#bp2013 Le residenze teatrali: storia e prospettive

L'articolo per il “Dossier Residenze Teatrali” di "Hystrio"

Pubblicato il 02/03/2013 / di / ateatro n. #BP2013_Firenze , 142

Una prima versione di questo testo è stata pubblicata nel “Dossier Residenze Teatrali” a cura di Alba Bevione e Mariarosa Camaldo, “Hystrio” 1/2013, gennaio 2013.

RESIDENZE
multiformi, flessibili, resistenti

La lunga marcia delle residenze prosegue e nel viaggio – come è giusto – ci si trasforma, si diventa più resistenti (alla fatica, ai mutamenti) e flessibili. Le trasformazioni aiutano a cogliere e apprezzare le differenze, e mettere a fuoco i punti comuni.
Una carrellata regionale, con scorci europei, come propone “Hystrio” in questo numero, consente di aggiornare la riflessione su questo modo di operare, con qualche conferma, qualche sorpresa, qualche dubbio.
L’idea di partenza resta la relazione attiva fra l’attività di ricerca e produzione di spettacolo (e la sua qualificazione) e un territorio/spazio.
Il modo di declinarla – come è emerso nei numerosi convegni e incontri sul tema – può essere ricondotto a due tipologie diverse, che vale la pena di descrivere, con l’avvertenza che contengono al loro interno molte varianti, e la raccomandazione di non intendere queste classificazioni in modo schematico: nella pratica questi due modelli possono incontrarsi o sovrapporsi.

ELEMENTI COMUNI: LE TIPOLOGIE

a) La residenza “creativa” o “artistica”
Questa modalità, che può riferirsi al gruppo o al singolo artista-professionista, presenta un largo spettro di varianti. Escludendo dalla definizione le permanenze anche molto brevi (tre giorni in un luogo magari con una prova vengono a volte definite residenze, ma sono una semplice antica, banalissima quanto necessaria “ospitalità”), si va dalla permanenza limitata delle prove (o a una fase delle prove) di un singolo spettacolo con (eventuale) debutto, a prove e laboratori e/o percorsi di formazione (chiusi o aperti), a progetti più articolati spesso con tappe successive di lavoro, caratterizzate o meno da esiti finali, fino rapporti pluriennali strutturati (o periodici ritorni).
In ogni caso il gruppo ospitato non si fa carico di aspetti gestionali e di solito lascia alla struttura ospitante il compito di organizzare le relazioni col territorio – più o meno forti (non di rado deboli) – che il nucleo artistico è disposto a praticare e a volte contribuisce a progettare.
La modalità della “residenza artistica” ha trovato inoltre la realizzazione ideale, presso alcune organizzazioni che su questo modo di ospitare-produrre , ovvero sulla presenza di un insieme di permanenze in residenza, basano la propria identità artistica. I pionieri di questa forma organizzativa (come Armunia, Arboreto, Fies), hanno trovato nel tempo molti seguaci e imitatori con significativi margini di originalità: tanto per le organizzazioni ospitanti che per gli ospiti queste “residenze artistiche intensive” presentano innumerevoli vantaggi e – con il tempo – hanno dimostrato la loro efficacia sul campo, con innegabili risultati qualitativi e organizzativi e una significativa visibilità.

b) La residenza “artistico/organizzativa”
La permanenza di un gruppo presso un teatro/spazio implica, a fianco dell’attività produttiva, che resta la funzione prioritaria (e si presuppone possa essere qualificata dalla disponibilità di un luogo), un complesso di aspetti gestionali/organizzativi/promozionali curati in prima persona dalla compagnia. L’attività include di norma anche l’ospitalità (l’organizzazione di cartelloni), spesso attività di laboratorio, azioni finalizzate alla valorizzazione del territorio e delle sue specificità (e alla relazione del gruppo col contesto), formazione e sensibilizzazione del pubblico. Inizialmente orientate a permanenze limitate nel tempo (di solito triennali in conformità con un’ipotesi ministeriale iniziale e alcune normative regionali), queste esperienze di residenza sono state in molti casi reiterate e si caratterizzano per presenze spesso prolungate per molti anni in uno spazio. In questo casi, da parte dell’ente locale proprietario del teatro, si configura un affidamento in gestione dello stesso alla compagnia, secondo progetti/programmi e parametri concordati, regolati di solito da convenzioni.
Il passaggio dal carattere temporaneo a una dimensione di fatto continuativa, trasforma l’idea di “residenza” avvicinandola al concetto di “stabilità”. La corrispondenza di residenze di questo tipo (ma anche alcune varianti del modello precedente) a una visione allargata di stabilità è stata oggetto di aspettative frequenti quanto disattese dei gruppi. La disponibilità del sistema teatrale, oltre che del MIBAC, a prendere atto che qualcosa è cambiato in questi ultimi quindici anni non è semplice da acquisire, anche se una revisione della descrizione e dei requisiti delle famose tre tipologie stabili sarebbe un vantaggio per tutti.

Al di à di queste modalità – entrambe legittime e di pari dignità – non bisogna dimenticare l’individualità dei progetti e dei gruppi, unica e irripetibile, che poco si adatta a definizioni schematiche (aggettivi come multidisciplinare, o anche sociale, formativa etc., spesso non fanno chiarezza e non valorizzano la complessità).
Non bisogna neppure caricare la forma della residenza di un valore eccessivo. Le residenze non sono LA soluzione ai problemi organizzativi del teatro italiano, né una NOVITA’ assoluta, ma un possibile modo di lavorare; in alcune situazioni e rispetto ad alcuni scopi, possono forse essere IL miglior modo possibile: per questo vale la pena di studiarlo nelle sue forme ed evoluzioni.

LE RADICI STORICHE

Entrambi i modelli descritti partono da lontano, precedono la definizione di residenza, e corrispondevano ad altri nomi. La diffusa assenza di vocazione gestionale dei gruppi sperimentali è un dato di fatto che si colloca all’origine della presenza di questi stessi gruppi presso i “centri di ricerca” negli anni ’80. I Centri (gli attuali “stabili di innovazione”), erano intesi (anche o soprattutto) come una rete di strutture attrezzate funzionali a sostenere, con coproduzioni e permanenze significative gruppi e artisti per propria natura “indipendenti”. Su fronti paralleli del sistema, il “radicamento” territoriale perseguito dalle cooperative teatrali degli anni ’70 (che consisteva in relazioni territoriali privilegiate ed è all’origine di molte esperienze stabili, pubbliche – l’ERT – e private), come l’affermazione dei “gruppi di base” (con le prime esperienze di laboratorio: Pontedera capofila), contribuirono a dare un’anima e allontanare da una logica di agenzia il fenomeno del “decentramento”, che si stava in quegli anni affermando. Tutto questo prima che Veltroni a metà degli anni ’90 proponesse l’incontro fra teatri disabitati e compagnie senza sede: una proposta felice, che è all’origine dello sviluppo della formula e della diffusione del termine Residenza.
Sarebbe interessante ricercarne le radici antiche: la permanenza nei teatri con il repertorio delle compagnie “dell’arte”, o – più vicino a noi e fino al primo Novecento – di quelle “all’antica italiana”, esplorare i periodi cosiddetti “di affiatamento”, quando si ricostruivano i repertori e si inserivano i nuovi attori: vere e proprie residenze, appuntamenti fissi in periodo di Quaresima. Forse è perché sono antiche che la Residenze sono rinate come forme nuove.
Meriterebbero ulteriori approfondimenti naturalmente anche i confronti internazionali: le modalità, diverse ma diffuse presso istituzioni grandi e medie, di selezionare, accogliere, sostenere progetti indipendenti e giovani artisti (per “missione”, quindi per un “dovere” intimamente acquisito).
E sarebbe più arbitrario in assenza di prove – ma non meno interessante – andare a fondo sul naufragio burocratico-ministeriale di un’idea forte come quella di Veltroni: perché in 18 anni il MIBAC non ha MAI sostenuto le residenze? perchè tuttora il “sistema teatrale” le guarda con diffidenza? Questione di risorse, certo, e la penuria produce impermeabilità al cambiamento, ma anche di rappresentanza e di ricambio dei quadri direttivi.

I NODI PROBLEMATICI E LA POSSIBILE EVOLUZIONE

Ma lo spazio e la funzione di un articolo è limitato, ed è più urgente ricavare qualche indicazione per il futuro, a partire dalle esperienze diverse che i territori esprimono.

• Reti e cabine di regia
Un altro nodo problematico: la necessità di agire “dall’alto” e organizzarsi “dal basso”. Le esperienze più interessanti a livello delle diverse regioni hanno portato alla creazione di reti o di aggregazioni, ma c’è ancora molto da fare per individuare o promuoverne le funzioni (dalla rappresentanza, ai servizi, ai progetti comuni). Fare rete (e movimento) è necessario. Molto del futuro territoriale delle residenze dipende dalla consistenza di queste organizzazioni, anche, o forse proprio, dove i sistemi sono stati promossi o coordinati da cabine di regia: su un terreno totalmente pubblico, come in Puglia – dove eventuali cambi di amministrazione o contrazioni dei finanziamenti potrebbero mettere a rischio un’esperienza pilota – ma anche in Lombardia con l’esperienza di ETRE, dove la stessa Fondazione Cariplo ha spinto per la creazione dell’associazione come una delle condizioni per dare senso al progetto, un interlocutore collettivo che potesse operare per il rinnovamento del sistema regionale. Non va tuttavia sottovalutato il fatto che iniziative partite “dall’alto” sono state decisamente funzionali alla fase di formalizzazione, alle scelte, al decollo di queste esperienze. Le residenze sono resistenti, ma assieme fragili, e ancora avversate dal sistema consolidato, devono tessere alleanze, elaborare strategie, a volte organizzare la difesa.

• Diversità regionali e “pari opportunità” normative
In una fase in cui si rimettono in discussione i modi di “concorrere” al sostegno della cultura fra Stato e Regioni (per la verità mai definiti con chiarezza), la disparità di opportunità che caratterizza i diversi territori andrebbe almeno smussata con un intento comune a favore delle Residenze.
Il MIBAC ha ricevuto molte recenti sollecitazioni in proposito, ma il rapporto con il territorio le identifica come un soggetto di prevalente rilevanza regionale; sulla funzionalità di questa forma artistico-organizzativa potrebbe dire la sua la conferenza Stato Regioni, ma è necessaria una definizione convincente (ne esistono già alcune), che sia sintesi fra le migliori esperienze e le diverse tipologie, possa cogliere i prossimi inevitabili cambiamenti politici e parallelamente sensibilizzare – a partire dal caso lombardo – le fondazioni di origine bancaria.

• La questione della durata
Niente è (e deve essere) per sempre. La disponibilità al ricambio nelle organizzazioni (e da parte delle dirigenze) è direttamente proporzionale alla vitalità di un sistema e certo quando si hanno poche probabilità di trovare una strada diversa da quella conosciuta, posizioni diverse da quelle acquisite, è comprensibile che ci si attacchi alla poltrona –magari scomoda e rattoppata. La disponibilità al ricambio, alla circolazione di persone ed energie, la consapevolezza che il carattere temporaneo dei progetti e delle persone può essere positivo (anche nel quadro di lunghe o medie durate), dovrebbe essere nel dna delle residenze. Non è questione di rottamazione (fino a che ci sono energie e cose da dire perché temerla e auspicarla?), ma anche: di rotazione, di emersione, di trasformazioni; si tratta di creare le condizioni per estendere le opportunità, senza compromettere la continuità operativa degli spazi. Non è facile, ma la durata (quindi il termine) di queste esperienze va organizzata con modalità simili sul territorio regionale: un gruppo francese non teme troppo la scadenza di un progetto in un luogo, perché le probabilità di elaborarne un altro e trovare un altra organizzazione che lo accolga sono molto alte. Per favorire la circolazione diidee e persone, non è sufficiente il filtro dei “bandi”, che hanno introdotto un minimo di competizione, ma rispetto ai quali si registrano anche forme di abuso o cattivo uso. E’un tema da approfondire.

• La diffusione delle residenze artistiche brevi
Lo spazio a gruppi – con progetti o percorsi – nel quadro delle programmazioni dei teatri delle diverse tipologie (dagli stabili, ai piccoli teatri, passando per circuiti e i teatri comunali), va adeguatamente incentivato. Gli incentivi possono arrivare dalle Regioni e dagli Enti pubblici, o dalle Fondazioni bancarie, ma – come le esperienze insegnano – hanno più probabilità di successo se sono spinti dalle compagnie indipendenti in forma organizzata: non ci si salva da soli. Il fatto che questo tipo di ospitalità sia in crescita è in collegamento con la crisi del mercato (come tale la spia di una congiuntura negativa), ma è uno dei pochi dati confortanti di questi mesi, può arginare la proliferazione eccessiva di spazi (che le compagnie a volte acquisiscono per disperazione), ed è anche una risposta strutturata e professionale alle numerose linee di intervento sulla creatività, che – dopo l’avvio stimolante – rischiano una deriva generica e un po’ demagogica.

• Le residenze e l’area della stabilità
Se le considerazioni precedenti sono corrette, per molti soggetti si tratta di mostrare –o dimostrare – che la residenza artistico-organizzative o le residenze artistiche “intensive”, pur con un’identità propria, costituiscono una variante e un ampliamento a tutti gli effetti dell’area della stabilità. Questo non vuol dire necessariamente finanziamenti statali, ma un quadro normativo e pratiche locali che individuino l’efficacia della residenza (la presenza artistico-produttiva in un teatro), come “software” ideale per attivare e far vivere spazi teatrali o polivalenti (che siano la piccola sala storica del Canavese o la cattedrale di cemento atterrata nel cuore della Sardegna).

• Residenze artistiche e innovazione
In quest’ottica, i centri che praticano residenze artistiche intensive assolvono di fatto una delle funzioni originarie della stabilità “di innovazione”: qualunque sia la loro forma organizzativa (festival inclusi), dovrebbero essere riconosciuti per questa funzione e dotati di finanziamenti adeguati in presenza di progettualità e risorse (anche tecnico-umane), e modalità operative che favoriscano ricambio e alternanza. Il sostegno ai “vivai” che questi centri rappresentano dovrebbe stare a cuore al teatro italiano nel suo complesso. Dovrebbe.

• Le residenze e l’area della stabilità
Se le considerazioni precedenti sono corrette, per molti soggetti si tratta di mostrare –o dimostrare – che la residenza del primo tipo (artistico-organizzativa) o le residenze artistiche “intensive”, pur con un’identità propria, costituiscono una variante e un ampliamento a tutti gli effetti dell’area della stabilità. Questo non vuol dire necessariamente finanziamenti statali, ma un quadro normativo e pratiche locali che individuino l’efficacia della residenza (la presenza artistico-produttiva in un teatro), come “software” ideale per attivare e far vivere spazi teatrali o polivalenti (che siano la piccola sala storica del Canavese o la cattedrale di cemento atterrata nel cuore della Sardegna).

• Residenze artistiche e innovazione
In quest’ottica, i centri che praticano residenze artistiche intensive assolvono di fatto una delle funzioni originarie della stabilità “di innovazione”: qualunque sia la loro forma organizzativa (festival inclusi), dovrebbero essere riconosciuti a livello regionale per questa funzione e dotati di finanziamenti adeguati in presenza di progettualità e risorse (anche tecnico-umane), e modalità operative che favoriscano ricambio e alternanza. Il sostegno ai “vivai” che questi centri rappresentano dovrebbe stare a cuore al teatro italiano nel suo complesso. Dovrebbe.

• Le pratiche dell’’accompagnamento
per concludere: sono condizione e valore aggiunto delle residenze “artistiche”, ma richiedono approfondimenti. Un confronto allargato sarebbe opportuno per una messa a punto e uan diffusione più qualificata di queste esperienze: al di là dei supporti tecnici (attrezzature, personale), e organizzativi-amministrativi (ma quali di preciso oltre al miraggio della “distribuzione”?), cosa effettivamente serve per crescere, che bisogni esprimono e cosa effettivamente desiderano le compagnie? (e non è detto che sia lo stesso!). Spesso i bandi e le leggi regionali parlano di “tutor” ma che cosa si intende in concreto, quale è il livello di interazione possibile, corretto, accettabile soprattutto sugli aspetti artistici? L’esperienza di Fies è forse la più matura o completa in questa direzione, ma è interessante anche quella molto più light del comitato di critici e operatori che ha selezionato, aiutato a decollare e dialogato con i gruppi lombardi di ETRE. E’ un altro tema di lavoro: queste pratiche – i bisogni, le differenze, i percorsi, le professionalità – vanno confrontate e approfondite.

Mimma_Gallina

2013-03-02T00:00:00




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