Per Bernardo Bertolucci, singolare ed eccentrico

Un poeta del cinema e dei suoi piaceri colpevoli

Pubblicato il 15/03/2021 / di / ateatro n. 174

Bernardo Bertolucci, Prima della rivoluzione: il Teatro Regio di Parma

Chissà cosa avrebbe avuto da dire Bernardo Bertolucci sul tempo sospeso della pandemia. Il suo cinema ha saputo dare un nome all’essere soli e a convivere e in alcuni casi a sopravvivere, a cosa significa bilanciare la vita aperta a maglio, fin dove si è potuta spingere la resilienza umana, con la più tetra solitudine esistenziale, politica, sessuale, religiosa, sociale, artistica e adolescenziale.
Oggi, al giro di boa degli ottant’anni della sua nascita (era nato a Parma il 16 marzo 1941 ed è morto a Roma il 26 novembre 2018), a essere strattonati per un’interpretazione all’altezza di questo nostro tempo sono alcuni suoi film. Perciò vale la pena di scodellare pellicole come Il conformista, Ultimo tango a Parigi, Tragedia di un uomo ridicolo, la trilogia internazionale inaugurata dall’Oscar assegnato all’Ultimo imperatore, ma anche piccoli film come L’assedio e soprattutto Io e te (il film che otturerà per sempre l’obiettivo della sua macchina da presa), così estremi per la capacità di creare intrecci tra autobiografia per procura, romanzo di formazione e svolazzi di poetiche del reale, care a tanto cinema europeo degli anni Sessanta–Settanta.

Julian Beck in Agonia, l’episodio di Amore e rabbia firmato da Bernardo Bertolucci

Tenendo a mente che talvolta, per la loro carica cinefila (i celebri hommages di BB, che spesso sfioravano il plagio, come perfidamente lo ammonì sul set di Novecento Romolo Valli), questi film deragliano su terreni ossessivi e colpevolmente adatti a un piacere più autoriferito che a una sostanziale presa di coscienza da parte di un regista che aveva conosciuto in tempi diversi e quasi in egual misura successi e fallimenti. Ma questo vuol dire appartenere di fatto e in tutto e per tutto al Cinema in modo egocentrico, facendone una “magnifica ossessione”. In questo singolare e diffuso continente intellettuale si trovano a proprio agio molti cineasti, anche nostri contemporanei come Quentin Tarantino e Luca Guadagnino. Perché, in modi differenti e meno antitetici di quanto i loro film dicano, sembrano entrare nell’agone conflittuale costruito da Bertolucci con la sua filmografia, e non da porte di servizio.

Per dirla alla Francesco Savio: in un cinema, tagliato in due da un prima e dopo Godard, s’intravedono bagliori viscontiani, ingressi pinteriani, figurazioni baconiane. La crudeltà del cinema di Bertolucci non sembra fermarsi psico-analiticamente all’immaginazione, ma gira intorno a un giorno che sfalda le sue ore pre-primaverili in più di un conflitto interiore ed esteriore irrisolto, volendo usare un lessico bertolucciano riverberato peraltro anche in Il mistero del cinema, il testo inedito della prolusione letta da Bertolucci a Parma nel 2014 in occasione del conferimento della Laurea honoris causa da parte dell’Università della sua città natale ed ora raccolto da La nave di Teseo, proprio per celebrarne gli ottant’anni.
Questo testo, fortemente autobiografico, è una sintesi del libro che il regista credeva di non aver scritto e che è diventato invece La mia magnifica ossessione, la raccolta dei suoi testi nata da una mia intuizione e poi diventata nel 2010 un volume curato con Piero Spila per Garzanti.

In questi due libri, a cui va aggiunta la raccolta di conversazioni Cinema la prima volta (curata da Tiziana Lo Porto per Minimun Fax nel 2016), si squadernano persone, personaggi, film, città ed episodi della sua vita, insufflati dal quel sottile e mai domo desiderio di raccontare. Attraverso le immagini e una scrittura che spesso risente ancora del racconto orale (ma folgoranti erano anche i suoi sms e poi whatsapp), questi testi, letti a posteriori, sembrano evocare un possibile e mai realizzato film quotidiano, diaristico, warholiano (se l’aggettivo non fosse stato svilito dall’abuso), filtrato attraverso la (dimenticata per molti) lezione zavattiniana. Bertolucci dice (e Adriano Aprà lo ricordava in una recente intervista al “Venerdì” di “Repubblica”) d’aver conosciuto Warhol e di aver visto i suoi primi cortometraggi proprio a casa di Zavattini.

Bernardo e Attilio Bertolucci (1975)

Nel suo cinema, ancor più trasfigurata e diluita, risuona anche la grande poesia del Novecento. Non solo Pasolini, cui deve la “scoperta del cinema”, ma suo padre Attilio, non il più grande poeta italiano del XX secolo, ma quello che più seppe occupare un proprio posto, singolare (se lo si leggesse bene) ed eccentrico, nel canone letterario nazionale. Ecco come oggi si potrebbe definire Bernardo Bertolucci: singolare ed eccentrico. Non meno “misterioso ed elegante” nei suoi piaceri sempre meno colpevoli.