La scena delle identità elettroniche e genetiche

Subtle tecnologies, Toronto, 22-25 maggio 2003

Pubblicato il 01/01/2001 / di / ateatro n. 053

Subtle Technologies chiude i battenti dopo tre intense giornate di discussione, performance, dimostrazioni. Il tutto, come sempre, al crocevia tra nuove tecnologie, scienza e arte e in un’atmosfera più che amichevole – quest’ultimo, un elemento che ha caratterizzato questa manifestazione sin dal primo anno di produzione e che rende Subtle Technologies speciale e unico nel suo genere.
Giunta alla quinta edizione, Subtle Technologies da quest’anno si trasforma in festival: questo titolo, che sembra più una formalità che un vero e proprio segno di trasformazione, in realtà ha portato non pochi benefici. Infatti, grazie a questo riconoscimento ricevuto dal Canada Council e dall’Ontario Arts Council, Subtle Technologies ha potuto beneficiare di un budget finalmente all’altezza delle ambizioni. Gli effetti di questo miglioramento si possono notare nel numero di esibizioni e dalla qualità degli spettacoli offerti quest’anno, nonché dagli ospiti presenti: tra gli altri, la compagnia Palindrome, che ha presentato in prima mondiale un frammento della nuova coreografia, Iacov Sharir, che ha riproposto una carrellata dei suoi progetti di Realtà Virtuale e Simon Penny e Bill Vorn con il loro ultimo progetto di collaborazione, un robot dalle fattezze vagamente umane che danza grazie all’input fornito da videocamere che registrano il movimento del partecipante situato in una stanza all’estremità opposta della galleria.
Un’altra novità che torna decisamente a favore della qualità di Subtle Technologies è la presenza di ospiti selezionati tramite una “call for papers.” Questo non solo ha garantito una maggiore qualità delle presentazioni, ben preparate e veramente interessanti, ma ha dato visibilità a nuovi progetti e volti altrimenti sconosciuti nella comunità, un po’ esclusiva e incestuosa degli artisti di Toronto.
Come sempre, Subtle Technologies ha un debole per i progetti che contengono una componente teatrale o performativa. Questo elemento non sorprende se si considera che Jim Ruxton, direttore del festival, proviene dall’ambiente della tecno danza. Prima ingegnere, poi artista specializzato in robotica e membro del gruppo ARG (Art and Robotics Group) presso Interaccess, infine produttore di strumenti elettronici e interattivi nel campo della danza, Ruxton è l’anima e il realizzatore del festival, assieme alla collega Victoria Scott, sin dalla prima edizione svoltasi nel ‘98. Quasi tutti gli ospiti invitati a far parte del festival, infatti, sono persone con le quali Ruxton è venuto in contatto durante la sua pratica artistica.
Il festival non ha un tema specifico, a parte l’imperativo suggerito dal titolo. Tuttavia, ogni anno le presentazioni e le performances tendono a concentrarsi su un numero limitato di temi. Quest’anno una buona parte delle presentazioni si é concentrata su temi attuali, quali la resistenza, il sovvertimento e la trasformazione a uso artistico delle tecnologie della sorveglianza, la pratica ecologica e la biotecnologia associata a varie pratiche culturali. Inoltre quasi tutti gli interventi prevedevano in un modo o nell’altro un certo livello di interazione, tuttavia non concepito come gesto meccanico in relazione ad una particolare tecnologia, ma come elemento sociale e comunicativo tra individui.

Swipe
Non a caso la prima presentazione ha visto protagonista Beatrice da Costa e Brooke Singer, la prima specializzata in Tactical Media, la seconda un’artista elettronica. Il loro progetto, Swipe, presentato a Siggraph e recentemente alla Biennale di Montréal, si ispira alla selvaggia raccolta dati provenienti dalla barra magnetica delle carte d’identità e patenti americane, attraverso l’atto dello “swiping.” Ogni volta che il cittadino medio si reca presso i rivenditori di alcolici, tabacco, o varie catene di supermercati, gli viene chiesto di passare la carta d’identità attraverso un lettore di banda magnetica che legge i dati contenuti nella carta. Questa pratica, diffusa in oltre 40 stati americani, è tutt’altro che innocua. Infatti i dati contenuti nella banda magnetica non vengono semplicemente letti, ma raccolti e usati a discrezione di chi li riceve: il governo come i supermercati, senza che il cittadino se ne accorga o ne sospetti l’uso. Il progetto Swipe ha lo scopo di svelare, tramite performance pubblica o installazione in gallerie o musei, il funzionamento e l’uso del lettore. In una prima versione, Da Costa e Singer hanno installato il lettore di banda magnetica presso il bar della biennale di Montréal. A chiunque ordinasse una bibita veniva chiesto un documento di riconoscimento, nonostante la pratica comune preveda tale richiesta solo nel caso in cui il cliente ordini alcolici.

La carta veniva passata attraverso il lettore. I dati raccolti venivano mostrati non solo al cliente, ma a tutta l’audience presente nel bar. In un secondo tempo veniva spiegato al cliente che questo è quanto accade ogni volta che la carta viene passata attraverso un lettore. Le informazioni raccolte sono poi archiviate in un database, usate a discrezione del negoziante, vendute in pacchetti su Internet e spesso concesse ad uso e consumo dell’FBI.
Una seconda versione di Swipe è stata presentata in forma di performance: le artiste, insieme a un gruppo di collaboratori, ha avvicinato passanti per strada o persone nei bar, chiedendo loro la carta d’identità e illustrando il meccanismo di raccolta dati. Come affermano le due artiste, questo progetto ha principalmente lo scopo di informare e di rendere consapevoli i partecipanti del commercio, lo scambio e l’uso malizioso, al limite dell’illegalità, dei dati personali contenuti nei nostri documenti. Tra i partecipanti all’installazione/performance, infatti, molti non avevano la minima idea dell’appropriazione e dell’uso dei propri dati personali. Secondo Da Costa, l’azione di svelare una simile pratica e i retroscena dello “swiping” al maggior numero di persone si è rivelata efficace solo grazie ad una azione pubblica e tramite la pratica artistica.

Pop! Goes the Weasel
Se il progetto Swipe intenzionalmente non prevede alcuna azione sovversiva se non quella di informare e rendere consapevoli del trattamento decisamente aggressivo dei dati personali, il progetto di Nancy Nisbet si spinge ben oltre. Pop! Goes the Weasel, si muove nello stesso ambito tematico: il trattamento dei dati personali e il suo uso a scopo di controllo e sorveglianza. Questa installazione interattiva accompagnata da performance, mostra come sia ipoteticamente possibile sovvertire le tecnologie di sorveglianza, proprio attraverso l’uso delle medesime.

Esibita per la prima volta a Nagoya nel 2002, Pop! Goes the Weasel si presenta come strategia di resistenza alle tecnologie di identificazione a radio frequenza (RFID), che possono essere inserite nel corpo umano tramite impianti. L’RFID è costituito da un chip contenente il numero di serie corrispondente all’identità del portatore ed é normalmente usato per monitorare animali d’allevamento e d’appartamento, nonché figli di ricchi imprenditori a rischio di rapimento.
Durante l’installazione di Nagoya l’artista offriva un cartellino di riconoscimento contenente RFID a ciascun partecipante, che doveva passare attraverso alcune barriere simili a quelle che si trovano negli aeroporti. Una volta stabilita l’identità del partecipante, Nisbet lo invitava a condividere e scambiare il cartellino con altri individui, in modo da confondere il sistema di sorveglianza. Contemporaneamente, su uno schermo situato nella stessa stanza, veniva proiettato una sequenza dell’operazione di impianto dell’RFID in una mano. La persona ritratta nel video é l’artista stessa, che si é fatta impiantare una coppia di questi chips in entrambe le mani. Secondo Nisbet, se ogni individuo si facesse impiantare una coppia di questi chips con due numeri di serie diversi, non sarebbe più possibile riconoscerne l’identità. Resistenza è, per l’artista, caos. Il meccanismo migliore per porre resistenza non è tanto cercare di sfuggire la raccolta frenetica di dati personali, ma semmai il contrario.

WorkHorse Zoo
Con una vena altrettanto propositiva e un tono ironico e decisamente umoristico, che del resto caratterizzano la sua intera pratica artistica, il bio artista/ecologista Adam Zaretzky ha presentato una serie di performances ambientate in laboratori biotecnologici e zoo in America (Salina Art Centre in Kansas) e Australia (presso Simbiotica). In WorkHorse Zoo l’artista si è fatto rinchiudere in una camera asettica trasparente di tre metri per tre per una settimana, in compagnia di varie specie di laboratorio come topi, parassiti e amebe. Il suo scopo era di incoraggiare gli animali a divorarsi a vicenda. Questa performance, durante la quale l’artista ha intrattenuto i visitatori (soprattutto bambini) con diversi travestimenti e numeri satirici, vuole essere una critica dell’impatto della scienza e della biotecnologia sulla nostra società e cerca di mostrare come le nostre scelte culturali influenzino la ricerca genetica. In questo caso, Zaretsky cercava di costringere le cavie a nutrirsi di se stesse.

La sua pratica artistica, a metà tra satira e attivismo, si svolge tutta a difesa degli animali e si presenta come dura critica all’atteggiamento di coloro che ignorano il fatto che questi ultimi, grazie all’uomo, sono stati condannati a vivere in spazi protetti quali zoo e laboratori: durante un anno trascorso ad insegnare alla San Francisco State University, Zaretsky ha costruito, insieme ai suoi allievi del corso di arte concettuale, una serie di “giocattoli giganti” da distribuire a leoni e altri animali selvaggi “internati” presso lo zoo locale, con l’intenzione di rendere la loro vita meno noiosa.

Plant Anima
Restando sempre nel tema delle biotecnologie, l’architetto Aniko Meszaros ha presentato un lavoro visionario e altrettanto affascinante: Plant Anima. Si tratta di un progetto al quale Meszaros lavora da cinque anni. Plant Anima utilizza elementi classici della biotecnologia come strumenti culturali, proponendo nuove strutture architettoniche generate attraverso l’invenzione di nuove specie di organismi vegetali, in una combinazione tra innesti naturali, prodotti artificiali e l’aiuto del computer come mezzo di visualizzazione. Il futuro architetto genetico sarà in grado di sviluppare organismi unici che, grazie alla loro natura organica, possono svilupparsi da soli. Il processo di combinazione e innesto di organismi vegetali è ottenuto grazie ad una infrastruttura automatizzata che combina macrofiti geneticamente creati con altri micro organismi derivati da piante acquatiche e alghe. La combinazione risultante viene trasferita in apposite serre e lasciato crescere indipendentemente.

Meszaros afferma di voler mantenere un atteggiamento di “positivismo tecnologico:” infatti il suo scopo principale consiste nell’esplorare le frontiere del design architettonico e dell’invenzione. Tuttavia, la missione finale del progetto rimane il perseguimento del bello e del piacere estetico.

DNA
Lo spettacolo di Palindrome era forse l’evento più atteso a Subtle Technologies. In occasione delle altre presentazioni il pubblico non ha mai riempito completamente la platea, in questo si è registato il tutto esaurito. Forse la maggior parte degli spettatori si aspettavano di vedere una performance unica come Seine Hohle Form. Al contrario la compagnia ha presentato una serie di frammenti provenienti da vari spettacoli dal 2001 all’ultimo work in progress commissionato per il cinquantesimo anniversario della scoperta del DNA, intitolato, appunto, DNA. Quest’ultimo lavoro combina il sistema Eyecon con NATO, un linguaggio per la manipolazione video: la coreografia è stata sviluppata per visualizzare la struttura della doppia elica e l’intreccio della catena di molecole che compongono il DNA, Carbonio, Idrogeno, Ossigeno e Azoto. Questi componenti sono rappresentati da altrettanti gesti che, combinati tra loro, rappresentano sul palco ciò che simultaneamente viene costruito progressivamente e visualizzato sullo schermo. Secondo Robert Wechsler, fondatore di Palindrome, rappresentare ogni singola parte del DNA è un’impresa impossibile: infatti secondo i suoi calcoli ci vorrebbero almeno 6000 anni per ricostruirlo interamente attraverso la danza. Il pubblico ha così dovuto accontentarsi di assistere alla rappresentazione dell’insulina.
La parte più interessante della performance tuttavia non è stata l’anteprima della nuova produzione che, a dire il vero, qualitativamente e visivamente ha lasciato a desiderare, ma il coinvolgimento del pubblico. Alcuni volontari sono stati chiamati sul palco e, durante la pausa tra i due tempi, è stata creata una coreografia basata in parte sull’improvvisazione e in parte sulle istruzioni fornite da Wechsler. Ovviamente questo esperimento ha provocato non pochi commenti da parte del pubblico: secondo alcuni, i risultati dell’improvvisazione avrebbero potuto essere confusi con lo spettacolo vero e proprio. Da qui la critica, sempre presente durante gli spettacoli di questo genere, che l’uso delle tecnologie nella danza servono a nascondere la scarsa qualità dei performers e coprono il movimento naturale del corpo. Resta il fatto che Palindrome, tra le tante compagnie che fanno uso simile delle tecnologie, costituisce uno dei rari casi in cui queste ultime, i danzatori, i costumi e la coreografia stessa sono ben bilanciati e integrati con successo.

The Wind Array Cascade Machine
Anche Interaccess è sicuramente degna di essere segnalata, sia per il suo contenuto, sia per il modo in cui l’elemento naturale è stato inserito nell’installazione. The Wind Array Cascade Machine è composta da diversi momenti e prende forma in altrettante postazioni. Steve Heimbecker è un artista originario del Sakatchewan, la regione canadese celebre per le sue estese praterie ma é attualmente residente a Montréal, dove si occupa in primo luogo di sperimentazioni sonore. Tuttavia l’installazione presentata a Interaccess non contiene suoni, se non indirettamente. In galleria, è possibile vedere uno schieramento di 64 steli di metallo a cui sono fissati led colorati che si illuminano seguendo una sequenza non immediatamente interpretabile. L’agente che provoca l’accendersi e spegnersi di questi led si trova sul tetto del complesso Méduse a Québec City: si tratta di altri 64 steli che in questo caso si flettono grazie alla forza del vento. A loro volta, gli oggetti presenti in galleria e quelli sul tetto di “la Méduse” si ispirano al movimento e, secondo l’artista, al suono prodotto dal vento sulle praterie del Saskatchewan.

Nonostante la trasformazione di Subtle Technologies in festival, è difficile stabilire se e quali trasformazioni si siano verificate rispetto agli anni passati. Questo rappresenta per Subtle un anno di transizione. L’etichetta di Festival probabilmente è destinata a rimanere, almeno per quest’anno, solo sulla carta. Sicuramente il formato e l’atmosfera sono rimasti gli stessi. Subtle è ancora strutturato in forma di conferenza, in cui i presentatori hanno a disposizione 40-50 minuti a testa per presentare il proprio progetto o le proprie idee. Ovviamente queste devono riflettere il tema generale del festival, cioè essere inserite al crocevia tra arte e tecnologie o scienza e arte, o tutte e tre. Al termine della presentazione, di solito si apre la discussione al pubblico per i restanti 10 o 15 minuti, che ovviamente non bastano mai per costruire un dialogo o per iniziare una seria discussione.
Questo rituale si ripete tutti gli anni, e, nonostante fino ad ora si sia rivelato un formato di successo, sembra arrivato il momento di cambiare aria. Iacov Sharir, presente tra gli invitati ha osservato che il ripetersi di anno in anno dello stesso formato ha probabilmente prodotto un po’ di stanchezza. Quando ciò accade, è bene che gli organizzatori si chiedano come possano trasformare il formato non solo per attirare un pubblico piú ampio, ma anche per crescere e offrire qualcosa che non sia una semplice carrellata di progetti, ma una manifestazione che produce dialoghi e collaborazioni piú complesse. L’assenza di moderatori che indirizzino e stimolino il pubblico e stabiliscano connessioni tra le varie presentazioni è, forse, l’elemento che manca in Subtle Technologies.

Bedlam Telekinesisdi Simon Penny e Bill Vorn.

Per ottenere un programma completo con tanto di descrizioni dei singoli interventi http://www.subtletechnologies.com

Roberta Buiani mail: robb@yorku.ca

Roberta_Buiani

2001-01-01T00:00:00




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