Da Kabul a Parigi con il Théâtre Aftaab e il Théâtre du Soleil

L'intervento al XXII Convegno Internazionale I teatri delle diversità | "Teatri e processi di liberazione. Pratiche maieutiche" | 7 novembre 2021, Teatro Bramante, Urbania

Pubblicato il 06/11/2021 / di / ateatro n. 180

Studiando queste lontane vicende storiche si ha l’impressione che solo fortuitamente l’Afghanistan sia diventato il centro del Grande Gioco: un paese relativamente piccolo, nel mezzo della steppa asiatica, popolato da pastori, che non ha mai prodotto un impero. Le vicende di questi ultimi giorni invece sembrano contraddire questa interpretazione e sembrano dirci che l’Afghanistan è al centro del mondo e della politica mondiale.
(Afghanistan. Cosa sta succedendo, a cura di Alessandro Ceci, Luca Sossella Editore 2021)

Un po’ di cronaca da questi ultimi mesi:

E così il cielo afghano si è di nuovo oscurato; è di nuovo calato il burka sui cieli di Kabul. O forse questa cortina segregazionista, che rende metà della popolazione un informe fantasma, non si era mai del tutto sollevata. In questi vent’anni di “esportazione” della democrazia, le donne avevano continuato a soffrire, seppure sperando. Così, mentre si versano fiumi di inchiostro per cercare di spiegare come i taliban siano riusciti a riprendersi l’Afghanistan prima ancora che l’ultimo soldato della missione internazionale abbandonasse il Paese, mentre il Segretario di Stato Blinken si affanna a ripetere che i paragoni con la caduta di Saigon nel ’75 sono inappropriati, poiché gli Usa in Afghanistan “hanno portato a termine la loro missione”, mentre ascoltiamo con un “vago” scetticismo le parole di Enamullah Samangani, membro della Commissione Cultura, che afferma la volontà dei taliban di proclamare l’amnistia e invita le donne a entrare nel governo “ma secondo le regole della shari’a”, ecco mentre ascoltiamo tutto questo, la popolazione afghana, le donne afghane si ritrovano sole a fronteggiare un futuro denso di incognite. Incognite sul rispetto dei loro diritti ma, in verità, sulla rilevanza stessa dei diritti, di tutti i diritti, svincolati dai ceppi opprimenti di una visione religiosa che esclude la dignità dell’uomo dal proprio orizzonte. E la storia afghana, da questo punto di vista, è illuminante. Studiando queste lontane vicende storiche si ha l’impressione che solo fortuitamente l’Afghanistan sia diventato il centro del Grande Gioco: un Paese relativamente piccolo, nel mezzo della steppa asiatica, popolato da pastori, che non ha mai prodotto un impero. Le vicende di questi ultimi giorni invece sembrano contraddire questa interpretazione e sembrano dirci che l’Afghanistan è al centro del mondo e della politica mondiale.
(Afghanistan. Cosa sta succedendo, cit.)

Ma siamo sicuri che è così? L’attenzione mediatica, attivatasi spasmodicamente durante il ritiro delle truppe statunitensi e il conseguente panico scatenatosi nel paese, ha lasciato presto il campo dapprima a scene d’ordinaria follia collettiva (i due fratelli che si lasciano cadere dalle ruote di una carlinga d’aereo; il neonato consegnato dalla madre al marines) e alla retorica cinematografica hollywoodiana da sempre appartenente agli USA (il generale osservato da una camera ad infrarossi che per ultimo sale sull’aereo), e successivamente calato l’interesse sono rimasti, limitando lo sguardo in Italia, appelli e alcune iniziative che avevano molto da spartire con gli intellettuali caricaturali di un film a suo modo veritiero come Lettera aperta ad un giornale della sera di Citto Maselli, anno 1970. Per dimostrare come tutto si ripete. Allora il Vietnam, già evocato da più parti. Oggi l’Afghanistan. Sul lato del fare, invece, vi è da registrare il moto d’accoglienza messo in atto da molti comuni nell’accogliere i profughi del paese asiatico. Qui però si entra in un altro ordine di discorso.

La Ronde de Nuit

Fermiamoci: aggiungendo solo che l’azione statuale dei Taliban continua ricoordinata su nuovi accordi e geopoliticamente referenziata su altre influenze e sulla possibilità di ricompattare il paese attraverso altrettante nuove alleanze economiche. Questo sul piano esterno, mentre sul piano interno il rapporto con la popolazione non è proprio idilliaco e non potrà esserlo vista l’applicazione, ancora una volta, di diktat religiosi che penalizzano la vita delle donne, e oche annullano molte forme di spettacolo e di musica. Sebbene nel corso di quattro decenni i talebani hanno cambiato il loro approccio alla modernità. Dunque: andiamo indietro di qualche anno in un elastico temporale che scombina in avanti e all’indietro i fatti afghani in cui s’inserisce il Théâtre du Soleil e la sua guida, Ariane Mnouchkine: nella sua biografia intellettuale e teatrale vi sono i germi di quel desiderio di inclusione globale nelle reciproche differenze che ne fanno un faro non solo nella comunità teatrale europea e mondiale. Infatti, Ariane Mnouchkine, regista di teatro e di cinema francese, è la prova di come il sogno utopistico di una sola persona possa tra­sformarsi in realtà concreta e vivente.
Cinquant’anni fa, il Théâtre du Soleil e qualche anno dopo la Car­toucherie sono stati fondati attraverso la difficile e coraggiosa ricerca di una “verità teatrale”. Il confronto, serrato e rigoroso, è stato con le tradizioni del passato – dalla tragedia greca alla Commedia dell’Arte, dalle opere di Shakespeare e Molière alle tecniche dei teatri orientali, dalle maschere della tradizione Ba­linese al teatro Nō giapponese – il tutto teso al raggiungimento della creazione della “commedia del nostro tempo”. La Mnouchki­ne non dimentica però che il proprio magistero deve necessaria­mente ancorarsi a forti valori etici e politici che cortocircuitino le barriere culturali e religiose contemporanee al fine di esprime­re le passioni, le paure e l’amore dei nostri contraddittori anni. Fin dall’inizio, Ariane Mnouchkine si è distinta nella necessità di espressione collettiva. I principi ispiratori sono nelle teorie tea­trali di Jean Vilar, Bertold Brecht, e soprattutto di Antonin Artaud per “la centralità accordata all’attore e i riferimenti costanti ai teatri asiatici”. E il suo cinema crea e innesta in tale imbuto critico, un “punto di vista” che non è la mera ripresa cinematografica, televisiva o video dello spettacolo, ma l’invenzione di un nuovo e imprevedibile originale come l’ultimo film, Les Naufragés du Fol Espoir, tratto dall’omonimo spettacolo realizzato dopo una sottoscrizione e circa tre anni di riprese.
Da questa prospettiva è partito il Piccolo Teatro di Milano, nel 2013, nell’organizzare i festeggiamenti dei cinquant’anni della fondazione del Théâtre du Soleil che hanno riportato in Italia, dopo moltissimi anni e in mezzo al debutto del suo Macbeth (“uno che sembra far colazione ogni mattina con Freud”), la sua fondatrice e con lei il Theatre Aftaab di Kabul, la compagnia più prossima al leggendario Théâtre du Soleil che allora portò in scena La ronde de nuit: pièce che esplora sulle suggestioni della Mnouchkine la possibilità di fare teatro in modo totalizzante e a stretto contatto con la realtà e le persone, vivendo la bellezza e le storture del quotidiano, a qualsiasi latitudine, senza distinzione di classe, provenienza e sesso come fossero parte integrante della costruzione esistenziale e morale della persona. Allora sembrò non un caso che proprio il Piccolo Teatro fu ad ospitare la Mnouchkine. Con la presenza della regista franco-russa si poté comprendere la grandezza trascorsa, che ancor oggi si tende a replicare, forse più a parole, sia del teatro milanese sia suoi grandi “inventori”, Giorgio Strehler e soprattutto Paolo Grassi. A vedere in successione le celebrazioni dei loro centenari, per il primo quest’anno, per il secondo nel 2019.
Il rapporto però con l’Afghanistan avviene nel 2007 ed è registrato da Un soleil à Kaboul… ou plutôt deux di Duccio Bellugi Vannuccini, Sergio Canto Sabido e Philippe Chevalier. Nel film si racconta come la Mnouchkine decida di affrontare, sollecitata dall’Associazione unitaria per la Cultura e la Società Civile, di intraprendere una « missione », pur pericolosa ma che cambierà il Theatre du Soleil. Andando a Kabul per circa tre settimane la regista “esporterà” il proprio appassionato ed unico metodo di lavoro e costruirà con alcuni aspiranti attori e registi afghani un rapporto talmente stretto che alcuni di loro la seguiranno in Francia. Da questo laboratorio interculturale che nasce il Théâtre Aftaab che non è una costola della compagnia maggiore, ma una vera e propria autonoma diramazione del Théâtre du Soleil che ha prodotto ulteriori spettacoli sotto la direzione di Helene Cinque. Non solo La ronde de nuit, si ricorda anche Ce jour – là. Chi scrive ha avuto modo di assistere al primo degli spettacoli e di conversare con la Cinque al Centre Culturel Français di Milano in occasione della replica al Piccolo Teatro. La parabola del Théâtre Aftaab a distanza di molti anni non si può dire che sia oggi conclusa nè sciolta. Alcuni degli attori, una volta stabilitisi in Francia, hanno intrapreso altre carriere. Mentre molti sono entrati in pianta stabile nel Soleil e proprio in questo periodo alcuni di loro li troviamo nell’ultima produzione della Cartoucherie, L’Ile d’Or, che ha debuttato proprio in questi giorni. Dunque la storia continua ed una storia da tenere a mente di inclusione e capacità di osservare l’altro mettendosi in sintonia con un fuori di sè che vede la cultura come una gigantesca multilaterale rete di relazioni umane.




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