Contro la solitudine dell’attore da giovane: nasce a Milano BAS – Boffalora Acting Studios

Con un'intervista a Maurizio Schmidt

Pubblicato il 11/04/2025 / di / ateatro n. 203

La disperata vitalità degli spazi culturali

Gli spazi culturali e di spettacolo a Milano negli anni continuano a moltiplicarsi: alcuni aprono, qualcuno chiude, molti rischiano di passare inosservati. Le attività culturali e gli “eventi” si moltiplicano negli spazi sociali, sportivi e nei locali. Non c’è (ancora?) pubblico per tutti, non tutti ce la fanno.
Il fenomeno riguarda diverse generazioni di operatori. Qualcuno è riuscito a intercettare qualche bando e crearsi un piccolo mercato a vocazione culturale o sociale, magari riempiendo un vuoto in periferia. Altri si muovono su un terreno più esplicitamente commerciale-imprenditoriale: escape o secret rooms, cene con delitto, programmazioni di stand-up comedy nei locali: un giro in internet con queste parole chiave è illuminante.
Questa frenesia dà la sensazione di vivere in una città viva e attrattiva (non sono pochi gli artisti e operatori che arrivano a Milano da città molto più dimesse), assieme impegnata e allegra, forse un po’ sopra le righe e con un’offerta decisamente esagerata. Ma è bello che tante persone vogliano fare teatro, no? Qualche indizio, qualche volta, fa sperare che accada qualcosa di artisticamente significativo e che non sia solo una disperata vitalità.
L’impressione dominante è che tutte queste iniziative creino piccoli recinti che non comunicano fra loro, che ciascuno si costruisca il proprio spazio per difendersi e salvarsi (dalla frustrazione, dall’inattività, dalla solitudine…).

Il paradosso della formazione

Il paradosso è che per sopravvivere si ricorre sempre più spesso alla “formazione”, raramente per vocazione, ma spesso perché la creazione di un corso è lo sbocco di mercato più accessibile, senza riflettere troppo sulle proprie competenze pedagogiche (o non di rado sopravvalutandole). Si alimentano e si moltiplicano così le illusioni e le presenze in questo mondo sovraffollato.
Non è facile classificare e quantificare questo fenomeno (ovvero spazi che propongono formazione come offerta integrativa – o prevalente, o esclusiva – rispetto alla produzione e/o presentazione di spettacoli). Non ci sono dati SIAE, non ci sono albi, non si ricavano informazioni dall’INPS o dall’ISTAT… Ma se gran parte (probabilmente) degli utenti di laboratori e corsi brevi non sempre chiaramente identificabili persegue una passione gioiosamente amatoriale, non sono pochi quelli che inseguono ambizioni artistiche professionali, come “attesta” la partecipazione a queste iniziative.
La predilezione per la partecipazione attiva rispetto alla fruizione una volta era considerata una peculiarità “romana”: personalmente ricordo lezioni di organizzazione teatrale alla Sapienza negli anni Novanta con un centinaio di studenti iscritti: nessuno (o quasi) andava a teatro ma tutti frequentavano laboratori teatrali.
Il fenomeno si è esteso ormai a tutto il territorio nazionale, provincia inclusa, e sta cambiando la fisionomia del “pubblico” teatrale: se partecipare attivamente dà più piacere che assistere, è opportuno tenerne conto (le numerose espressioni di teatro partecipato sono in parte una risposta a questa esigenza).
Se l’offerta non è chiara (come spesso accade), un numero imprecisato di aspiranti attori si aggiunge, laboratorio dopo laboratorio, ai 120.000 lavoratori dello spettacolo prevalentemente disoccupati o cronicamente precari e ai 1.500 diplomati immessi sul mercato ogni due anni dalle scuole di teatro nazionali, private, locali: solo a Roma ce ne sono 56. E’ il calcolo empirico, ma molto plausibile – e forse la stima è per difetto – che ha comunicato Simone Faloppa all’incontro sul lavoro organizzato da Ateatro il 12 febbraio al Teatro Sala Fontana: scopri di più.
Nel sovraffollamento di spazi e iniziative, e nel ripetersi delle formule e dei formati (o se preferite dei concept e delle mission), qualche volta emerge qualcosa di nuovo, che riflette su questi temi e problemi e tenta una parziale risposta.

Una palestra per attori professionisti

E’ il caso di BAS – Boffalora Acting Studios, una palestra per attori professionisti, giovani e non, ma soprattutto giovani.
E’ uno spazio che proprio non ti aspetteresti di trovare in fondo al Naviglio Pavese: solo pochi chilometri di ciclabile da Porta Ticinese, o una decina di minuti a piedi dalla fermata Abbiategrasso della M2, ma cinquant’anni indietro nel Novecento: è dove Milano finisce e i Navigli si incontrano, alla mitica Conca Fallata, dove la città incontra ancora la campagna, come in un film di Antonioni o in un romanzo di Scerbanenco.

Al 15 e 17 di via Boffalora c’è un complesso di edifici intorno a due cortili. Erano in parte vecchi opifici, in parte cascine. Oggi resiste qualche laboratorio artigiano, un meccanico, un carrozziere, ma anche i magazzini di ATIR, lo studio di un video maker.
Qui Maurizio Schmidt con Farneto Teatro ha recuperato e attrezzato due grandi capannoni trasformandoli in uno spazio vasto e accogliente.

BAS Sala Grande

Non un luogo aperto al pubblico (anche se in prospettiva e eccezionalmente non si esclude che possa esserlo), ma due grandi palestre per attori e danzatori professionisti. Un luogo che si ispira ai grandi studios americani dal punto di vista della concezione del luogo che

si propone di essere la prima vera palestra per attrici e attori professionisti a Milano; non una scuola di teatro, ma un punto di riferimento costante, un luogo dove allenarsi, crescere e perfezionarsi nel tempo. (dal sito di BAS)

La premessa è la precarietà stessa del lavoro dell’attore e la sua fragilità:

Il nostro è un mestiere fatto di alti e bassi, di momenti intensi e pause forzate; proprio per questo serve uno spazio in cui praticare con continuità, per non perdere ritmo e autostima.

BAS Sala Media

Due grandi palestre per attori, due spazi luminosi, con una buona acustica (due suggestivi paracaduti recuperati spezzano il soffitto), caldi pavimenti in legno, dove si alternano ogni mattina training di gruppo di recitazione, movimento, danza, voce e musica, guidati da docenti qualificati e a prezzi molto contenuti.

La pedagogia non deve essere un lusso, ecco perché la nostra palestra nasce con un obiettivo chiaro: offrire formazione di alta qualità a prezzi accessibili.

Allenarsi per la scena

Gli attori (ma anche danzatori e cantanti) scelgono liberamente quando e come partecipare, in base ai propri impegni e interessi, con abbonamenti mensili o annuali… proprio come in palestra.
Agli “allenamenti” si alternano i laboratori, tendenzialmente di durata settimanale, sempre per professionisti: lo spazio è aperto da poche settimane, a oggi hanno tenuto i laboratori Claudio De Maglio (sull’incontro con la maschera), Maria Consagra (qualità di energia e figure), prossimamente toccherà a Maurizio Schmidt (su Pinter e la telecamera), mentre i docenti che si alternano al mattino sono a oggi Enzina Cappelli, Carlo De Martini, Gaetano Franzese, Luca Fusi, Micaela Sapienza e lo stesso Maurizio Schmidt.

BAS Sala Comune

BAS Sala Comune

Collegato alle palestre c’è poi un terzo spazio, un luogo per incontrarsi, per conoscersi, magari dare vita a nuove collaborazioni e progetti. Ci sono anche un locale e attrezzature per preparare provini (sia dal vivo sia in self-tape). In prospettiva l’intenzione è di promuovere dibattiti, conferenze, spettacoli e feste.
L’originalità del progetto e il suo punto di forza stanno nel concetto di “palestra”:

cosa può fare l’attore per migliorare la sua capacità interpretativa rispetto al reale che muta? Che tipo di preparazione gli è richiesta? La nostra palestra nasce da queste domande e chiama i professionisti del teatro a trovare una risposta attraverso un lavoro ripetuto e quotidiano.

Approfondiamo questa idea con Maurizio Schmidt, attore, regista, formatore, per molti anni docente alla Scuola Paolo Grassi, di cui è stato anche direttore. Maurizio ha recuperato questo spazio come Farneto Teatro (la compagnia – attiva fra l’Umbria e Milano – che ha fondato con Elisabetta Vergani all’inizio degli anni Novanta), aggregando intorno al progetto un gruppo di giovani attori: sono loro che gestiscono lo spazio, tengono il bar, organizzano il cartellone della palestra e dei laboratori, si occupano del sito e della promozione. Molti di loro hanno preso parte all’Orestea: lo spettacolo, esito di un lungo percorso pedagogico, è stato presentato al Teatro Franco Parenti per due settimane nel mese di gennaio ed è stato preparato qui. Il BAS è anche la base da cui partolno i loro progetti.

Il team BAS che ha realizzato il progetto Orestea: molti degli attori collaborano all’organizzazione dello spazio. Da sinistra, Nicoletta Epifani, Lucrezia Mascellino, Domenico Fiorillo, Simone Debenedetti, Chiara Aquaro, Federica Pirone, Gaetano Franzese, Claudio Pellegrini, Viviana Curcio, Flavio Innocenti. Fanno parte del Team anche Giulia Perosa, Ilaria Zanotti, Luca Fusi, Michele Marullo

Guardare al futuro: intermittenza e organizzazione

Una formazione di qualità, avanzata e permanente, rivolta ai professionisti dovrebbe essere anche una delle componenti di un’articolata politica di welfare, come in Francia con l’intermittence. BAS è una modalità di attuazione che per ora, in fase di decollo, sembra attrarre le ultime leve, gli attori penalizzati dall’era Covid: i giovani che si sono diplomati nel ’19 e nel ’20 per ritrovarsi in un mercato del tutto fermo; e quelli che le scuole hanno continuato (irresponsabilmente) a diplomare anche nel ’21 e ’22. Ma anche giovani danzatori curiosi e aperti al teatro. Si capirà in futuro se la formula della palestra aperta e una proposta articolata di laboratori riuscirà a incuriosire e attrarre attori più maturi, offrendo anche un’opportunità di incontro fra le generazioni, così importante e così raro nel sistema produttivo.
Anche i temi dell’organizzazione e delle politiche del teatro, per gli attori che con questi temi devono comunque misurarsi, hanno bisogno di aggiornamenti e di allenare il pensiero.
Nel mese di maggio, tre appuntamenti della palestra di BAS saranno dedicati all’organizzazione, in collaborazione con Ateatro, a cura di Mimma Gallina.

L’intervista a Maurizio Schmidt
di Mimma Gallina

L’idea della palestra vuole rispondere al bisogno degli attori di “allenarsi” e stimolarlo. Tu pensi che questo bisogno sia avvertito?

Maurizio Schmidt al bar del BAS

Se parliamo di mercato del lavoro per il teatro e il cinema, non credo ci sia alcuna evidenza che chi si allena lavora di più. Il sistema non stimola e non premia la formazione continua (anche se – brutto paradosso – spesso campa di essa). Tra chi dirige, progetta e organizza credo che in Italia siano pochissimi a pensare che avere degli attori in forma sia un vantaggio: l’attore non è visto come atleta, né obbiettivamente gli si chiede tra gli spettacoli in cartellone, prestazioni che richiedano chissà quale allenamento.
Di conseguenza è ovvio che siano pochissimi i lavoratori dello spettacolo a pensare che se ci si allena aumentino le possibilità e potenzialità di lavoro. Diversamente da quanto avviene in altre forme artistiche (danza, canto, musica, circo…) ed in altri sistemi (parlo di quelli che conosco: USA, Francia, Germania…). Lì l’allenamento quotidiano è regola inderogabile.
Da noi penso che il bisogno esista fortissimo tra chi è escluso e tra chi si costruisce la propria formazione in modo indipendente. Difficilmente lo sente invece chi esce da una delle tante scuole, il cui numero è aumentato a dismisura con la riforma del 2015. Lì il pensiero è anzi quello di stare a posto con la formazione. I discorsi spesso sono: “Sei uno sfigato se dopo la scuola ti alleni ancora”, oppure “Lo fai perchè non lavori”.
Chi avverte questo bisogno è in genere al bordo del sistema, o per propria scelta indipendente (credimi: ci sono tanti bravi attori che non si sentono rappresentati dal teatro che vige nei teatri) o perché non supera i provini o perché (un numero impressionante) è fermo a una formazione incompleta fatta di soli laboratori molto brevi
Insomma, la risposta alla tua domanda è difficile, perché investe la cultura dell’attore, abitudini antiche, pigrizie e posizioni di privilegio.
In mancanza di una reale concorrenza sul mercato (i provini, questi sconosciuti), prevale l’idea che è attore chi è iscritto all’ex Enpals e un giorno ha pagato il primo contributo: da quel giorno è un attore per sempre, anche se passa il tempo a fare altro.

BAS improvvisazioni

Rovesciando in forma positiva il discorso, credo che la concorrenza europea, con contesti in cui c’è un altissima selezione di qualità, ci salverà. Ci costringerà a crescere.
Per ora, forse ancora per poco, il paradosso è che chi – dopo la scuola – è stato subito premiato o ha trovato subito una scrittura è spesso colui/colei che si trova schiacciato da questa contraddizione: vivrà come ingiustizia la disoccupazione, l’intermittenza o il momento in cui saranno altri a essere premiati. E si perderà in quella nevrosi autocommiseratoria che tutti conosciamo. Spesso le scuole preparano un attore che è tale solo il giorno del diploma: non è formato per continuare per tutta la vita la sua formazione. La responsabilità di questa sorta di “bugia formativa” è anche loro.
Quindi quello che proponiamo, a tutti e con un sorriso, è di tenersi in forma, incontrarsi, conoscersi nel lavoro, far girare l’energia. Magari è poco, ma è quello che offriamo.
L’ho fatta lunga, ma forse c’è un’altra risposta brevissima.
Chi si sente già bravo, non è mai un artista: questo mi ha insegnato l’incontro con tanti attori/attrici bravi/e. L’artista si forma nella continua prova di quello che non sai fare. Mettersi in difficoltà attraverso l’addestramento quotidiano costante ti mantiene psicologicamente in tiro nella sfida con te stesso.

E quali sono i “muscoli” che un attore deve allenare, e come?

I muscoli sono il corpo e la mente nelle loro varie interazioni all’interno del proprio strumento. Il corpo si vede e la mente no, ma per l’attore devono stare al medesimo livello di consapevolezza e controllo. Per continuare la metafora: questi muscoli non li si addestra di per sé, ma solo nel loro uso per tirare “colpi”. In una palestra un pugile non fa culturismo, ma allena l’uso dei mezzi psicofisici per lo sport, la lotta. L’addestramento teatrale è una faccenda collettiva. La caratteristica del nostro sport è l’azione/reazione: non la si può addestrare da soli a casa. È lì che l’addestramento diventa divertente e utile: quando si addestrano mente/corpo/parola per colpire mente/corpo/parola degli altri.

BAS laboratori

BAS laboratori

So che la formazione permanente è un obiettivo che ti sta molto a cuore, ricordo il progetto con Vassil’ev quando dirigevi la Paolo Grassi e anche la recente Orestea è il frutto di un lungo percorso con ex allievi.
Se come dite nel sito i laboratori sono “un’opportunità per incontrare registi, pedagoghi, maestre e maestri del teatro, immersi in un ambiente di scambio e crescita. Un’esperienza pensata per i professionisti che desiderano affinare la propria tecnica, esplorare nuove prospettive artistiche e potenziare le proprie competenze”, come si collegano nel progetto del BAS il livello palestra e l’alta formazione, i laboratori?

La palestra per la ripetizione delle vecchie tecniche e i laboratori per l’acquisizione di nuove tecniche sono complementari. Se a fare un laboratorio viene uno/a che è completamente fuori forma, passerà il tempo a rimettersi in sesto, quindi per lui/lei quel laboratorio avrà fondamentalmente un effetto di palestra. Insomma, la formazione, per essere “avanzata”, dipende molto dal mantenimento di un adeguato livello di forma. L’ideale sarebbe tenersi in forma e alternare lavoro e specializzazione: non staccare mai con il proprio strumento.

BAS laboratori

Secondo te, un attore italiano oggi, è attratto più da una formazione “laica” (non di tendenza), che da scuole, metodi precisamente orientati? Dovrebbe e può riuscire a costruire con diverse pratiche e stimoli la “propria” formazione, ed eventualmente una propria strada?

La risposta alla seconda domanda è retorica: certo, ognuno costruisce la propria strada con diverse pratiche e metodi, certo che sì.
La risposta alla prima domanda è più complessa, Davvero esistono le scuole? Davvero esiste una formazione di tendenza? Siamo in un’epoca post-metodica. Non esistono più maestri unici o tecniche di recitazione di maniera. Ogni trainer e ogni allievo è allievo di tanti maestri, a loro volta allievi di allievi di molti maestri. Inoltre i generi (teatro, cinema, performance, digitale…) si mescolano.
Il punto è che il sincretismo della pedagogia non coincide con il sincretismo della scena: hanno tempi e procedimenti molto diversi. Direi che ciò che purtroppo spesso fa tendenza è una formazione ritenuta laica perché fatta con vari pezzetti stereotipi che derivano da varie direzioni. Questo laicismo è spesso confusione, macedonia di pezzi di internet, una sorta di stile, una nuova maniera molto superficiale. Insomma, se una regia può essere territorio di incrocio tra generi, la formazione di un attore può esserlo solo se ogni passaggio di crescita è percorso in maniera esaustiva: in maniera tale da poter essere incrociato con un altri passaggi di crescita. Non esiste altro che l’esperienza immersiva, non l’informazione patchwork per modificarci.
Il discrimine secondo me non sta quindi su tendenze e metodi, ma sul lusso di un tempo realmente pedagogico. Alle volte vedo curriculum impressionanti, ragazzi che a venticinque anni hanno studiato tutto. Ma purtroppo, scrivere su un foglio tutti i film che ho visto non mi fa avanzare di un millimetro verso la regia…
Un’altra risposta può essere questa. Il Novecento ci ha lasciato due o tre grandi scuole di pensiero pedagogico teatrale. E poi tantissime metodiche appartenenti all’una o all’altra scuola. O di incrocio tra le due.
L’idea di un attore laico è bella: significa – dal mio punto di vista – che deve conoscere bene le due-tre scuole principali, ma non necessariamente le infinite variazioni metodologiche. Cerco di essere concretissimo: al BAS non vorremmo mai che qualcuno dicesse “Io sono per Meissner” e un altro “Io sono per Lecoq”. Oppure, come si trattasse di metodi contro la calvizie, “Io uso il metodo Checov”, “Io uso il metodo Jan Fabre”, “Io uso il metodo Ronconi”. A me farebbe tristezza.
Una terza risposta possibile è questa. Il problema che la formazione sia o non sia “di tendenza” è posto fondamentalmente oggi dall’irrompere sulla scena di tanti performer senza alcuna formazione di base attoriale, ma con tante competenze che arrivano da altri ambiti. Stiamo insomma da una parte spacciando spesso per formazione laica la mancanza di formazione specifica. Ma c’è anche tanto che si muove nella direzione dell’attore-performer. C’è insomma un problema/bisogno di pedagogia che verrà preso in carica dai teatranti del futuro. Noi vorremmo fare la nostra parte.

Training al BAS

Puoi anticipare qualche tema, metodo che vorresti affrontare nei prossimi laboratori?

Premetto che alcuni laboratori si pongono l’obbiettivo di creare un risultato scenico, come è avvenuto per l’Orestea. Per me è un modo affascinante di produrre quello di lavorare con attori che si addestrano, parallelamente alle prove. Continuerà perciò il progetto Orestea: dodici persone in scena per un viaggio a corpo libero alle radici del teatro, nato durante il Covid. Altri progetti di questo tipo verranno.
Per quanto riguarda i laboratori, certamente ciò che riguarda l’incontro della drammaturgia del Novecento con la macchina da presa. E poi la ricerca di nuove competenze sull’intonazione, la ritmica, la musicalità della scena. E certamente tutto ciò che riguarda l’ultima cosa che abbiamo detto a proposito della performance: cercare le zone di incontro tra la parola, l’azione e il movimento. Cominciamo ad avere un certo numero di soci che arrivano dalla danza e dal movimento, ma che non pensano, per questo, che la parola scenica sia necessariamente un tweet. Spesso al BAS, parlando delle esperienze di provini romani per il cinema, si finisce per ridere insieme del classico “Buttala via!” del casting director, che prima o poi arriva. Ecco, se potessi concludere con uno slogan beffardo: “Buttala via? Al BAS anche no”.




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