Le recensioni di “ateatro”: La Maria Brasca

di Giovanni Testori, regia di Andrée Ruth Shammah

Pubblicato il 10/04/2003 / di / ateatro n. 051

La Milano descritta con affetto e partecipazione da Giovanni Testori nella sua Maria Brasca (lo spettacolo che nel 1960 segnò il suo debutto come drammaturgo, regia di Mario Missiroli al Piccolo Teatro) da tempo non esiste più. I prati di periferia dove andavano a far l’amore la passionale ed esplicita Brasca e il suo ganzo Camisasca sono stati cancellati – fin dall’epoca del mitico Ragazzo della via Gluck – da case e fabbriche, e poi nobilitati dall’invasione del terziario avanzato; allo stesso modo, il proletariato orgoglioso e ruvido, gli operai e gli artigiani delle periferie, sono stati risucchiati dal boom, oppure spinti verso la marginalizzazione, e i loro valori travolti dalla società dei consumi.
Dunque il recupero della Maria Brasca passa inevitabilmente dalla nostalgia, dal rimpianto per un passato ormai lontano, per radici da tempo dissolte, recuperabile solo attraverso l’ironia. Del resto anche nell’originale non mancano le consapevoli sottolineature ironiche, che ricordano certe graffianti malinconie delle canzoni del primo Jannacci, portando il testo oltre l’ambientazione apparentemente neorealista.
Anche lo svolgimento di questa parabola laica (e all’epoca vagamente scandalosa) sull’amore e sul sesso rimanda ad alcune ossessioni del Testori più maturo. La sua Maria Brasca è una donna emancipata e libera (per certi aspetti in anticipo sui tempi), concreta e ricca di temperamento, in grado di prendere il suo piacere quando le aggrada; s’innamora di un bellimbusto del quartiere, il Camisasca, di qualche anno più giovane di lei (un Emilio Bonucci imbozzolato nel suo ruolo di finto duro, sbruffone e sfaccendato, ma in fondo assai più debole della sua grintosa amica); quando lui la tradisce per una ragazza più giovane e il suo sogno romantico e carnale sembra definitivamente spezzato, la Brasca sfodera le unghie: contro il parere di parenti e amici, monta un inaccettabile scandalo. Alla fine riuscirà a riconquistare il suo bello – anche se probabilmente dovrà mantenere vita natural durante, sopportando corna e prepotenze.
E’ proprio nella ricerca dello scandalo, nel giocarsi tutto quando tutto sembra perduto, quando ci si trova ad affrontare, soli con se stessi, il fallimento della propria esistenza, e quando in quel momento si sceglie di giocare contro convenienze, regole e convenzioni, che risiede uno degli schemi più tipici dell’opera di Testori. A dare spessore al personaggio è proprio la sua volontà di abbassarsi fino all’estremo, di andare oltre il limite: perché solo lì, dove trasgressione e ribellione diventano possibili e necessarie, solo nell’oscenità, e nella solidarietà che nasce dalla degradazione, diventa possibile misurare tutto il peso della condizione umana.
Scegliendo di allestire il testo nella stagione che celebra il ventennale del Teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah suggerisce una lettura metaforica: quasi una sovrapposizione tra il personaggio di Maria Brasca e la Milano attuale, tra la vergogna di una donna innamorata, che non ha più nulla da perdere, in un palazzone di periferia, e la Tangentopoli che sta travolgendo l’intera città.
L’adattamento e la regia smorzano il pathos tragico in un sorriso bonario e una nota a tratti sentimentale (come confermano le scelte musicali di Fiorenzo Carpi), mentre l’opzione realistica viene resa impossibile anche da cadenze dialettali vissute ormai soprattutto come note di colore. Lo scenografo Gian Maurizio Fercioni ha ambientato lo spettacolo in un cinema in disarmo, con i palchi di proscenio scrostati dall’umidità; l’appartamento dove vive Maria, con la sorella Enrica (una Carlina Torta assai efficace nel ruolo della casalinga madre di famiglia), il marito Angelo (Franco Oppini, ex Gatto di Vicolo Miracoli) e i nipotini, è situata – con una scelta un po’ macchinosa – al posto dello schermo.
Adriana Asti disegna una Maria Brasca di simpatico vitalismo, una donna consapevole tanto delle proprie debolezze quanto dei propri obiettivi, pronta a usare ogni arma per cancellare le prime e raggiungere gli altri, sempre in lotta con il proprio destino. Come gli altri personaggi della Maria Brasca, è sempre assai consapevole della propria dignità: pronta a gettarla sul piatto, quando serve, pronta a sacrificare il proprio buon nome, quello del suo amato e dei suoi familiari.
Non è un caso che il termine “dignità” ricorra così spesso. E’ una dignità affilata da un senso della giustizia e dalle ingiustizie subite, messa alla prova dal bisogno, covata fieramente nel fondo della propria coscienza. Una dignità dai molti, inafferrabili strati: da quello più esterno – il buon nome, quello che gli altri pensano di noi (che nel suo aspetto più degradato comprende la rispettabilità piccoloborghese) – al nocciolo più segreto, quello su cui ciascuno di noi fonda l’immagine di sé, e che la Brasca coraggiosamente rischia per amore .
Per questa dignità, i quattro umili protagonisti della Maria Brasca hanno pagato un prezzo: sanno dunque quanto vale e cosa significa perderla. Ecco, proprio la possibilità di pagare questo prezzo è uno dei tanti elementi che differenziano le Marie Brasche di ieri dai protagonisti delle Tangentopoli di oggi: c’è una differenza incolmabile tra la possibilità di essere immorali, rivendicata dalla Brasca con disperato orgoglio, e la difficoltà di dare una risposta al vuoto morale della Milano degli anni Novanta.

La Maria Brasca
di Giovanni Testori
Adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah
Milano, Teatro Franco Parenti

Pubblicato originariamente sul “manifesto”, 28 ottobre 1992.

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