazionalisti, che spingono il tasto dell’indipendenza sino allo sciovinismo e al razzismo e quelli che Antonio Gramsci chiamava “intellettuali organici” al partito comunista. A cosa è dovuta la scelta di inventare una impossibile e inconcludente storia d’amore tra queste due illustri figure storiche?

MI: Salomėja Nėris era una figura di spicco e insieme una figura controversa nella Lituania del dopoguerra. Eccellente poetessa, era lacerata tra due ideologie politiche estreme e contrapposte: la destra democristiana e la sinistra comunista. Non era però qualche ideologia profonda a spingerla nelle vortici politiche, ma il rancore personale, l’amore tradito e simili motivazioni. In quell’epoca, era una delle donne più notevoli della Lituania. Cercava invano l’amore e gli uomini, invece di rispondere al suo amore, la sfruttavano nelle lotte politiche. Nella pièce il personaggio di Sale vuole mostrare proprio questo: la femminilità che disperata vaga nella nazione, in cui i maschi sono occupati con la costruzione dello Stato, la creazione della nazionalità e la progettazione di atti eroici. Per cui questo amore non è destinato a realizzarsi.

SM: Tra queste due figure, che sembrano rappresentare due diversi approcci dell’intellettuale all’ideologia, si pone Gerbutavičius, poeta che tu definisci “televisionario”. A questo personaggio fai dire che “in fondo l’arte è menscevismo” ma al tempo stesso rappresenti in lui la figura dell’intellettuale e dell’artista che decide di dedicarsi all’arte pura, che non scende a compromessi con le ideologie e i partiti politici ma nemmeno con la logica del mercato, che in fondo, si è rivelata essere una nuova forma di ideologia dominante. Che ruolo hanno secondo te l’artista e l’intellettuale nella società contemporanea? Che differenza c’è, come dici nel II atto, tra “art” e “industry”.

MI: L’importanza dell’arte, da allora, è notevolmente diminuita. In gran parte sono stati la televisione, internet, il cinema commerciale ecc. a impadronirsi della funzione dell’arte come divertimento. Ma non appartengo a coloro che, per questo motivo, piangono o sbattono la testa contro il muro. Perché anch’io guardo la TV, vado al cinema, navigo in internet. I libri e il teatro non sono scomparsi e neanche i lettori o gli spettatori. E dopo aver sollevato in Lituania numerose e piuttosto accese discussioni con alcuni miei libri ho visto che questo campo è ancora lontano dall’esaurirsi. Se l’arte può provocare, può invitare nuovamente a interrogarsi sulle verità che prima erano ritenute fuori discussione, può influenzare i gusti e la concezione estetica, allora non ha alcun senso seppellirsi prima del tempo.

SM: Di fronte alla riscrittura di personaggi realmente esistiti, come Kazys Pakštas, Salomėja Nėris, ma anche Ronald Reagan e Marlene Dietrich si direbbe che tu abbia un atteggiamento simile a quello di molti scrittori “postmoderni” come Enrique Vila-Matas, Don De Lillo o J. M. Coetzee, che riscrivono la storia facendo svanire il confine tra verità e finzione, tra Storia e narrazione, dicendo che non vi sono frontiere tra realtà e immaginazione. In teatro qualcosa di simile si è avuto con Thomas Bernard o con Tom Stoppard. Che tipo di atteggiamento hai nei confronti di questa letteratura e di questa drammaturgia cosiddetta postmoderna? Come spieghi il ricorso a diversi stili e registri teatrali, a salti “surreali” come l’apparizione del drago tetracefalo come simbolo del comunismo?

MI: È come fare un cocktail, un’insalata o una pizza. Si può mischiare tutto, l’importante è che sia buono. Non rinuncio a priori a nessun tipo di procedimento o registro stilistico e utilizzo quei mezzi che in quella specifica situazione intuitivamente mi sembrano i più adatti.

SM: Al riguardo, mi viene da pensare che è possibile leggere Madagascar su due livelli: uno “storico” e parodico, come la vita riscritta di Kazys e Salomėja e uno “simbolico” nel quale gli incontri, le scene e i personaggi assumono un valore allegorico. Penso per esempio all’incontro tra Casimiro e Oscar, riscritture parodiche di due personaggi storici che nella loro essenza rappresentano il nazionalismo e il cosmopolitismo, l’emigrazione letteraria. Trovi che una simile lettura sia giustificata?

MI: Ogni lettura è unica e non voglio in nessun modo condizionare il lettore, imporgli le mie interpretazioni. Per questo non offro ricette su come leggere la pièce, non partecipo alle discussioni con i critici, anche se a volte penso che interpretino il testo in modo diverso da come vorrei io. La letteratura è una cosa strana, che viene inghiottita e che solo dopo fiorisce e si schiude come un fiore nella nostra mente. E lì tutto dipende dal contenuto della nostra testa, in che modo e di che roba questa nostra testa è imbottita.

SM: Leggendo e provando Madagascar, alcuni attori hanno avuto l’impressione di trovarsi di fronte a un romanzo e non a una pièce teatrale. La nostra drammaturgia italiana – ma anche quella francese e inglese – hanno un “respiro” molto più corto, parlano di situazioni minute, quotidiane o psicologiche. I tuoi personaggi, invece, hanno una densità e una statura rare nei testi che leggiamo solitamente. Insomma, a leggerli mi sono venuti in mente Ibsen (diciamo quello di Peer Gynt e di Brand, pensando a Casimiro) e Čechov (leggendo Sale e le sue “tre sorelle”). Per esempio, il fallimento delle speranze è la cifra dominante di Madagascar, così come in molti personaggi di Čechov e di Ibsen. Qual è il tuo rapporto con questi grandi drammaturghi del passato? Che rapporto c’è a tuo avviso tra teatro, romanzo e i mezzi di comunicazione dominanti oggi – tv, youtube ecc.

MI: Lo spettatore lituano, o in generale dell’Europa Orientale, è abituato a spettacoli di registi di peso massimo come Eimuntas Nekrošius o Kristianas Lupa. La mia formazione di drammaturgo forse era influenzata da questo teatro. I termini come densità, polisemia, pluralità dei piani nel teatro per me sono i vantaggi. Importante è mantenere il senso del limite e non cadere nella noia e negli eccessi. Comunque, avevo scritto anche qualche pièce piuttosto breve, come Malyš. Cinque anni fa fu messa in scena anche in Italia.

SM: La tua commedia si struttura in tre parti: la costruzione di due utopie (quella nazionale e geografica di Kazys e quella letteraria e amorosa di Sale) – le peripezie per ottenerle e il naufragio delle aspettative. In questo – e nella confronto con grandi personaggi della storia – ricorda The Coast of Utopia di Tom Stoppard, che parla della generazione di intellettuali di Herzen, Bakunin e Turgenev destinati a dover rinunciare alla loro idea di un mondo migliore e più giusto. Secondo te ha ancora senso parlare di utopia oggi? Quali sono le grandi battaglie e i mulini a vento del nostro tempo?

MI: L’utopia è una parte inseparabile dell’umanità, a prescindere dai cambiamenti del mondo e della tecnologia. Gli uomini non smetteranno mai di sognare un mondo migliore. Dall’altra parte, questo sogno sarà sempre accompagnato dai disincanti, dovuti all’acquisizione della consapevolezza che il mondo sognato è impossibile. La ragione di tutto questo è la nostra immaginazione, che può essere distrutta solo dopo aver distrutto l’uomo stesso.

SM: Un’ultima domanda riguarda una frase della prefazione, per me stupenda e essenziale per capire la commedia: “Questa commedia parla degli uomini che ancora non sanno, e che, proprio per questa ragione, cercano di vivere la vita con tutte le loro forze e la loro passione: amare come nessuno ha mai amato prima di loro, sperare come nessuno ha mai sperato, desiderare come nessuno ha mai desiderato e portare lontano ciò che nessuno ha mai spostato”. Tu dici che questi personaggi, come noi per uno spettatore futuro, non hanno ancora superato il confine fatale della storia, ma avvertono che tutto sta per cambiare. Anche oggi, per vari motivi, la crisi economica, l’invecchiamento della popolazione europea, l’affacciarsi di nuove potenze economiche e culturali fa parlare della fine dell’egemonia euro-americana nel mondo. Che cosa vuol dire oggi trovarsi a un passo dal confine?

MI: Penso che oltrepassare il confine sia una costante condizione umana e che, dopo aver varcato un confine, noi inevitabilmente ci avviciniamo a un altro. Perdere il mondo che ti aveva formato porta, certo, una grande tristezza ma anche la curiosità di vedere cosa ti aspetta dopo. Nel caso di noi lituani, questo non è il primo confine che dobbiamo superare. Il mondo in cui sono cresciuto io, intendo l’Unione Sovietica, non esiste più. E grazie a Dio. Il mondo che all’epoca tutti noi sognavamo e dove finalmente siamo entrati, almeno formalmente, ovvero l’Occidente, oggi si ritrova in un particolare stato di decadenza. Quindi, direi che l’abbiamo raggiunto troppo tardi. Cosa succederà dopo, lo vedremo. Solo una cosa è certa: il mondo ha preso una velocità tale che i confini che prima bisognava aspettare qualche secolo oggi stanno entrando più di uno alla volta nella vita della stessa generazione. E per l’insaziabile curiosità umana questo è il tempo più opportuno.

(intervista rilasciata e tradotta nel gennaio 2011)

Stefano_Moretti

2011-05-02T00:00:00




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