La storia del barbiere Gioacchino, tortutato per errore dalle squadracce fasciste a Catania

Pubblicato il 11/03/2019 / di / ateatro n. 167

Qual è il luogo adatto per accogliere le parole oggi? Quale la maniera di indirizzarle agli altri o di farle rimbalzare sul terreno della comunicazione? Quali sono i mezzi deputati a dar loro consistenza? E le parole possono ancora dipingere la realtà?
Troppo labili sono, in questo tempo, i confini tra ciò che effettivamente percepiamo come reale e l’universo virtuale che ci ha fagocitati. Tutto attorno a noi sembra dissolversi. La storia stessa, quel divenire di cui avevamo coscienza, è una trama facilmente alterabile.
Permane il bisogno di arrestare il lesto fluire delle cose, ma per far ciò è verosimilmente al presente che ci si deve adeguare.

Turi Zinna, negli spazi di palazzo De Gaetani a Catania, ha raccontato una storia. Ma non l’ha fatto con le usuali modalità narrative, non ha obbedito alle tradizionali regole che pretendono la ragionata organizzazione di pensieri e parole. Turi Zinna ha posto sé stesso al servizio delle “macchine” che confezionano la realtà, incessantemente sfumandone i confini, rendendole obbedienti all’urgenza del dire. Il fine ultimo la ricostruzione di una infinitesimale porzione di passato.
Così che sulla musica techno e sulle trame delle immagini vi potesse adagiare la voce, per dipanare una storia. Un cunto nell’era ove tutto passa velocemente, ove l’uomo dimentica, il ben riuscito tentativo di arrivare agli altri coi suoni e i colori, per restare qualche istante in più e provare a solleticare, a disturbare se necessario.
La storia di Gioacchino il barbiere, torturato per errore dalle squadre fasciste catanesi, è la storia di un mondo che chiede scusa e ringrazia i suoi aguzzini, salvo poi non trovare la strada di casa per tornare a una vita seppellita per sempre dalle botte e fuggire, timidamente sperando in una nuova alba.
I discorsi di Benito Mussolini alle spalle, parole mitragliate sul pubblico. Ché, se non basta la storia, gli effetti centrano più facilmente l’obiettivo.
E dall’epigrafe delle Nozze di Cadmo e Armonia di Sallustio la premessa: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”. Manifesto programmatico della storia nell’accezione vichiana, monito alle coscienze, ora che il tempo reitera le premesse di nuovi conflitti e un Duce può sempre irrompere nelle nostre vite.
Gioacchino il barbiere ha bevuto un quarto di litro di olio di ricino, ha la bocca spaccata dai calci, i reni fracassati dalle manganellate, la pancia squassata dai pugni. E ha la morte dentro. È morto dentro. Si aggira alla ricerca di un bagno per i vicoli di quella Catania che nel 1937 era stata imbellettata per il passaggio di Mussolini. Ai profumi di zagara si mischiavano i miasmi della miseria. Lì sarebbe dilagata la guerra. Lì Gioacchino, passando dagli archi della Marina alla stazione e alle ciminiere, ritrovava un po’ di sé. Quello strano senso di libertà e di felicità che provano i bambini, quando non hanno vergogna di niente.
La quiete dopo la tempesta, l’illusione di un orizzonte da scorgere tra le macerie di mondi distrutti e mai più ricostruiti, come il quartiere San Berillo a Catania, ove si trova il palazzo De Gaetani, sventrato negli anni Cinquanta, con la conseguente “deportazione” di circa tremila abitanti. Le
palizzate erette per nascondere al duce la miseria sono divenute parte integrante e stabile della sua carne urbanistica. E lì si ergono, a dispetto dei tempi che passano veloci e di un mondo che va di fretta, pretendendo di lasciarsi alle spalle le tracce dei disastri, paradossalmente arando il terreno per accoglierne di nuovi.
A Turi Zinna, in perfetta solitudine sulla scena, va riconosciuto il merito di aver sperimentato inedite forme artistiche, con il coraggio di chi osa.
Il muro – cronachetta drammatronica di una civile apartheid, diretto da Federico Magnano San Lio, ha mosso le fila da una riflessione sulla drammaturgia contemporanea e da quell’adeguamento al presente con cui, volente o nolente, l’artista deve misurarsi.
La perfezione formale della tecnologia costruita “a freddo” può sopraffare la materialità “calda” dell’attore, come può esserne sopraffatta. Esito prevedibile di un live set multimediale. Sono del resto forme espressive che scandagliano universi parzialmente inesplorati, sono sperimentazioni, sono boccate d’ossigeno tra la nebbia nera dell’immobilismo creativo.