Lingua materna

Le lingue e il presente della memoria

Pubblicato il 24/06/2002 / di / ateatro n. 037

Questo testo è stato redatto nell’ambito del Laboratorio di scrittura drammaturgica condotto da Renata Molinari all’interno del progetto Il teatro delle lingue / Le lingue del teatro (Udine, settembre 2000-aprile 2001) ed è pubblicato nel volume di Renata Molinari Lingua materna. Le lingue e il presente della memoria. Un laboratorio, pubblicato dall’Ente Regionale Teatrale del Friuli-Venezia Giulia, Udine, 2002.
 
Le tappe
26 – 29 settembre
12 – 14 ottobre (il convegno)
26 – 28 gennaio
10 – 12 marzo
26 – 28 aprile
 
I partecipanti
Manuel Buttus
Manuela Centazzo
Alessandro Ceschia
Sandra Cosatto
Veronica Cumaro
Gigi Del Ponte
Angela Giassi
Anna Gubiani
Fabiano Fantini
Ornella Luppi
Rita Maffei
Giorgio Monte
Marcela Serri
Massimo Somaglino
Carlo Tolazzi
Luisa Vermiglio
 
Barbara Sinicco (assiste Renata Molinari nella prima sessione di lavoro)

 
Il contesto del convegno
 
Nell’autunno del 1999, le giornate di lavoro organizzate da Angela Felice e Mario Brandolin attorno al tema Le lingue del teatro/Il teatro delle lingue avevano suscitato, in me come in altri partecipanti agli incontri di quei giorni, il profondo desiderio di continuare in maniera attiva, le riflessioni confrontate in occasione del convegno.
In che senso, in maniera attiva? Attive erano state anche le relazioni, le discussioni e soprattutto il confronto di opere e di intenzioni intrecciato sul palco dell’auditorium Zanon dagli artisti ospiti. Gli artisti delle Lingue del teatro, nell’ultima giornata del convegno, avevano dato vita a un vero happening, coordinato da Antonio Calbi. Più che un happening, l’impressione era quella di essere di fronte a un’autentica officina di provocazioni e restituzioni, in nome di pratiche teatrali diverse, ma concordemente radicate in una ricerca sulla lingua in grado di restituire appartenenze e legami, fuori dalle convenzioni e dalle abitudini della prosa teatrale.
 
Tradizioni culturali collaudate, ma anche ardite sperimentazioni formali, poesia e racconto, musica e storia si erano incrociate in un vero e proprio atto di testimonianza reciproca fra gli artisti in questione.
Tutto questo non solo confermava quanto il convegno aveva messo in luce a livello di riflessione sul teatro (sul teatro dei nostri anni, in particolare), e di analisi sull’intreccio di lingue della comunicazione sociale e della espressività artistica, ma dava anche una risposta forte, anche se non omologata, alle ambigue tentazioni, dal bozzettismo realistico all’isolamento separatista, che ogni viaggio dentro le differenze linguistiche rischia di avallare.
La ricchezza e i rischi insiti nella proposta delle Lingue del teatro erano poi esaltati dalla particolare collocazione geografica e culturale dell’iniziativa: il Friuli, appunto, terra di confine e di confini, di lingue che agiscono in maniera forte e a volte conflittuale nella definizione delle identità territoriali e culturali, per non parlare delle storie individuali spesso così scopertamente – ed emozionalmente – in bilico fra radice e spaesamento, fedeltà ed emancipazione.
Tre giorni di complessa immersione in questa realtà, fatta di domande, opere, provocazioni e stimoli, tre giorni ricchi, emotivamente e intellettualmente, spingevano verso quello che mi piace chiamare un approfondimento attivo. Uso il termine attivo nell’accezione teatrale del termine: un approfondimento attuato attraverso le regole del fare teatrale, e di quella particolare qualità del teatro che è “pensare per azioni”. Dunque si trattava di individuare alcuni dei dati emersi nel corso del convegno, e di sottoporli a un “trattamento” teatrale. Lingua del corpo, lingua della memoria, lingua delle radici, lingua dello spaesamento, lingua del fare…: cosa diventa “questa” definizione, ciascuna delle definizioni proposte, alla luce del lavoro teatrale, quali conseguenze, o trasformazioni, comporta un simile approccio.
Usare il teatro per vedere: vedere in azione alcuni principi, strutture di relazione, forme compositive o attitudini emotive, vedere e conoscere, per suggerire la forma più coerente alla elaborazione teatrale dei temi e delle storie nei quali tali principi, strutture, attitudini sono attivi, fuori dal teatro.
Un lavoro circolare, si potrebbe dire, dove l’oggetto d’indagine diventa strumento per la sua elaborazione formale, e viceversa; circolare, ma non vizioso, perché tutto passa attraverso un attento lavoro di pulizia dello sguardo e messa a punto degli strumenti.
Almeno nelle intenzioni, e nella metodologia di lavoro.
Questo per me significava continuare, attivamente, le riflessioni di quei giorni. Con una ulteriore specificazione: che mi sarebbe piaciuto continuare qui, cioè in Friuli, questo lavoro, e possibilmente con persone del posto.
 
Così, quando Angela Felice e Mario Brandolin mi hanno proposto una formula più corposa con la quale partecipare al convegno in programma per il 2000, ho proposto un laboratorio di scrittura drammaturgica, avevo un tema molto ampio e un’immagine – titolo molto precisa. L’immagine era: Lingua materna (da Hannah Arendt , ma c’era anche la lingua succhiata col latte materno, di dantesca memoria) e il tema era: la memoria di lingue perdute, superate, dimenticate, sognate… e la loro efficacia nel nostro “parlare” quotidiano. In definitiva, non si è mai capito bene se il titolo, fra laboratorio e relazione al convegno, fosse La lingua materna o La lingua e il presente della memoria.
Va bene così, nella mia ricostruzione uno è diventato titolo e l’altro sottotitolo, o meglio: titolo e movimento.
A proposito di ricostruzione: devo ringraziare Anna Gubiani, mia allieva a Milano, prima che partecipante al laboratorio di Udine, i cui appunti mi hanno permesso di ripercorrere le diverse fasi di lavoro.
 
L’altra indicazione per il laboratorio era quella relativa ai partecipanti: mi sarebbe piaciuto lavorare con attori della regione.
Il motivo si dovrebbe dedurre dalle premesse; in più, quando lavoro “lontano da casa”, mi piace pensare che il luogo che mi accoglie non sia solo una sede produttiva, ma anche un terreno di relazioni umane intrecciate in un preciso territorio geografico e culturale.
Attori, dicevo, e non aspiranti scrittori; per molte ragioni , ma soprattutto perché nei miei laboratori i partecipanti, più che destinatari o fruitori, vengono invitati all’azione come i veri portatori (“veri”, relativamente alla concretezza dell’incontro in questione) dell’esperienza da indagare, e soprattutto come i referenti, o meglio, i depositari, i veri detentori degli strumenti di lavoro: lavoro sottoposto poi a una formalizzazione su principi drammaturgici.
 
Un laboratorio di drammaturgia
 
Oggi sono numerose e piuttosto differenziate le esperienze di laboratori
di scrittura: dico di scrittura e non di drammaturgia, perché a prevalere sono indubbiamente i corsi o laboratori di scrittura creativa.
Scrittura creativa: narratologia, racconto di sé, educazione all’osservazione, strutture compositive, generi, riscritture….
Scritture per la scena e per il cinema: soggetto, trattamento, dialogo, sceneggiatura, monologo, narrazione, conflitto, plot, strutture e funzioni drammatiche, meccanismi; come si legge e come si declina un racconto per la rappresentazione, l’adattamento e la riduzione, il montaggio, e ancora esercizi, strutture compositive, generi e riscritture…
Laboratori teatrali, corsi, seminari, workshop.
Prevale, genericamente, l’idea di una pedagogia artigianale, dove si impara facendo, a metà fra il tirocinio di bottega e la simulazione d’opera.
Poi il laboratorio diventa anche sinonimo di processo produttivo, un processo nel quale si esplorano progressivamente strumenti e ipotesi di formalizzazione, ma si conoscono anche le attitudini e le competenze di singoli partecipanti.
Nella sua dimensione d’arte il laboratorio è un luogo di ricerca “protetto” rispetto alle esigenze di produzione, dove il lavoro su un oggetto è contemporaneamente, lavoro su di sé ed esplorazione dell’oggetto, l’oggetto diventa strumento per il lavoro su di sé , e il lavoro su di sé è strumento per la messa a fuoco dell’oggetto.
Quando dico lavoro su di sé, l’intendo nell’accezione “competente” del termine, un sé competente, in questo caso si tratta di competenza teatrale, già definita o da costruire, ma sempre quello che mi interessa, in questo processo artigianale, è il “soggetto artigianale”.
Un laboratorio teatrale, dunque, è un luogo, una situazione, dove si trasmettono tecniche, in genere da “maestro” ad allievo, si simulano processi creativi e modalità produttive, si esplorano potenzialità del gruppo di lavoro e del tema concordato, si fa esperienza di relazione e composizione, dentro una forma teatrale. Nella mia pratica, la domanda di fondo che percorre l’esperienza dei laboratori è il rapporto fra lavoro d’attore e scrittura drammaturgica. Si tratta di un percorso pedagogico e di ricerca formale basato sullo scambio di saperi (in particolare le diverse maniere di intendere – e nominare – le varie fasi, funzioni e strumenti nel processo di formazione, interpretazione e creazione teatrale) e l’individuazione di nuclei di ricerca che accomunano drammaturgia d’attore e composizione scenica.
 
Problemi terminologici: lingue teatrali a confronto
 
Quando si fa un laboratorio con attori, o si trasmettono esercizi e regole, o si fa esperienza, dentro esercizi e regole, di una particolare poetica; oppure si creano e declinano esercizi e tecniche in base alla qualità e finalità del gruppo e alle domande del tema affrontato. In ogni caso ci si confronta con il problema del linguaggio, o, più semplicemente, della terminologia: ogni scuola, ogni pratica scenica, ogni poetica sviluppa un proprio linguaggio e – aldilà della fisiologia del corpo dell’attore e delle funzioni riconosciute della letteratura drammatica, – le “discipline” della pratica scenica, la maniera di individuare e “lavorare” le diverse fasi del processo creativo, dalla formazione all’interpretazione, dalla composizione alla esecuzione, sono sempre il risultato della sintesi o sovrapposizione fra campi d’azione e sfere di significato diversi. Sono sempre almeno due i territori che si toccano e si compenetrano nel nominare lo specifico “fare scenico”: composizione e comportamento, partitura fisica e precorso emotivo, personaggio e attore…struttura e invenzione, metrica e respiro, fisiologia e retorica, segno e impulso, sintomo e intenzioni, voce e figura….
 
A volte è il linguaggio registico a improntare il lavoro dell’attore, a volte le scuole, con le loro materie e discipline, in ogni caso ogni poetica comporta una propria articolazione tecnica o almeno un linguaggio tecnico. Così accade che diventi molto difficile intendersi con precisione su compiti e strumenti, quando si lavora con attori di diversa formazione, soprattutto se si cerca la precisione nel dettaglio, come territorio di confronto e conoscenza. Sulla interpretazione – sui risultati – c’è un’evidenza radiante che restituisce il percorso, ma dove c’è una difficoltà, la voglia di costruire assieme, di creare testo scenico o verbale organico, senza appiattire le diversità, allora, in mancanza di una precisa codificazione del linguaggio teatrale, il lavoro sul dettaglio diventa palestra di attenzione, percezione e consapevolezza, anche linguistica, del proprio fare. E’ la necessità di formalizzazione che impone di precisare il linguaggio e con esso la padronanza degli strumenti del lavoro.
Che cosa stai facendo, mentre “lavori” un testo, quando improvvisi? Come si fa a consegnare ad un altro un compito dato, come esplorare e controllare le strutture compositive? Quando devi correggere, rifare un’azione, dentro uno un preciso sviluppo narrativo, o una rigorosa logica fisica, cosa tieni fermo, cosa modifichi, e questo, che conseguenze porta?
Domande enormi, nelle quali rischiamo di perderci, ma che si possono esplorare, e conoscere nella loro complessa articolazione, dentro un piccolo dettaglio narrativo, un esercizio, una relazione dinamica.
 
Dunque, iniziando, si dovrebbe dire: un laboratorio di drammaturgia con attori e non per attori. (Fra gli iscritti al laboratorio di Udine, undici sono attori e attrici di diversa formazione e pratica, due provengono da scuole di scrittura (teatrale e narrativa); una partecipante proviene dall’esperienza di traduzione, una dall’area dell’animazione teatrale. C’è poi uno studente liceale, fresco di impegni teatrali, e un giovane autore. Continueranno l’esperienza, da gennaio a maggio, 10 partecipanti: otto fra attori e attrici e le due “allieve drammaturghe”.)
In particolare, nel corso degli anni mi si sono presentati e messi a fuoco alcuni nuclei di lavoro che ritengo fecondi, anche in questo particolare incontro di lavoro. Penso al rapporto fra sviluppo narrativo e logica delle conseguenze, nell’azione scenica; alla complessa articolazione del soggetto d’azione fra personaggio, figura, emblema.
Vorrei che riflettessimo, nel solco della lingua materna, sul rapporto fra autobiografia e rappresentazione. Drammaturgia dell’esperienza, con questa immagine sono iniziate le mie esplorazioni nel campo della scrittura teatrale: ecco, l’immagine e il suo ruolo nel sistema delle presenze. Esperienza dello sguardo e scrittura.
Così, in uno schizzo un po’ scarno e perentorio, i dati essenziali della mia introduzione al corso e ai corsisti.
Da questo momento dovranno lavorare loro, a me il compito di suggerire immagini e mettere a fuoco processi e proposte.
 
Domande (banali) e punti di vista per avvicinarsi al tema
 
Partiamo dall’osservazione teatrale, cerchiamo esempi di teatro ‘in lingua’, teatro in vernacolo, in dialetto, teatro in prosa, teatro di poesia. Ciascuno provi, dall’esempio, a ricavare le caratteristiche del teatro (genere?) in questione.
Quando e dove, in quali occasioni, abbiamo visto questi esempi di teatro?
Abbiamo mai usato il dialetto, o il gramelot o una koinè o una lingua inventata, nella nostra attività teatrale, per nostra scelta, per necessità, per scommessa, per convenzione….
E poi, la domanda più banale: abbiamo mai visto uno spettacolo in lingua straniera, abbiamo mai recitato “in lingua straniera”.
Quand’è che uno spettacolo è “in lingua straniera”?
– Rispetto al pubblico: quando gli spettatori parlano una lingua diversa dagli attori in scena?
– Rispetto agli attori: quando gli attori in scena parlano una lingua diversa dalla propria? Quando parlano una lingua diversa da quella dei personaggi?
– Rispetto all’autore: quando si parla in scena una lingua che non è quella originale dell’autore, e della sua opera? Cioè, quando l’opera è tradotta?
 

Domande banali, che accompagnate da esempi semplici, ai limiti dell’aneddoto, portano allo scenario del teatro come costante esercizio di traduzione, o comunque di incrocio di linguaggi.
In questa accezione l’interprete è, anche sulla scena, colui che traduce: diverso in questo dall’esecutore che realizza una partitura e dal performer che decontestualizza o ricontestualizza azioni e paesaggi quotidiani, diverso anche dall’attore “santo” di grotowskiana memoria, che compie un atto di verità radicando i segni di una vicenda esemplare, poetica e umana, nella struttura elementare dell’organicità.
Da un linguaggio all’altro, l’interprete cerca il segno più “proprio”(personale e pertinente) per esprimere, tradurre, rendere visibile ( comprensibile) un’esperienza.
La traduzione fisica ( di un’emozione, di un’intenzione, di una vicenda) è sulla scena il banco di prova della competenza dell’interprete.
A volte è come se l’attore parlasse due lingue simultaneamente, una col corpo e una con le parole: più le due lingue si allontanano e più abbiamo la sensazione dell’inadeguato, dell’esotico, o dello sperimentalismo fine a se stesso. A farne le spese, oltre all’attore, è il testo: pensiamo a tante realizzazioni di teatro in versi, così lontano, a volte, perché così inopportunamente affidato al solo esercizio verbale, come se parola e passo non muovessero dallo stesso corpo, dalla stessa qualità di respiro….. Come se la lingua potesse essere viva senza portare traccia di esperienze sensibili, di un rapporto fisico con il mondo delle azioni, delle attività e delle esperienze.
 
Da qui, dalla questione della consapevolezza, che si impone attraverso semplici osservazioni da artigiani, nasce il primo parallelismo fra pratica teatrale e riflessione sulla lingua.
La lingua come luogo di esperienza, la lingua come traccia che ci restituisce l’esperienza di un luogo, come memoria di azioni, gesti, legami che ti legano a una comunità di sentimenti e opere, di persone e terre, a un immaginario comune.
Da qui, anche, la necessità per un attore di usare parlare una lingua attraverso la quale attivare memoria, associare, giocare, creare.
Allora la domanda non è più: quand’è che uno spettacolo è in lingua straniera, ma quand’è che un attore è in esilio, quand’è che parliamo la lingua degli esuli.
 
Da questo primo scambio di impressioni passiamo a una riflessione sui dialetti della scena teatrale.
Il procedimento è lo stesso adottato in precedenza, in questo caso, però, siamo aiutati dalle relazioni del convegno del ’99.
In particolare, dal mio intervento, riprendo la riflessione su:
– La lingua dell’attore nell’esperienza del terzo teatro
– La lingua delle prime esperienze, quella che ti riporta alle prime esperienze del mondo, la fisicità della lingua come rapporto con il mondo.
– Il dialetto come lingua del piccolo realismo e della facile caratterizzazione comica.
– Il dialetto come nostalgia e ripiegamento verso una dimensione perduta, il dialetto come risposta a un uso “basico” della lingua italiana, il dialetto come aggancio per un parlare “materico”, la lingua degli artigiani, del lavoro, delle cose…
– Il dialetto come sperimentazione linguistica , un altro ritmo, un’altra attitudine fisica, un’altra modalità di relazione, rispetto alle convenzioni del teatro di prosa.
 
Non ci interessa la memoria come nostalgia, ci interessa la memoria come efficacia nel presente, qualcosa che crea delle conseguenze sul tuo agire fisico presente, rispetto agli altri.

Brecht: “Il mondo di oggi può essere descritto agli uomini d’oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che può essere cambiato.”
 
Le parole sono azioni, e in nessun altro luogo questo è evidente come a teatro: hanno delle conseguenze nella realtà e la scena è il luogo in cui è possibile fare esperienza, di questa incessante reciprocità, come in un laboratorio in cui si verifica il rapporto attivo fra
lingua – immagine – memoria – fisicità – azione.
 
Materiali sul tema
 
Passiamo alla lettura di alcuni materiali sul tema proposto, materiali come immagini d’arte e di sentimento; improvvisazioni sul tema, si potrebbe dire, da comporre e scomporre, come in un montaggio per analogia.
Ma anche qualche indicazione di metodo, e prese di posizione ideali.
 
Cominciamo, come già dichiarato, da Hannah Arendt.
 

(segue citazione da Hannah Arendt, La lingua materna, Mimesis, Milano, 1993)

 
Nessun commento, semplicemente sottolineiamo alcuni passaggi:
– Una dimensione di pensiero plurale;
– La creatività amputata, nell’impossibilità di usare la lingua materna;
– Non ci sono alternative alla lingua materna;
– L’agnizione passa attraverso la lingua.
 
Procediamo con Heiner Mueller.
 

(segue citazione da Filottete di Heiner Mueller, in Teatro, Ubulibri, Milano, 1984)

 
Anche in questo caso, rileggiamo alcuni passaggi:
– la lingua del fare, con cui dare compiti agli altri;
– la lingua odiata, volontà di cancellare il suono del tradimento;
– da chissà quanto tempo non la sentivo ….
– l’identità è nella relazione;
– la solitudine è l’essere costretti a sentire solo la propria voce;
– “Vivi, poiché hai una voce”, la vita si misura in parole, finché parli resti in vita (Sherazade);
– la vita si consuma in parole. “hai ancora tre parole da dire: dille!”
– strappare la voce è uccidere;
– la lingua come luogo dell’identità e della menzogna.
 
Un pensiero a Jean Genet.
 
“Scrivendo, lei non si rivolge agli altri?
Mai. Probabilmente non ci sono riuscito, ma è il mio atteggiamento nei confronti della lingua francese, che ho voluto forgiare nella forma più bella possibile, il resto mi era del tutto indifferente.

La lingua che conosce meglio o la lingua francese?
La lingua che conoscevo meglio, sì, evidentemente, ma anche la lingua francese, perché è quella nella quale sono stato condannato. I tribunali mi hanno condannato parlando francese.

E lei voleva rispondere a un grado superiore?
Perfettamente. Ci sono forse delle motivazioni più sotterranee, ma in definitiva intervengono poco, almeno così credo.”

(Jean Genet, Conversazione con Hubert Fichte, Ubulibri, Milano, 1987)

 
Identità, diversità, menzogna: un saggio, da tutt’altro territorio Vandana Shiva e le monocolture mentali e ambientali.
 
“Conservare la diversità è prima di tutto produrre alternative, ovvero tenere in vita forme alternative di produzione. Salvaguardare i semi nativi è meglio che garantire le materie prime all’industria della biotecnologia. I semi ora in via di estinzione portano con sé i semi di un altro modo di pensare la natura, e di produrre per le nostre necessità.”
(…)
“La diversità è un’alternativa alla monocultura, all’omogeneità e all’uniformità. La diversità vivente della natura corrisponde alla diversità vitale delle colture, e la diversità è fonte di ricchezze e di alternative”.
(Vandana Shiva, Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino, 1995)

 
Fin qui, il primo blocco di materiali tematici, seguito da qualche indicazione di metodo, meglio dire di orientamento, nella ricerca del materiale.
 
Cerchiamo esempi di “lingua materna” (dialetti?) in una dimensione alternativa e non nostalgica.
Ricordiamo “i semi” di Vandana Shiva. Conservazione e custodia di una possibile alternativa;
Che cosa porta con sé un emigrante?
– Elementi del corredo, materia e strumenti per preparare il cibo, strumenti musicali.
– La conservazione di rituali come momento di elaborazione (o distruzione) della memoria.
 
Un’ultima indicazione: lo spazio.
Non c’è azione teatrale efficace se non c’è consapevolezza dello spazio di relazione in cui ci si muove; non c’è pensiero teatrale se non sei permeabile allo spazio in cui ti trovi.
Oggi il riferimento allo spazio è particolarmente importante, soprattutto se lo mettiamo in relazione ai “non luoghi” del nostro agire: il non luogo esiste solo in ragione delle sue regole, anche l’orientamento non aiuta, il comportamento è normato, omologato alla funzione dei luoghi.
Sono luoghi che non raccontano più nulla, aldilà della funzione conosciuta. E’ importante ritrovare elementi di orientamento, sistemi di riferimento e durata, se vogliamo aprire la memoria alla possibilità del racconto.

Luoghi della durata e luoghi dello sradicamento.
Ecco il Congiurato Renaud, che pensa alla conquista subdola di Venezia, in Simone Weil.
 
“Bisogna che questa notte e domani la gente di qui senta che non è più che un giocattolo, si senta perduta. Bisogna che la terra le manchi sotto i piedi, subitamente e per sempre, che non possa ritrovare equilibrio se non nell’obbedirvi. (…)Bisogna che domani essi non sappiano più dove sono, non riconoscano più nulla intorno a sé, non si riconoscano più. (…) Bisogna che tutta la loro vita sia mutata, la loro vita d’ogni giorno. Che sentano ogni giorno che non sono più a casa loro ma in casa d’altri, alla mercé d’altri; solo così obbediranno senza effusione di sangue. Altrimenti, si rassegnerebbero ad aver tutto perduto in una notte? Sarà bene che molte chiese, molti affreschi siano distrutti; sorgeranno al loro posto chiese di stile spagnolo. Vedendo senza tregua ciò che odiano, persino quando cercano Dio, si conosceranno fatti per obbedire. Bisognerà proibire assolutamente i loro canti, i loro spettacoli, le loro feste. Si invieranno i loro pittori e i loro musici alla corte di Madrid, ove saranno stimati. Bisogna che le genti di qui si sentano straniere in patria. Sradicare i popoli conquistati, è sempre stata e sempre sarà la politica dei conquistatori. Bisogna uccidere la città fino al punto che i cittadini sentano che un’insurrezione, anche fortunata, non potrebbe risuscitarla; allora si sottomettono. Le vostre volontà le vostre fantasie, i vostri sogni, debbono essere ormai per loro l’unica realtà. Voi sarete uno di quegli uomini di cui i popoli sono costretti a vivere il sogno.”
“Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui.”
(Simone Weil, Venezia Salva, Adelphi, Milano 1987)

 
Ed ecco il Canto alla durata di Peter Handke
 
“Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi,
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto.
E infine:
Felice chiunque abbia i propri luoghi della durata!
Egli, anche se venisse portato lontano
Senza prospettive di ritorno nel suo mondo
Non sarà più un esule. (…)
Resta vero:
La durata non è un’esperienza collettiva.
Essa non forma un popolo.
E tuttavia nello stato di grazia della durata
Finalmente non sono più io solo.”
(Peter Handke, Canto alla durata, Einaudi, Torino, 1985)

 
Prime indicazioni di lavoro
 
La cosa che più mi interessa al mondo è il processo creativo. Che razza di mistero è questo che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, di morire di fame o di freddo o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare, e che in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla…”.
(Gabriel Garcia Marquez, Come si scrive un racconto, Giunti, Firenze 1997)

 
Prima indicazione: Pensare a un luogo in cui collocare un’esperienza di “lingua materna”.
Seconda indicazione drammaturgica: con cosa fare reagire il tema scelto?
Dato un tema, indagarlo, approfondirlo in due direzioni: materiali testuali, memoria personale.
Cercare materiale aperto: immagini, pagine, situazioni che mi parlano del tema, e usarle per farle parlare.
Trasferire sempre le proprie emozioni in un “correlativo oggettivo”, individuare un particolare da cui riconoscere un a condizione, non siamo noi l’oggetto del nostro racconto!!!!
Terza indicazione: creare una situazione in cui il nostro tema entri in relazione (conflitto?) con un’altra storia.
 
Dobbiamo usare delle immagini che non ci mangino, fidarci, ma non accontentarci; chiediamoci perché un’immagine ci parla, che cosa è che mi parla, perché?
Esempio dell’ombrello da G.G.Marquez.
 
L’altro giorno, sfogliando un numero della rivista “Life”, ho visto una foto enorme, una foto del funerale di Hirohito. In essa appare la nuova imperatrice, la sposa di Akihito. Piove. Sullo sfondo, fuori fuoco, si vedono le guardie con gli impermeabili bianchi e, ancora più indietro, la folla con gli ombrelli, i giornali e dei teli sulla testa. Al centro della foto, in secondo piano, c’è l’imperatrice, sola, molto magra, completamente vestita di nero, con un velo nero e un ombrello nero. Ho visto quella foto meravigliosa e ho capito subito che lì dentro c’era una storia. Una storia che naturalmente non era quella della morte dell’imperatore, quella che raccontava la fotografia, ma un’altra: una storia di mezz’ora. Quest’idea mi è entrata in testa come un tarlo. Ho eliminato lo sfondo, ho completamente scartato le guardie vestite di bianco, la gente…Per un attimo ho fissato solo l’immagine dell’imperatrice sotto la pioggia, ma ho subito scartato anche quella. A quel punto non restava che l’ombrello: sono assolutamente convinto che in quell’ombrello c’è una storia.”
(Gabriel Garcia Marquez, cit.)

 
Immagine, memoria, emozione: l’inizio di un viaggio
 
Mia nonna è morta molti anni fa. Io l’amavo moltissimo , la mia educazione fino all’età di sei anni era toccata in gran parte a lei dato che mia madre lavorava. C’erano scarse, o nessuna somiglianza tra me e mia nonna, anche se naturalmente lei mi ha dato un po’ delle ossa e del sangue che ho, e le nostre mani si somigliavano un po’. Non molto tempo fa mi è caduto lo sguardo su una vecchia scarpa, del tutto logora, che aveva preso la forma del mio piede, e lì ho visto la forma, o l’espressione, del piede di mia nonna, come me lo ricordavo nelle pantofole da casa, o nelle scarpe di vernice nera coi tacchi bassi, che di solito portava per uscire. Mi sono ricordata di quando, a diciassette anni, in visita da mia nonna nel Texas durante una vacanza prima di cominciare l’università, ero andata con lei al cinema a vedere “Sogno di una notte di mezza estate”. (…) Mi sono ricordata la presa ben salda di mia nonna sul mio braccio, mentre raggiungevamo i nostri posti, e il suo tastare il terreno a ogni passo con i piedi, benché io l’avvisassi quando c’era un gradino. (….)E’ stato quando ho visto quella vecchia scarpa vent’anni dopo, che ho versato le prime vere lacrime per mia nonna, che mi sono resa conto per la prima volta della sua morte, della sua lunga vita, della sua assenza ora, e anche della mia morte che verrà. E’ a partire da emozioni di questo tipo che si scrivono dei buoni racconti, anche se io non ne ho mai scritto uno su questo episodio.”
(Patricia Highsmith, Come si scrive un giallo, minimum fax, Roma 1998)

 
Il frammento si accontenta, il lavoro consiste nell’individuare (e rendere visibile) il legame fra diversi frammenti, per fare questo è bene entrare nelle cose attraverso un altro punto di vista, sempre, però mantenendo la consapevolezza del proprio percorso.
Mantenere la consapevolezza del proprio percorso: perché lo spettatore riconosca un gesto, bisogna che prima il dramaturg e l’attore l’abbiano riconosciuto.

Fondamentale è la fisicità dell’attore: ogni passaggio che noi nominiamo, è possibile capirlo, e realizzarlo, pensando per azioni, teatralmente, col corpo ….
 Fare reagire i materiali, cambiare punto di vista.
 
Alcune idee non si sviluppano mai per partenogenesi, ci vuole una seconda idea per metterle in moto. (…) Un altro racconto che per vedere la luce ha avuto bisogno di due germi di storia, è stato “The Terrapin”, un racconto che ha vinto il Premio Mystery Writers of America, ed è stato poi pubblicato in antologia. Il primo spunto era una storia che mi aveva raccontato un’ amica

Renata_Molinari




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