Ricerca, spettacolo, mercato

L'intervento per Teatro e ricerca 2024

Pubblicato il 06/01/2024 / di / ateatro n. 196 | teatro e ricerca 2024

A Oliviero Ponte di Pino, Simone Faloppa, Raúl Iaiza

Cari amici,

Parigi, novembre 2022: Eugenio Barba e Raúl Iaiza

mi chiedete un breve contributo per i vostri pertinenti ed essenziali Appunti in corso di elaborazione. Ecco le mie riflessioni.
Personalmente non ho mai pensato in categorie di “ricerca”. Ammiro chi la svolge, apprezzo i loro processi e attività e sono consapevole quanto siano importanti per
l’ecologia della nostra professione. Ma la “ricerca” non ha mai motivato le mie decisioni. Ho sempre pensato, e lo penso tutt’ora, che il teatro sia lo spettacolo, il corpo a corpo degli attori con lo spettatore. Il teatro è lo spettatore. In questo consiste la sua identità e specificità dal punto di vista storico e tecnico.
La dimensione della “ricerca” è organicamente inerente al processo di sviluppo degli attori per le prove di uno spettacolo e ogni regista segue cammini diversi. Il mio consiste nel tentativo di aggrovigliare le diversità dei singoli attori in un processo indiretto e zigzagante per stimolarli verso forme espressive inaspettate e spesso fortuite che intensifichino i particolari della storia da proporre agli spettatori. Il risultato sorprende anche noi che l’abbiamo sviluppato. È questa “ricerca” che spinge i registi a prolungare il periodo di preparazione fino a farlo durare mesi e addirittura anni.
Gli esempi che oggi sono spesso citati come “ricerca” – gli Studi di Stanislavskij, Vachtangov o Mejerchol’d – erano scuole teatrali, le prime a sorgere nel
Novecento per preparare gli attori alle difficoltà che ponevano le opere originali di drammaturghi come Ibsen, Strindberg, Cechov e poi dei simbolisti Maeterlinck, Hamsun, Andreyev. Queste scuole erano spesso all’interno di un teatro in quanto sistema di produzione di spettacoli. Altre volte erano al di fuori e preparavano attori e attrici che si sarebbero poi dovuti inserire nel “mercato” degli spettacoli. Come l’Actors’ Studio o la casa-scuola di Etienne Decroux. Vi era però un’abissale differenza tra queste due ultime: il primo preparava per il “mercato”, il secondo rifiutava di prenderlo in considerazione e mandava via i suoi studenti che cercavano di entrarvi durante i loro studi.
Il “mercato” non è un’entità negativa. È il luogo dell’incontro, delle trattative, dei vincoli e delle dissidenze che determinano il valore della relazione essenziale alla quale Jerzy Grotowski riduceva il teatro: l’attore e lo spettatore. Una simile relazione può avvenire solo all’interno del “mercato”. Deve prendere in considerazione politici e mecenati, leggi teatrali e mode, sistemi di produzione/distribuzione ben oleati e aspirazioni individuali artistiche, didattiche, politiche, terapeutiche e spirituali. La relazione attore-spettatore si dibatte tra pragmatismo e idealità, tra rifiuto e consenso. Il “mercato” è lo spirito del tempo, ma anche l’acqua reale di un oceano in cui noi artigiani della scena siamo pesci che nuotiamo. Possiamo seguirne le correnti, andarci contro, cercare di evitarle appiattandoci nel fondo o tentare di diventare pesci volanti per sfuggire ai flussi e alle pressioni di questo mondo liquido che imprigiona.
Parlo di “mercato” perché per me esso è una dimensione essenziale della professione insieme al suo aspetto complementare: l’idealità. È in questa polarità che il teatro – in quanto incontro con lo spettatore – diventa un concreto sistema di produzione e creatività specifica con una rete di relazioni che a volte creano un
ambiente particolare, parallelo, outsider.
Nando Taviani aveva definito “enclave” questi ambienti. A me interessa mantenere la diversità e l’incomunicabilità delle singole persone che costituiscono la mia enclave, il mio gruppo teatrale, la mia isola galleggiante. Mi appassiona intrecciare questa differenza con la differenza di altre enclave, teatrali o no, che cercano di opporsi alla pressione dell’acqua sovrastante. La “ricerca” non è una forza che mi spinge, mi interessa la politica con altri mezzi. Intendo la politica come una profonda nostalgia di cambiamento, di rifiuto di situazioni considerate impossibili. Per questo parlo anche di una “tradizione dell’impossibile” nel teatro. La capacità di alcune personalità e dei loro teatri di realizzare quello che i loro contemporanei consideravano impossibile. E qui debbo ricordare, Stanislavskij, Vachtangov, Brecht, il Living Theatre e i numerosi teatri di gruppo dell’intero pianeta – quelli che io chiamo il Terzo Teatro, che hanno trovato sistemi di produzione, tecniche e modalità creative per arrivare a spettatori nelle zone ferite e trascurate della nostra società.