Prima cittadino poi attore

Un incontro con Marisa Fabbri

Pubblicato il 04/01/2004 / di / ateatro n. 025

Livorno, Nuovo Teatro delle Commedie, sabato 3 novembre 2001 ore 18
Conversazione registrata e trascritta a cura di Cinzia Bellucci (manythanks!)
Nell’ambito degli incontri organizzati dalla Casa del Teatro di Livorno con sede al Nuovo Teatro delle Commedie dal titolo PROGETTO PER UN TEATRO STUDIO organizzati dal Comune di Livorno-Ufficio Politiche dello spettacolo e dal CEL-Teatro di Livorno, si sono succeduti tra ottobre e novembre una serie di incontri, conferenze e laboratori con i protagonisti della ricerca teatrale italiana e internazionale. Ha aperto il lungo calendario Il Living Theatre, “adottato” dal Teatro delle Commedie già dall’anno scorso con un laboratorio su Mysteries and smaller pieces; gli incontri sono proseguiti con Giulia Lazzarini sul teatro di Strehler con la proiezione della versione televisiva de La Tempesta e con Marisa Fabbri, grande interprete del teatro di Luca Ronconi e la proiezione della regia televisiva di John Gabriel Borkman da Ibsen.
SPAZIALIZZARE IL TESTO
Le Baccanti
Nel 1977 Marisa Fabbri è unica protagonista de Le Baccanti – progetto del Laboratorio di Prato di Luca Ronconi con l’architetto Gae Aulenti. Spettacolo per 24 spettatori dentro un’orfanotrofio spogliato di arredi: Marisa Fabbri interpreta Dioniso, Penteo, Tiresia, Cadmo, il coro dei Tebani e quello asiatico muovendosi tra le suggestioni di geometrie architettoniche, luci e ombre taglienti, specchi. La tragedia euripidea che mostra “il dio a venire” (Frank) diventa il labirinto dell’essere. Traduzione e adattamento da Euripide di Edoardo Sanguineti. Il poeta così ricorda lo spettacolo in un articolo su “Paese Sera”:
Peregrina tra due dozzine di fruitori eletti Marisa Fabbri per i vani dell’Istituto Magnolfi: dove le Baccanti euripidee sono mono-sceneggiate psicoticamente nella più clinicamente dionisiaca tra le interpretazioni possibili. Dioniso, sorretto da Dodds, è l’Es in tutto e per tutto, finalmente è uno dei iei ventitré compagni di questa antipsichiatrica via Crucis dopo la stazione dello specchio, in cui Penteo decifra Dioniso come il suo doppio e viceversa, mentre ci guardiamo la pluriattrice “contenitore” che si rovesca anima e corpo in un cunicolo zeppo di lettini da istituzione chiusissima mi mormora: “Ho capito adesso per la prima volta cos’è una tragedia greca”.
Marisa Fabbri Io studiai un anno il testo, sei mesi furono impiegati nella realizzazione ed uno lo passammo dentro l’orfanotrofio. Ronconi decise così quanti dovevano essere gli spettatori: chiamò l’assistente, Luca Conti, e gli disse: “Quante seggiole ci stanno nella stanzina?” E lui: “Maestro, ventiquattro”. La risposta fu: “Allora bisogna farlo per ventiquattro spettatori”. Ne avevano scritte di tutti i colori: cabale, simbologie… Tutto il mondo è venuto, erano ventiquattro operai o ventiquattro americani o giapponesi che si compravano la serata magari un anno prima (…) Luca Ronconi andava fuori dai teatri non perché gli piaceva tanto il Fabbricone o l’orfanotrofio di San Niccolò a Prato ma perché in quel luogo c’era già la costante del tema delle Baccanti: l’oppressione, quindi il luogo è il tema del testo. Non era una bizzarria: la sala presse del Lingotto di Torino, dove lì dentro per disgrazia sono rimaste schiacciate tante mani negli ingranaggi e molti sono morti sul lavoro, cosa meglio di quel luogo per far vedere la prima guerra mondiale. Karl Kraus dice ne Gli ultimi giorni dell’umanità che dopo quella guerra il senso della distruzione sarebbe entrato nella pace. Nel nostro secolo passato, il Novecento, se ne possono vedere le conseguenze. L’azione nella tragedia greca, come in Kraus, che è come una tragedia greca, afferma che là dove c’è stata un’azione ci saranno certamente delle conseguenze che entreranno nelle popolazioni, perché le azioni non si possono dimenticare. Allora quello che noi facevamo a Prato cosa voleva dire? Spettatore e autore sono contemporaneamente protagonisti, non esiste evento teatrale senza i due protagonisti. Ne Le Baccanti si lasciava la rappresentazione della tragedia greca: un’ara dove è sepolta Semele, la madre di Dioniso che partorisce dall’unione con Giove, il fulmine; si tolgono le tonache e gli spettatori non occupano più le posizioni di rimembranza classica, come ancora oggi si vede a Epidauro e Siracusa. Si va invece a vedere che cosa
ancora esiste di importante, di necessario, dentro la tragedia greca. L’attore deve attraversare la tragedia greca, non possiamo saltarla, proveniamo da lì. Il tema è l’oppressione, l’uomo agisce con il buon senso con la ragionevolezza e dichiara errata la nuova cultura che entra. Penteo dice: “E’ arrivato questo nuovo cantore da una terra estrema. o Tiresia”. Penteo rifiuta Dioniso e dice “Tagliamogli quei riccioli d’oro”. Ma la risposta è: “Lo amano ancora”. “Allora tagliamogli la testa”. Questa è la lotta tra il buon senso e la ragione. Dioniso aveva conquistato terreno. Quando Penteo e Dioniso si incontrano, Penteo nega il proprio irrazionale. Un mio collega attore Vittorio Franceschi venne e mi disse: “Mi piaceva tanto seguirti, Marisa, ma ad un certo punto quando tu dici: ‘L’ho visto e mi vedeva, mi ha trasmesso le sue orge’, io non lo so perché mi sono messo a pensare a quando ero bambino e giocavo in soffitta”. “Così deve essere”, dissi io, “perché è il tuo dionisiaco che scatta, ognuno ha il suo”. E mentre rispondevo, dentro di me pensavo: “Chissà cosa faceva in quella soffitta…”
Allora era il tempo, negli anni Settanta, di rovesciare quello che noi ci portavamo dietro da più di settanta anni nella comunicazione teatrale della società borghese dell’Ottocento. I testi per il palcoscenico dovevano compiacere la platea. Quando arrivò Ibsen successe la rivoluzione. Gramsci lo dice bene: fino al secondo atto le signore torinesi erano tutte d’accordo, perché pensavano che, in Casa di bambola, Nora se ne andasse di casa perché aveva un’amante e le signore tutte d’accordo. Quando cominciarono a scoprire che non era per un amante ma per la ricerca di una propria identità non lo accettarono e cominciarono a fischiare.
Io da attore-messaggero devo compenetrare dentro l’autore ma lo spettatore deve sapere anche il mio presente, il mio senso comune, mio inteso come individuo di una collettività, il senso comune e non il luogo comune. L’attore riflettente dello spettatore e dell’autore.
SAPER LEGGERE TEATRO
John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen, regia televisiva di L. Ronconi, 1982
Marisa Fabbri A Luca chiedono di fare un’edizione dello spettacolo per la televisione; lui che è un genio dello spazio e del tempo decide di partire dalla semplicità. Quale è la posizione che assumiamo quando guardiamo la televisione? Sprofodiamo nella poltrona. Allora lui mette un carrello, una macchina da presa sotto un praticabile a ferro di cavallo. Minimo movimento. Quello che ne Le Baccanti era un monologos qua è un dialogos. Ibsen è il re della scrittura dialogica. Lui è stato il più grande degli scrittori di dialoghi dopo Sofocle. Ronconi disse a me a Franca Nuti e Omero Antonutti: “Com’è una commedia?” La scena tra Ella e Gunhild dove parlano le due sorelle gemelle, Ibsen lo scrive alla 75a pagina. Lo spettatore sa prima però che quelle sono sorelle, perché lo scopre attraverso i movimenti di macchina da presa. La cosa principale era che lo spettatore “leggeva” la commedia, faceva il percorso minimale. LA MACCHINA DA PRESA SEGUE IL PERSONAGGIO. La grande passione era di invitare il pubblico a saper leggere una commedia a teatro, che non vuol dire: “Ah, come mi piace”, dando un giudizio alla fine del primo atto, come erano abituati gli antichi spettatori. Ma la commedia, o lo spettacolo, deve essere letto come si legge un libro. Questo è l’invito a noi attori a saper comunicare e allo spettatore a saper leggere il teatro nella sua rappresentazione. E’ il nostro sogno. Lo spettatore il più delle volte si annoia perché non sa leggere il teatro: guarda soltanto quello che succede ma non come succede.
Orazio Costa, grande maestro dell’Accademia, diceva “Non c’è bisogno a teatro di stupire con grandi scenografie e luci perché c’è una grande rivelazione in una battuta dopo una virgola”. Per cui quando iniziamo a leggere, leggiamo con la virgola, dentro di noi sentiamo il ritmo della virgola, il ritmo del testo. Noi non diamo il giusto valore alla scrittura.
Nella scrittura ci sono i segreti del testo, cioé il sottotesto. Il teatro è l’arte più difficile perché è tutta nel sottotesto. Dobbiamo capire perché quelle parole sono lì, perché – come diceva Ibsen – un personaggio entra alla terza scena e poi esce e rientra alla quinta. E’ importante conoscerlo non per il plot. Noi sottovalutiamo il testo teatrale.
LA TORTURA DELLA SPERANZA
Il dolore da M. Duras, regia di M. Avogadro, drammaturgia di A. Balzola
(prod. teatro Stabile di Torino-Teatro Carignano 2-14 marzo 1999)
“Viene spontaneo l’accostamento di questo testo della Duras con scrittori che di torture, reali e immaginarie, hanno parlato – Villiers de L’Isle d’Adam, l’uruguaiano Mario Benedetti – o registi e interpreti come il Living Theatre che quel dolore lo hanno presentato con una crudeltà che è inscritta innanzitutto nell’evidenza della sua presenza nel mondo. Un dolore che si manifesta come ferita aperta non ancora rimarginata, attraverso una scrittura impossibilitata a raccontare di più e oltre quell’essenziale e terribile verità che la follia del mondo ha prodotto. La Duras ha la capacità di rendere contemporaneamente concreto e assoluto quel dolore: la parola, rigorosa e inequivocabile, insostenibile, dà voce alle urla dei deportati di tutte le guere, alle vittime di ogni intolleranza, pregiudizio razziale e inquisizione, proiettando il ricordo in una dimensione che scavalca il tempo e la memoria storica dell’Olocausto. (…)
Come la scrittura della Duras è parte stessa del corpo violato, così la voce della Fabbri si rivela come un tracciato elettrocardiografico in costante oscillazione: comunica il senso estremo di una lotta senza tregua alla terribilità dell’attesa di una morte o di una vita attraverso un convulso vomitare di parole, quelle dette, quelle pensate, quelle impresse sul foglio della macchina da scrivere”.
(A. Monteverdi, La tortura della speranza in La maschera volubile, Corazzano (Pi), Titivillus, 2000)
Marisa Fabbri Andrea Balzola è un drammaturgo di prim’ordine, uomo intelligentissimo che stimo molto. Un giorno si parlò del pubblico che qualunque cosa vedesse anche in questi belli spettacoli applaudiva e usciva contento, e io dissi “Come si può fare perché loro prendano contatto con la tragedia o con la commedia con il senso dello spettacolo, cioé con il teatro che è prima dello spettacolo?” Lo spettacolo è infatto l’ultimo atto. Oggi se vai all’Argentina a vedere uno spettacolo di Ronconi senti dire “Che bello! Che bella regia. Che bravi attori” Ma del testo non parlano mai. Io gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa che li avrebbe fatti saltare sulola sedia e lui mi disse: Il dolore della Duras.
E’ un diario. La Duras, grande scrittrice francese, aveva il suo compagno in un campo di concentramento, Dachau, lei scrive questo meraviglioso libro in forma di diario, per sfogarsi. Tant’è vero che lei dice di non ricordarsi nemmeno di averlo scritto. E’ la storia di una grande attesa, questa è la tragedia dell’attesa, perché quando finisce la guerra dai campi di concentramento cominciavano a ritornare i prigionieri di guerra, e dai campi incominciava ad arrivare qualcuno. Lei vede arrivare un mostro, pelle e ossa.
Nella prima parte era difficile quest’attesa, ma quando lui ritorna nella seconda parte, lui non è più un uomo, ritorna un mostro. Tutti hanno letto Primo Levi, l’Olocausto. Ma nessuno forse per discrezione, aveva mai raccontato come stavano fisicamente quei prigionieri e lei descrive anche il modo di evacuare che non era più quello un essere umani, gli organi interni tutti spostati, il fegato…
Quest’uomo pur essendo una larva umana riesce a vivere a sopravivere. Ma la loro non era più una vita. Come ne Le Baccanti ho capito cosa era la tragedia greca, lì ho capito cosa è stato quel luogo da come lei descrive il ritorno del marito e mi sono spiegata perché Primo Levi si è buttato dalla tromba delle scale, lui che era un grande maestro, contentissimo di esistere. Una volta al presidente dei sopravvissuti di Torino, uomo dignitoso, dissi: “Ma lei presidente, non ride mai?” Lui mi rispose: “Io tutte le mattine mi sveglio e mi chiedo perché sono tornato” Ed in effetti loro sono rimasti tutti ancora là.
Questo dalla Duras si capisce molto bene. Sono stati psichicamente e fisicamente annullati, trasmutati in mostri umani, come se loro facessero parte di un’umanità “diversa”. Sono rimasti là. Mi ci voleva uno stomaco non indifferente però sono stata contenta di averlo fatto. Andrea ha fatto un gran lavoro di drammaturgia. La separazione tra attesa e ritorno. Ho partecipato a moltissime commemorazioni ma questo è stato un lavoro che ho fatto con grande gioia nella sofferenza, ho visto la platea irrigidirsi, piangere perché è autentica, ma anche io sono arrivata evidentemente all’autenticità, perché la mia coscienza è così dal punto di vista umano, io ho una buona etica e questo conta nella vita. Le cose non mi passano, le assorbo, questo aiuta l’attore ad essere, come diceva Brecht: “prima cittadino, poi attore”. Questa frase ha un significato profondo: noi viviamo nel presente, con tutti i dubbi che pone la realtà, conviviamo con le conseguenze del passato, anche senza fare previsioni del futuro dobbiamo essere sempre completamente presenti, non avulsi dalla realtà.

Anna_Maria_Monteverdi

2004-01-04T00:00:00




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