FEEL: sentire il festival

The Ulster Bank Dublin Theatre Festival

Pubblicato il 07/01/2009 / di / ateatro n. 119

Fra un po’ si ricomincerà a parlare dei nostri festival, anzi dell’eterna crisi dei nostri festival, ai tempi della grande crisi. Il confronto con i modelli stranieri in queste discussioni è all’ordine del giorno, qualche volta per esterofilia e per piangere sui nostri budget, qualche volta perchè aiuta davvero a mettere a fuoco limiti, pregi, prospettive, consente di tratte qualche insegnamento

Anche se l’ultima edizione risale allo scorso settembre/ottobre, può essere interessante confrontarsi con The Ulster Bank Dublin Theatre Festival, uno dei più vecchi d’Europa: esiste dal 1957, ma negli ultimi anni ha saputo rilanciarsi e rinnovarsi e ha visto una crescita di popolarità a livello nazionale e internazionale.
Citare il nome completo – così come risulta nel logo – mi sembra possa già offrire un’indicazione interessante: non è così frequente, ma succede anche da noi, che una compagnia privata o una banca sia il principale o un importante promotore di una manifestazione culturale: dare a Cesare quel che è di Cesare (con il nome in ditta) può favorire l’investimento. Succede già con tendoni e manifestazioni musicali, chissà che non possa diventare una “buona pratica” anche per festival in difficoltà.
Del resto Dublin Theatre Festival nasce – come quello di Edimburgo dieci anni prima – da una precisa scelta di “marketing territoriale”, cioè dalla convinzione – già allora – che sostenere un’iniziativa culturale ad alto livello qualitativo, con un programma internazionale e nazionale qualificato, potesse promuovere la città e prolungare la stagione turistica. Una politica di cui sono stati sperimentati negli anni – e recentemente misurati – i risultati non irrilevanti, e che le amministrazioni pubbliche e private hanno confermato: tuttora il festival si svolge per due settimane e mezzo a cavallo fra settembre e ottobre e il pubblico proviene per il 37% da fuori città, per la precisione il 17% dall’estero e il 20% del resto dell’Irlanda.

I numeri del festival
Con 3.500.000 € di budget – non poco per una programmazione prevalentemente teatrale con escursioni in altre aree – il festival è estremamente equilibrato: un terzo arriva dagli sponsor, prima fra tutti ma non sola la banca citata, un terzo dalla pubblica amministrazione (Arts Council, città di Dublino e altro), un terzo dal box office: a dispetto dei prezzi contenuti e delle numerose offerte – o forse proprio per questo – l’affluenza di pubblico (circa 80.000 spettatori) e le entrate conseguenti sono notevoli.
Ne parlo a festival quasi concluso con Loughlin Deegan, direttore dal 2007, di formazione organizzatore e drammaturgo, già “producer” (un termine che credo dovremmo introdurre anche nella traduzione – e tradizione – italiana) di una compagnia finanziata ma indipendente, la Rough Magic Theatre Company. Loughlin ha trentott’anni, l’età giusta, e in linea con le medie europee, per ruoli come questo, che richiedono di combinare la capacità di cogliere e interpretare nuove tendenze con una discreta dose di conoscenza e esperienza. Incontrato a Riga da spettatore professionale qualche mese prima, mi era sembrato un ragazzino, qui a Dublino – felice dei risultati ma un po’ provato dalla full immersion – i suoi anni li dimostra tutti, ma non posso fare a meno di pensare quanto sarebbe considerato giovane da noi, con un budget di questa entità da gestire. E quanto sia raro – da noi – trovare nella stessa persona sensibilità organizzativa e consapevolezza critica. La prima si rivela soprattutto nell’attenzione per il pubblico, la comunicazione, l’interpetazione dei risultati; la seconda nella lucidità con cui sa motivare le scelte, singolarmente e nell’insieme, entrambe nella interpretazione del proprio ruolo, fra responsabilità culturale e servizio (dirigere un festival – tanto più se esiste da cinquant’anni – è una cosa molto diversa dal “firmarlo” e dall’esporre i propri gusti: consiste – ed è molto più difficile – nell’interpretarne la storia e la funzione, prefigurare e orientare il futuro.
Ancora qualche numero per inquadrare e precisare le caratteristiche di Ulster Bank Dublin Theatre Festival. Gli spettacoli ospitati e coprodotti (solo tre: probabilmente il numero crescerà nelle prossime edizioni) sono 28, di questi 14 sono di produzione (anche) irlandese (è particolarmente diffusa la collaborazione fra gruppi di diversi paesi di lingua inglese). Gli spazi coinvolti nella città sono 18 – fra teatri veri e propri o centri polivalenti, alcuni dei quali hanno più sale, gallerie, club, semplici appartamenti – e la programmazione va da un massimo di 20 a un minimo di 4 repliche. Considerando incontri e manifestazioni collaterali varie, gli appuntamenti sono circa mille. Si tratta di un festival metropolitano e le teniture cercano di conciliare la concentrazione e l’eccezionalità della “forma” festival con il potenziale di pubblico offerto dalla grande città (cittadini e turisti), e con il massimo accesso possibile.

Feel: sentire il pubblico
Il rapporto con il sistema teatrale della città è particolarmente interessante: il festival utilizza/coinvolge nella programmazione gran parte dei teatri cittadini. Le scelte vengono attuate dalla direzione del festival (non è quindi una concertazione), ma tenendo conto delle tipologie e delle vocazioni delle varie sale (che non sono dunque affittacamere), e solo in un paio di casi la programmazione coincide con la proposta produttiva della sala. E’ evidente che si punta a un pubblico composito e mobile, ma facendo conto allo stesso tempo sullo specifico pubblico di ciascuna sala, su una mappa di identità cui – almeno i dublinesi – possono far riferimento: a ogni spazio il suo spettacolo insomma, ma anche – penso di poter dedurre – a ogni teatro una ricaduta sostanziale, di immagine ed economica.
Un palinsesto di questo tipo rende complessa o poco opportuna la scelta di temi o tesi da illustrare, che finirebbero col limitare e ingessare le possibilità di programmazione, ma si è ritenuto ugualmente in questi ultimi anni – anche seguendo ricerche e indicazioni precise dei responsabili del marketing – che fosse necessario presentarsi al pubblico con una suggestione diversa di anno in anno, una parola-immagine che esprimesse e comunicasse lo spirito del festival. Nell’edizione 2008 questa parola-chiave è stata FEEL. Il termine (a volte abbinato a pain e love: feel-pain, feel-love) accostato in due immagini distinte e speculari a un volto a piena pagina di un giovane uomo e di una giovane donna dall’espressione concentrata ma neutra, catturava l’attenzione da manifesti e stendardi (e su tutti i mezzi informativi del festival), in una campagna pubblicitaria capillare e martellante.
La scelta di puntare sul sentimento, sulla sensazione, sull’affinità, sul dolore e sull’amore è stata – come dicevo – una scelta di marketing e mi è sembrato che trovasse riscontro nei programmi solo in rapporto alla volontà di limitare il più possibile le chiavi di lettura intellettualistiche (senza tuttavia puntare su suggestioni leggere). Il rapporto fra comunicazione e contenuti in un festival è un altro tema interessante e trascurato di riflessione (soprattutto se ci si pongono obiettivi di allargamento del pubblico).

Scelte e tendenze
Le priorità, alcuni temi di riflessione, le tendenze del programma, più che enunciate e teorizzate, potevano essere colte dall’insieme delle proposte, dall’accostamento di alcuni spettacoli e da alcune occasioni di approfondimento. Quello che interessava soprattutto a Loughlin Deegan, in questa edizione 2008, era mostrare come siano in atto a livello internazionale ricerche sempre più avanzate e mature orientate all’integrazione di linguaggi e tecniche e all’esplorazione di modi non convenzionali di comunicazione col pubblico, capaci di creare forme e relazioni completamente nuove.

Kate Duchene e Liz Kettle in The Waves.

Lo spettacolo che ha indicato questo percorso è Waves, una produzione del National Theatre of Great Britain, un lavoro di Katie Mitchel e della sua Compagnia abituale, dal romanzo Le ondedi Virginia Woolf del 1931. La sperimentazione letteraria di rottura della Woolf si applica con altrettanta radicalità al teatro, “creando una forma totalmente nuova” (“the Guardian”), attraverso tecniche multimediali, l’uso del video live-feed ed effetti speciali.

Black Watch.

Ma la ricerca di nuovi percorsi formali appare necessaria anche per il rilancio di un teatro di forte impegno civile, come è il caso di Black Watch di Gregory Burke, diretto da John Tiffany e prodotto dal National Theatre of Scotland, un pluripremiato spettacolo dedicato alla guerra in Iraq. Anche in questo caso una proposta di forte impatto visivo, ricca anche di suggestioni musicali.
Sulla linea dominante della contaminazione anche Dodgems (Autoscontro), una produzione del festival con la compagnia di danza CoisCeim, di crescente credito internazionale: un mix di danza e circo ambizioso e generoso ma non del tutto riuscito, suggestioni colte e popolari, suoni e odori, musiche per banda e effetti elettronici per una metafora sulla composizione sociale che cambia, nuove convivenze, nuovi scontri.

Il Flauto magico “etnico” secondo Mark Dornford-May.

Se nuove forme possono nascere dall’incontro con la tradizione, ecco la messa in scena “etnica” del Flauto magico, adattamento e regia di Mark Dornford-May (una produzione Isango/Portobello, ovvero Sudafrica-UK): Mozart incontra il musical, lo spirito gospel, l’Africa, in una produzione che strizza l’occhio al mercato, ma non per questo priva di originalità: un arrangiamento tutto per percussioni, grande vitalità, energia, spettacolarità che manda il pubblico (anche anziano) in delirio.

Vanessa Redgrave protagonista di The Year of Magical Thinking.

Un passo indietro: a fianco di Waves (che ha indirizzato altre scelte di programmazione), il festival propone altre due produzioni del Teatro Nazionale inglese: Vanessa Redgrave in The Year of Magical Thinking, testo di Joan Didion, basato sulle memorie della attrice-mito, diretta da David Hare; e Giorni felici con Fiona Shaw diretta di Deborah Warner.

Fiona Shaw è Winnie in Happy Days.

Scelte di questo tipo, all’insegna del massimo tasso di notorietà, possono essere qualificanti in sè, ma sono sempre una buona pre-garanzia per raggiungere i risultati quantitativi che consentono di garantire spazio a forme più radicalmente innovative, in una logica che tende a non porre steccati rigidi fra generazioni e strutture di produzione. Cogliendo l’occasione della significativa presenza inglese e scozzese (e naturalmente irlandese), alla funzione e alle modalità di produzione dei “teatri nazionali” è stato dedicato un convegno breve, cui non ho partecipato, ma interessante proprio per le considerazioni sulla necessità, la possibilità e le modalità di intervento delle grandi istituzioni teatrali a favore della ricerca di nuove forme.
Ho potuto seguire invece la discussione finale fra critici per lo più giovani e operatori nel merito degli spettacoli del festival. Una cosa mi è sembrata interessante: quello che pensavo fosse, e che mi è sembrato di veder confermato, come il punto di forza del teatro irlandese, cioè la drammaturgia, può essere percepito come un freno. Secondo Deegan è prioritaria una ricerca di percorsi formali che vadano oltre il testo e l’esigenza è avvertita anche nella discussione; dagli spettacoli si coglie però come queste ricerche vedano coinvolti spesso in prima persona gli stessi autori.

Delirium.

E’ il caso di Delirium che Enda Walsh (noto in Italia per Disco Pigs messo in scena da Walter Malosti), ha scritto e diretto, ispirandosi ai Fratelli Karamazov, o del curioso teatro d’appartamento You are here di Ioanna Anderson, che mostra a un gruppo di 15 spettatori-voyeurs le strane vicende di un appartamento esplorato nella sua vita diurna e notturna.

Tim Crouch e Hannah Ringham in Enlgand.

Ed è un po’anche il caso di England di Tim Crouch, che il festival ha presentato nella versione inglese, in cui l’autore è in gioco anche come attore, sperimenta quindi in prima persona il singolare rapporto spazio/attore/spettatore che il testo propone (ricordo in Italia l’edizione diretta da Carlo Cerciello).
Autore puro e geniale, degno discendente di Samuel Beckett (di cui vorrei almeno segnalare una bella, ironica messa in scema di Primo amore con Conor Lovett), è invece Martin McDonagh, autore anglo-irlandese trentenne, presente al festival con Lo storpio di Inishmaan, nell’edizione di Druid and Atlantic Theater Company (coproduzione Irlanda-Usa), diretta da Garry Hynes. Di McDonagh e di questo testo ha scritto Palazzi in occasione della messa in scena da parte del teatro di Genova: “ha tutta la densità di scrittura e l’articolata capacità di osservazione degli autori della sua terra d’origine. Ma nei suoi testi l’Irlanda non appare oggetto di nostalgie patriottiche o di prevedibili rivendicazioni nazionalistiche: essa gli offre piuttosto un linguaggio, uno stile, una tipologia di personaggi inconfondibili. E’ un luogo franco del sentimento, una sorta di riserva culturale nel cui orizzonte si possono ambientare soprassalti interiori e sviluppi narrativi che in un altro contesto risulterebbero impossibili, o quanto meno privi di verosimiglianza”.

La dimensione internazionale
E’ovviamente una scelta linguistica, e anche il frutto di relazioni consolidate che porta a privilegiare nelle ospitalità internazionali Inghilterra, Scozia, USA. Ma fra i paesi ospiti figuravano quest’anno anche Islanda, Belgio, una coproduzione olandese-tedesco-belga, Argentina, Colombia e, nella compressa selezione ragazzi (anticipazione di un festival dedicato), una coproduzione Norvegia-UK-Repubblica Ceca), la Danimarca e anche un’apparizione italiana: Il lupo e la capra della compagnia Rodisio).
Fra gli eventi speciali però (mostre, panels, laboratori) spiccava Stage to screen, il video di Romeo Castellucci sul ciclo della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio, due mattine di proiezioni (340 minuti): 80 persone circa all’inizio! La compagnia è molto conosciuta qui e molto amata da Loughlin Deegan: penso rappresenti per lui l’espressione ai massimi livelli della ricerca di forme nuove e totali che cerca di scoprire e di proporre.
La curiosità per altre espressioni del teatro italiano però, da parte di Deegan e del festival, non manca di certo, come sempre ostacolata dalla difficoltà a orientarsi sulla nostra scena. E non mancherebbero neppure i supporti pubblici in Irlanda per costruire ipotesi di scambio, magari a livello meno istituzionale.
Come non manca attrazione per la cultura italiana: devo ancora ricordare Circus di Raymond Keane e della compagnia Barabbas, ispiratro alla Strada di Fellini, metafora e pretesto per una intensa proposta visiva.
E per l’Italia in genere: l’ultimo tassista che incontro, con una coda di cavallo bionda, è orgoglioso di Ryan Air e mi dice che presto farà un salto a Milano, tanto per mettere un piede in Italia. Dal cruscotto occhieggia un’immaginetta di Padre Pio.

per dettagli sul programma del festival, edizione 2008
www.dublintheatrefestival.com

Mimma_Gallina

2009-01-07T00:00:00




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