Per un teatro plurale

In risposta a La fine del (nuovo) teatro

Pubblicato il 29/09/2008 / di / ateatro n. 118

Caro Oliviero,
ho letto il tuo intevento La fine del (nuovo) teatro italiano e ne condivido l’analisi spietata e concreta, insieme al disincanto per il lavoro fatto. E’ vero che molto, molto poco si è riusciti a muovere nel torpore del teatro italiano, che nulla è veramente cambiato negli ultimi anni (anche le questioni finanziarie sono sempre le stesse). E anche ateatro, a parte alcuni sobbalzi di partecipazione e di dibattito, si è ritrovato impantanato nello stagno dove gracidano le rane, ma nessuna si muove (penso anche alle piccole innocenti questioni personali che a volte hanno attraversato la redazione).
Ma se tutto questo è vero, il problema non è certo tutto questo, quanto come uscirne. Un piccolo arretramento, certo, quel passo indietro che tutti dovremmo fare (ma per carità, non tutti insieme, perchè anche i passi sono diversi e c’è chi deve farne uno lungo e chi invece uno piccolo). Ma verso dove? e con chi? e perchè?
Avrei caro leggere un altro tuo intervento, per la lucidità che ti è propria (e, non ultimo, per il tuo essere così vicino al teatro ma estraneo al tran tran quotidiano), su una ipotesi di cammino verso un fare teatro plurale, che dia “pari dignità” a tanti (ma non a tutti, perchè secondo me oggi una delle questioni più grosse è proprio quella che non si può continuare a fare figli del palcoscenico senza padri nè madri) e che conquisti finalmente una dimensione di “lavoro” (senza pippe) fatto assai normalmente ogni giorno.
Mi manca ateatro, la libertà che ho avuto con voi, ma sono certo che avrai condiviso la mia scelta (obbligata eticamente) di astenermi dopo aver assunto un ruolo ufficiale in un teatro ufficiale: da quel momento non potevo essere un soggetto di ateatro, ero diventato un oggetto di analisi e di critica.
Ti abbraccio con tanto affetto.
Franco

Franco_D’Ippolito

2008-09-29T00:00:00




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