Verso le buone pratiche?

L'intervento all'incontro di Napoli

Pubblicato il 24/09/2004 / di / ateatro n. #BP2004 , 073

Devo dire che mi ha molto stimolato l’intervento di Franco D’Ippolito. Noi in questi giorni abbiamo avuto occasione di chiacchierare un po’ ma non avevamo concordato in maniera dettagliata i nostri interventi. Devo dire che – ma non ne dubitavo – da un lato apprezzo molto la concordanza della stragrande maggioranza delle cose che ha detto con quelle che andrò dicendo; in secondo luogo Franco mi pare finire – ovviamente con alcune sovrapposizioni – dove in qualche maniera inizia il mio tema, il mio intervento.

Devo fare alcune premesse, che mi sembrano importanti. La prima è sottolineare nuovamente la natura di questo incontro, già evidenziata da Lello Serao ma che mi pare necessaria: non si tratta cioè di un convegno nel quale vengono esposte delle “tesi congressuali”. Semplicemente sono stati chiamati degli organizzatori a formulare idee e riflessioni da leggere, lo devo dire con molta chiarezza, in chiave largamente dubitativa e quindi realmente aperte al dibattito; spesso anzi – è questa un’altra caratteristica che ritengo fondamentale dell’incontro – anche avanzate in maniera piuttosto “brutale”: per una volta forse abbiamo la possibilità di non trovarci in un contesto di difesa corporativa di un esistente a-priori da sostenere e giustificare di fronte all’istituzione, ma di poter realmente mettere in gioco pratiche e dubbi di un mondo che – se pure nominalmente condivide una koiné generale o generica – è nella realtà dei fatti molto più frammentato e frastagliato al proprio interno di quanto non amiamo pensare o far pensare. Nelle nostre chiacchiere di corridoio in queste situazioni la reale unità del nostro mondo spesso mostra il metallo che sta sotto la vernice della facciata: credo di conseguenza siano questi i contesti in cui le cose si possono dire con una certa franchezza della quale mi scuso all’inizio ma che ritengo sia fondamentalmente doverosa.

Il tema che mi è stato assegnato e che mi interessava di più affrontare è il tema del mercato per il nuovo teatro, laddove per “nuovo teatro” – in linea con le denominazioni ministeriali che rischiano di diventare in realtà delle prescrizioni ministeriali – faccio riferimento al settore dell’innovazione teatrale e quindi genericamente all’area del teatro ragazzi e del teatro di ricerca e sperimentazione: sapendo che gran parte di quanto dirò – anche se io provengo e lavoro nell’ambito del teatro ragazzi – è in larga misura forse più applicabile al settore del teatro di ricerca (nel quale da qualche anno opero in maniera più continuativa in termini di programmazione) perché ritengo che, sia pure con questa koinè che ho esplicitato all’inizio, esistano fondamentali differenze storiche fra i due settori, di collegamento con il pubblico e con l’ente locale, che non possono essere assolutamente essere poste fra parentesi all’insegna di una generica univocità artistica, di modi di produzione, di metodologie o di orientamenti culturali. Nel senso che indiscutibilmente, sia pure in una fase caratterizzata da una notevole contrazione e flessione, il teatro ragazzi ha di fronte a sé una dimensione di mercato più consistente di quanto non avvenga tendenzialmente per quella che genericamente possiamo chiamare “ricerca”. Diciamo quindi che le cose che dirò in linea di massima non saranno differenziate, nel senso che non introdurrò ogni volta le determinazioni d’oggetto, ma saranno più marcatamente riferite al teatro di ricerca.

Un’altra premessa fondamentale che vorrei fare è la seguente. Uno degli argomenti che inevitabilmente affronterò anch’io – e che però mi pare monopolizzino in maniera ossessiva e a volte quasi condizionante le nostre possibilità di immaginazione artistica ed organizzativa – è il tema dell’interlocuzione con il soggetto istituzionale a tutti i livelli: che sia il Ministero, che siano le Regioni, che sia l’ETI che siano gli Enti Locali territoriali, il problema in tutti questi casi è sempre quello della relazione di un mondo, una classe di operatori ed imprese, con un interlocutore istituzionale. Esiste però un altro ambito di discorso, che io ritengo essenziale e che a volte nella difficile relazione di dialogo o di conflitto che c’è per esempio fra le compagnie e le stabilità acquista una primaria importanza: quello della reale pratica organizzativa del nostro mondo, delle scelte e dei percorsi economici, vocazionali reali e concreti. Un tema che non ha un’importanza minore: anzi in molti casi io credo possa essere nel suo effettivo farsi, nella sua effettiva prassi, un elemento fondamentale anche per porsi in maniera più significativa in relazione con l’interlocutore istituzionale.

Il versante della politica – i temi dell’allocazione delle risorse, la vertenza sul valore reale del FUS, tutto l’ambito del complesso, confuso e cristallizzato passaggio Stato/Regioni – è evidentemente essenziale ed è quello, dicevo, che assorbe la gran parte del nostro tempo e del nostro interesse. La mia sensazione è oggi – e in questo mi allineo con l’area degli economisti più disincantati, non necessariamente a matrice neoliberista anzi molto spesso di scuola keynesiana – che il dato che dobbiamo avere ben presente (ed è il motivo per cui il tema del mercato acquista oggi un’importanza centrale) è che è totalmente inutile credere o sperare che nuove amministrazioni più illuminate di quella che sta demolendo questo paese possano in qualche maniera invertire in tempi rapidi, o anche sulla durata medio-lunga, l’andamento del FUS ed in generale dei finanziamenti sullo spettacolo. Cioè il quadro è questo, fondamentalmente, la coperta è questa. Il problema non è quindi continuamente e parossisticamente chiedere l’estensione di questa coperta, in una sorta di ecumenismo che non vede la realtà dei fatti, ma semmai porre continuamente – l’hanno detto Franco con riferimento all’ETI e Lello in relazione ai circuiti – il problema politico dell’allocazione delle risorse, cioè di come le risorse vengono ripartite e di cosa si intende per contribuzione alle attività culturali ed in particolare al teatro. Il problema della “coperta corta” implica un orientamento politico più generale relativo alle visioni alternative del sistema del Welfare e alla sua considerazione. In questo io ritengo che – nonostante le irritazioni che pare abbia suscitato a Bologna – sia un nostro potenziale alleato il Prof. Trimarchi (che io ritengo attualmente una delle teste più lucide, e certamente più dei teatranti, rispetto alle visioni sulle prospettive possibili di sviluppo del nostro mondo) nel suo sostenere il fatto che il teatro, la contribuzione al teatro, possa essere considerata come una necessità per il reale progresso del paese, per il futuro del paese. Il fatto quindi che la spesa per il teatro non venga considerata appunto come una spesa ma come un reale investimento che prima o poi torna.
Da questo punto di vista – ce lo siamo detto e ripetuto rispetto all’ETI e ai circuiti – la questione consiste nel porre continuamente al centro dei nostri discorsi, quasi a norma fondamentale dalla quale discendano le nostre pratiche (e io credo in fondo anche le nostre scelte politiche in senso più generale), il tema della ratio, del senso e della funzionalizzazione dell’intervento pubblico sul teatro. Finché ci limiteremo al contrario a giustificare investimenti a pioggia senza entrare in valutazioni che inevitabilmente condurranno il conflitto all’interno del nostro stesso mondo, ed in particolare dell’AGIS, noi non faremo politica per l’innovazione teatrale. Fin quando noi ammetteremo pacificamente – dimenticandoci per esempio di ciò che fu il progetto “Aree disagiate” – che l’ETI possa oggi definire programmi di sostegno al “teatro privato di qualità” e nel contempo esaurire le sue risorse nel progetto francese o nella gestione diretta dei suoi teatri senza assolvere minimamente alle funzioni ad esso istituzionalmente definite(1), noi non faremo attività politica ma ci limiteremo solamente ogni volta, in maniera un po’ corporativa e francamente inutile, a sostenere nei fatti una “notte in cui tutte le vacche sono nere“. Dobbiamo cioè iniziare, in maniera molto rigorosa e anche brutale, a definire i contorni del nostro mondo e a sottolineare il fatto che il teatro non è uno ma è molti, che il teatro d’innovazione è “altro” rispetto a molto altro teatro (non si tratta qui – non necessariamente – di determinazioni qualitative, ma di rischio e di valenza culturale).
Porre quindi in continuazione il problema della logica dell’intervento pubblico: con intransigenza, ma anche con la disponibilità – nel momento in cui si chiede equità e rigore nell’applicazione delle regole e dei parametri – a mettere in gioco la qualità in un contesto in cui il sistema deve essere rivisto, per riporre al centro dell’osservazione pubblica anche le rendite di posizione sedimentate e consolidate. (2) Io credo cioè che il sistema possa essere sbloccato e disingessato solamente se noi siamo disposti di principio – a periodi triennali, o anche sul medio/lungo periodo – a sottoporci (domani c’è uno spettacolo su Kant, quindi consentitemi la citazione) ad una sorta di “critica della ragione”, di “tribunale della ragione”, e a mettere in discussione le nostre qualità, i nostri numeri e le nostre rendite di posizione. Se così non è, il sistema è bloccato strutturalmente, non c’è possibilità di cambiamento. Le variazioni possono andare solo nella direzione di un impossibile allargamento della coperta: e se le nostre rendite di posizione sono ingiustificabili sul versante della qualità e del reale lavoro (e io ritengo che molto spesso purtroppo questo sia, anche all’interno dell’innovazione come giustamente diceva Franco) noi saremo complici di un ingessamento e di una mancanza di prospettive che alla fine opererà anche contro noi stessi.

Vorrei aggiungere altre due o tre premesse sgradevoli. Detto questo, e detto che l’istanza fondamentale è quella di porre al centro della riflessione e della pratica politica – dell’interlocuzione anche territoriale con gli enti locali, con le regioni – il tema del senso dell’investimento pubblico, esistono però alcune osservazioni che a mio avviso dobbiamo tener presente e che devono costituire una sorta di esame di realtà anche per noi.
Io non credo che questo tema possa essere facilmente recepito: il problema dell’interlocuzione istituzionale è essenzialmente quello della “sordità” dell’ascoltatore, cioè del suo orientamento politico complessivo; della necessità “conservativa”, in larga misura persino giustificabile, del mondo della politica – di qualunque parte – di non creare terremoti all’interno dei sistemi che gestisce, di mantenere quanto più possibile lo status quo anche a costo della conservazione di grandi sovrastrutture di iniquità. E questo non avverrà facilmente a meno che il mondo del teatro d’arte non riesca a trovare interlocutori reali che ne riconoscano, condividano e comprendano l’importanza: in quel palazzo lì, cioè nel palazzo e nei palazzi della politica.
Ma devo aggiungere subito, in secondo luogo, che non credo però che questo riconoscimento sia automaticamente implicito in questa o in quella parte politica. (3) Non lo è: questa o quella parte politica può avere orientamenti differenti rispetto ad una visione complessiva del welfare, cioè della spesa in generale per il pubblico ed in particolare per la cultura, ma non nel merito delle attività teatrali. Un qualunque interlocutore politico che non sia strettamente competente di teatro, per quanto aperto alla cultura in senso generico, non riuscirà mai a discriminare fra il nuovo teatro, il teatro privato di intrattenimento, il teatro ragazzi (normalmente considerato puro servizio funzionalizzato allo svago dei bambini) ecc.
Non illudiamoci, dunque, che tutto questo possa avvenire nel momento in cui ci fosse un – tanto auspicato per altri versi – cambiamento di direzione politica.

Il terzo punto – sgradevolissimo, ma necessario da affrontare una buona volta – è che io ritengo impossibile e sempre più evidentemente inutile pensare che una significativa vertenza in queste direzioni che sto cercando di definire, di individuare, possa nascere o essere condotta dall’interno dell’A.G.I.S. Cioè l’A.G.I.S. non è più il palazzo deputato alla vertenza per il teatro d’arte. L’AGIS in quanto tale può fare genericamente le vertenze che chiamo “à la Francesconi” (4) : noi non possiamo pensare di poter marciare su una linea di difesa del teatro d’arte insieme alle stesse persone che quel teatro, nella prassi quotidiana e al di là della genericità delle richieste e delle petizioni di principio sull’investimento pubblico, ostacolano e avversano quotidianamente.

Infine – pongo la questione in forma dubitativa, ma ritengo che in un contesto di grande franchezza, quale questo, vada comunque posta – io non credo più che una prospettiva genericamente corporativa o di settore, basata su una specie di autoreferenzialità autoinclusiva del nostro mondo (5) sia sensata: non è più sensata. Abbiamo all’interno del nostro mondo così auto-definito una quantità di dislivelli e di disomogeneità qualitative talmente clamorosa che la vecchia formula, che tante volte ci siamo ripetuti, della “quantità che riflette la qualità” o dei “parametri quantitativi indice dei parametri qualitativi” deve essere ampiamente relativizzata: ancor più nel momento in cui poi, nelle nostre litanie di corridoio, quello stesso mondo che noi in teoria dovremmo andare a difendere sindacalmente di fronte alle istituzioni lo definiamo fra noi “imbarazzante”, “scandaloso”, “filodrammatico” e chi più ne ha più ne metta. E questo valga – è un dato di questi giorni – anche (e ancor più) di fronte a compagnie finanziatissime e con numeri certo “sospetti” ma più che decorosi, almeno formalmente.
E allora, anche in relazione alla questione AGIS che ho posto in precedenza: io credo che se – non necessariamente in termini formalizzati – non facciamo un serio esame della possibilità di individuare fra noi delle affinità, delle forme di “scelta tra affini”; se non riusciamo ad introdurre delle forme di selezione e riconoscimento fondate strutturalmente (perché rimane vera a priori la domanda “chi selezionerà i selezionatori?”) sull’assunzione della parzialità del giudizio estetico ed artistico (in base alla quale ci si sceglie fra simili, che si riuniscono non per categoria ma per riconoscimento), io temo che quando un giorno andremo dalle istituzioni a chiedere di assistere ai nostri spettacoli rischieremo degli autogol clamorosi. Mettiamocelo in testa, lo diceva giustamente anche Franco: non possiamo continuare a difendere – anche internamente al settore dell’innovazione – tutti in maniera indifferenziata. Ed esistono valutazioni che non si riflettono e non sono inquadrabili nelle analisi quantitative ma che sono giustificabili solo in chiave qualitativa (6) : io credo che quest’approccio sia molto difficile da sostenere e da portare avanti, ma credo altresì che sia sempre più necessario. Perché la questione investe anche il senso profondo del nostro lavoro. Difendere a-priori una categoria, sostenerne acriticamente una qualità che è tale solamente nelle dichiarazioni di principio e nei sempre più rari nuclei di reale eccellenza del nostro mondo, rischia di vanificare anche profondamente il senso culturale del nostro lavoro.
Pongo tutto questo in chiave problematica: ma io non credo che noi potremo andare sensatamente dalle istituzioni a rivendicare un qualsivoglia primato di eccellenza, o una qualsivoglia patente di innovazione, finché andremo avanti con questo modello acritico in base al quale – direbbe Secchioni – “spuntano a grappoli i poeti”.

Quest’ultima annotazione mi consente di uscire dall’ambito della politica in senso ampio e di entrare un po’ più nel merito del tema del mercato.

In questa prospettiva, relativa all’orientamento sul Welfare ed in generale al FUS, il mercato acquista una primaria importanza perché diventa l’unica sorgente di autonomia possibile delle imprese. Un mercato che ha, è stato evidenziato a più riprese, delle dinamiche di sclerotizzazione assolutamente clamorose e che è in larga misura ingessato e che però è strutturalmente costituito sul giro. Non esiste un sistema di stabilità in Italia. E anche laddove le stabilità, come evidenziava Franco, hanno “fatto sistema” (in particolare nel caso delle stabilità pubbliche ma io credo anche in buona misura nel caso delle stabilità private), si tratta comunque di una sorta di sistema entropizzato, che mantiene le energie all’interno del proprio circuito economico in un circolo vizioso di circuitazione.
Il mercato però come dicevamo rappresenta una possibilità di autonomia delle imprese e di emancipazione dai tanti meccanismi di dipendenza dal sistema del finanziamento pubblico. Anche in questo mi viene in soccorso Trimarchi, nelle pagine in cui mostra i possibili elementi di relatività del vecchio “Teorema di Baumol” secondo cui in un mercato a stagnazione strutturale quale è quello dello spettacolo dal vivo la necessità dell’intervento pubblico è ineludibile. In realtà esiste, è visibile, l’esperienza virtuosa di tante compagnie, di tante strutture che non vivono di sovvenzioni statali e che riescono comunque a mantenere equilibri di bilancio ed economie non quantitativamente stratosferiche in valore assoluto ma caratterizzate da una sanissima composizione interna: ad evidenziare che probabilmente scelte economicamente, organizzativamente e produttivamente giocate su un mix essenziale fra scelta d’arte e razionalità è probabilmente possibile.
Il che non esclude, ovviamente, tutto ciò che ho detto prima, cioè che il fondamento di larga parte del nostro lavoro politico deve essere la vertenza per il riconoscimento del teatro d’arte: ma in un contesto di difficilissima interlocuzione ed incisività su quel versante allora bisogna capire cosa sia possibile fare su questo secondo versante, quello dell’autonomia. E qui il tema non è più quello della politica istituzionale ma quello delle “buone pratiche” di cui parlava Franco, cioè della prassi organizzativa e di come il nostro mondo – in particolare attraverso le stabilità di innovazione che pure avevano la funzione di diventare la “dorsale” del teatro di innovazione italiano – non sia riuscito in realtà in alcun modo, secondo il mio parere, a diventare sistema, a realizzare esattamente questo tipo di funzione. (7)
Nate con l’intento di costituire l’ossatura della circuitazione a livello nazionale, le stabilità della ricerca non hanno creato sul fronte della produzione, se non in alcuni casi sporadici, nessuno snodo di eccellenza, vanificando in larga misura la possibilità di fare sistema al proprio interno. (8)
Se sul fronte produttivo il dato è questo, sul fronte organizzativo c’era forse la possibilità – che è stata totalmente disattesa – di andare realmente a creare un sistema di rete fra poli di programmazione. Non è stato fatto. Questo è evidentissimo: è evidente nell’ambito del teatro ragazzi, che pure aveva un maggior attivismo maggiore per quanto riguardava le stabilità, ed è sempre più evidente – e con sempre maggiore accelerazione anche nell’ambito della ricerca – il fatto che le compagnie stanno imparando a costruirsi reti possibili da sole. Questo quadro di stabilità diffusa è un quadro che non nasce perché le compagnie “ce l’hanno su con i centri”, come spesso sembra dai nostri discorsi, ma perché i centri hanno lasciato, in questa ipotetica rete, tante e tali maglie vuote di possibilità di intervento, di declinazione coerente delle proprie vocazioni e di lavoro reale sul territorio che le compagnie per forza di cose hanno dovuto assumere il compito di assolvere funzioni di servizio, spesso addirittura socio-assistenziale-ricreativo-culturale in senso generico sui propri territori. (9)
E questo è il quadro che noi abbiamo di fronte adesso, che sta crescendo sempre di più e che va a denotare un sistema che in realtà è strutturato a maglie molto più fitte di quanto pensiamo, perché i bacini di programmazione curati dalle compagnie in relazione con l’ente locale sono tantissimi.

Ma il problema non è solo questo. Il problema consiste – nell’ambito di una valutazione del mercato – nel cercare di capire come questo “sistema”, in realtà, così com’è strutturato in quanto tale non sia un sistema. Non lo è in senso “moriniano” (10) , non c’è interrelazione fra gli elementi o i poli: si tratta fondamentalmente di un aggregato non-organizzato, sostanzialmente privo di reali flussi operativi o comunicazionali.
Elementi di sistema divengono invece possibili, secondo me, nel momento in cui vengano praticate politiche volte al tentativo di trasformare questo quadro in un reale circuito alternativo. Pratiche che stavano per altro all’origine del movimento del decentramento degli anni ‘70 che – ovviamente con tutte le dovute differenze – nasceva in un contesto simile, con un ente locale che evidentemente rispondeva molto di più alle sollecitazioni culturali ma con una altrettanto forte necessità di costruirsi il proprio mercato e andarlo a dissodare nei territori. Era veramente quella la prassi organizzativa delle compagnie in quegli anni.
Trasformare questo mercato in un mercato sostenibile: da un lato, come giustamente diceva Franco, tramite una razionalizzazione del lavoro delle compagnie anche sul versante produttivo (per esempio aggirando la sindrome di Baumol mediante l’introduzione di tecnologie che sostituiscano il capitale variabile all’interno della “merce/spettacolo”, riducendone i costi); in relazione a questo, occorre anche sottolineare la necessità che le compagnie si rendano conto di essere nella stessa barca economica di un sistema, adeguando le proprie scelte produttive alla sua consistenza reale, alle reali possibilità di coevoluzione con un’area dell’esercizio che ha limitate potenzialità economiche, senza sacrificare quindi le propria possibilità di lavoro e di vita ad un’iperuranica ricerca artistica, che è sicuramente legittima ma che altrettanto legittimamente rappresenta un suicidio (e non un omicidio degli “operatori assassini”, come sostenevano Fanny & Alexander in una loro recente lettera apparsa sul “ateatro”). Un’osservazione che evidenzia la necessità della ridefinizione di un patto di coevoluzione fra mondo dell’esercizio, mondo della programmazione e mondo delle compagnie. “Coevoluzione” è esattamente il rapporto che c’è tra l’organismo e l’ambiente: tanto si modifica l’ambiente tanto si modifica in adattamento l’organismo. Se ci sono sistemi separati dal punto di vista fisico-biologico, uno dei due necessariamente perde vitalità o comunque cessa qualsiasi sistema di flusso di dialogo possibile.

Un’altra area di confronto secondo me fondamentale per la difesa del mercato, questo lo dico in particolare per il teatro ragazzi ma anche per la ricerca, é una riflessione seria sulla necessità di difendere i repertori: noi ci siamo sempre accodati, vuoi per pressione degli insegnanti (per quanto riguarda il teatro ragazzi) vuoi per una scriteriata frenesia di novità; ci siamo sempre impegnati, al di là degli obblighi ministeriali, in produzioni annuali (fra l’altro basate spesso sulla necessità della “copertura” di fasce di età piuttosto che su vocazioni, scelte reali o urgenze artistiche) che hanno fatto sì che una caratteristica teoricamente strutturale del mondo del teatro e della produzione dell’ambito del teatro ragazzi – cioè la ricerca, che ha bisogno di tempo – in realtà sia sacrificata, e secondo me si vede negli esiti, alla necessità di una produzione a ritmi serrati perché il mercato vuole questo: ma i bambini escono da scuola! Questo non ce lo siamo mai chiesti: io non ho capito perché non posso tenere uno stesso spettacolo in repertorio dieci anni, ma non perché mi piace tenerlo lì ma perché ha possibilità reali di distribuzione. Uno spettacolo di teatro ragazzi oggi muore dopo due stagioni (forse perché le maestre lo hanno già visto).
La difesa di questo dato, badate, non è solo una difesa economica ma è una difesa qualitativa: se io fra una produzione e l’altra mi tengo la possibilità di fare ricerca in vista del nuovo spettacolo, ricerca seria, laboratori con i bambini, la vecchia ripresa della relazione col destinatario, io qualifico il mio lavoro e un intero settore. Se io considero il teatro ragazzi alla sola stregua di un mercato, allora il mio lavoro diviene puro servizio e divengono legittime, ahimè, a quel punto le confuse percezioni degli assessori che non riescono più a discriminare fra la compagnia amatoriale, che non paga i contributi ENPALS e si dà a 200 euro, e la compagnia professionale, che paga i contributi e ha dei costi reali, ha forse una qualità più alta ma rischia comunque di essere sempre più indistinguibile rispetto a quell’altra cosa.

Un’altra proposta/domanda che volevo porre, infine, si basa su una pratica che sto sperimentando in questi giorni, non tanto su spinta mia quanto su richiesta da parte delle compagnie: nell’ipotesi di rilanciare un circuito alternativo, di fare sistema in maniera reale, quasi formalizzata – personalmente credo molto nella formalizzazione – non è proprio possibile, vista l’ampia sovrapponibilità di molti dei nostri cartelloni, creare realmente una razionalizzazione di circuito in base alla quale, in tempi anticipati, i teatri (ed in particolare io penso a quelli a lunga tenitura delle aree metropolitane, perché rappresentano uno snodo non economico ma solo promozionale per le compagnie), si mandano fra loro una circolare in cui pongono in rete idee sugli spettacoli, discutono le rispettive scelte nel tentativo di creare un sistema di scala che razionalizzi piazze ed economie, riduca i costi ed aumenti la visibilità delle compagnie?
Io credo che questo sia possibile ed è una modalità relazionale ed organizzativa che, nella prassi delle scelte, può realmente facilitare la scoperta di un mercato sostenibile per le compagnie. Se io devo ospitare per esempio una compagnia pugliese a Milano, per due settimane, con un garantito da fame (perché questo posso offrire), sento che è quasi un’esigenza etica – e che mi previene, fra l’altro, la necessità dello psichiatra – cercare di trovare a quella compagnia altre repliche sul territorio, cercare di tentare direttamente o ponendomi in relazione con altri programmatori simili, o con cui ho affinità estetiche e di area. Quando in questo periodo dell’anno conduco le trattative con i gruppi mi sento davvero male: perché, per un verso, ho una quantità rilevante di vincoli economici e, nel contempo e per altro verso, mi rendo conto che se lo snodo promozionale che io posso offrire a Milano è sicuramente abbastanza rilevante sulla città di Milano per le compagnie, a volte, rappresenta o può rappresentare la vita.

Ora: io credo che noi abbiamo, per un fatto di declinazione reale nella prassi delle nostre vocazioni, due obblighi fondamentali: da un lato l’obbligo di effettuare scelte coerenti con il mandato che in maniera prescrittiva ci è stato dato dal Ministero, cioè l’obbligo di stare attenti all’innovazione e di non appiattirci sulla logica dell’intrattenimento e della gestione del tempo libero, o su cartelloni giocati quasi essenzialmente sull’autoprogrammazione e quindi su un modello di stabilità parossistico e che toglie conseguentemente mercato alle compagnie; da un altro lato, io credo che faccia parte della nostra funzione il cercare di dare alle compagnie quanto più promozione e quanti più servizi è possibile.
E in questo senso allora forse le stabilità di innovazione – in collegamento virtuoso e di coevoluzione con i gruppi e soprattutto con l’area della stabilità diffusa – possono divenire sistema e costituire realmente circuito. Visto che i circuiti, che pure dovrebbero, non lo fanno – e questa è materia di battaglia politica – dobbiamo costruire noi il sostegno all’innovazione e alla promozione. E uno dei modi possibili è il coordinamento organizzativo, formalizzato e centralizzato o meno; quella razionalizzazione che dovrebbe rappresentare un dovere per le nostre imprese, perché crea economie – in uscita come in entrata – e al contempo rappresenta la declinazione coerente di funzioni istituzionali e culturali della nostra area.

Entro questi limiti, e cioè con la creazione di meccanismi di circuitazione e di coordinamento giocati sulla scelta fra affini, giocati sulla relazione con le compagnie, sul declinare coerentemente le proprie vocazioni e sul relazionarsi da pari con le cosiddette stabilità leggere (o compagnie stabili, o enti teatrali territoriali, chiamiamoli come vogliamo), io credo che si possa allora rfestituire una profonda dignità – da verificare sul campo e nella storia (perché è vera la storia sul sistema escogitato da Paolo Grassi e Ivo Chiesa in difesa del teatro d’arte) – anche ad un certo sistema degli scambi: perché lo scambio, sulla carta, non è altro che il riconoscimento, in entrata ed in uscita, dell’eguale dignità qualitativa di due prodotti, non è altro; non è un modello che implica logicamente o necessariamente la degenerazione in quello che poi è accaduto nella realtà del teatro italiano, cioè l’automatismo. E io credo che un progetto che voglia veramente diventare sistema, in fondo in fondo, debba riscoprire forme elastiche e coerenti di protezionismo di area, ed essere giocato anche sul ridare dignità e valore alle reciprocità fondate sulla qualità.

Probabilmente sono ingenuo. Ma secondo me realmente è possibile buttare lì piccoli semi di cambiamento sul sistema. Io non credo che siano possibili trasformazioni epocali e soprattutto, come ho già detto, ritengo improbabile che si possa – rispetto all’interlocutore istituzionale – cavare oggi, ma anche domani, molto di più che un ragno dal buco.

A meno che non si tenti di tutelare nella prassi una fisionomia che nel farsi sistema mostra la propria potenziale autonomia, e quindi il proprio essere possibile controparte, e quindi una dignità nella rivendicazione che sia insieme estetica, progettuale ed organizzativa.

NOTE

1 Una funzione che dovrebbe consistere nella promozione del pubblico, nel riequilibrio delle attività teatrali, nel sostegno all’innovazione e al valore culturale del teatro e che viene al contrario declinata nella sovvenzione ad un teatro che, dal punto di vista della valenza culturale, si è in realtà in questi anni (sia pure nel valore che possiamo attribuire alla tradizione) estremamente diluito nella dimensione del puro intrattenimento e che proprio per questo ha una significativa risposta di botteghino e che proprio per questo ha assunto livelli economici di mercato e di circuitazione insostenibili, incentivando e fomentando uno “star system” all’italiana totalmente ingiustificabile dal punto di vista dell’investimento e della spesa pubblica.

2 E’, questo, un altro tema caro al Prof. Trimarchi: un capitolo delicato, “su cui gli angeli esitano”, difficilissimo da affrontare ma prima o poi ineludibile.

3 Un dato, questo, frequentissimamente sottolineato per esempio nel sito di Oliviero Ponte di Pino (ed in particolare nei forum, anche se a volte anche in maniera un po’ qualunquista, sia pure comprensibilmente).

4 Una terminologia ancor più giustificata dall’esito della recentissima “vertenza spettacolo”: una litania di petizioni di principio genericamente orientata all’incremento di spesa sullo spettacolo, soste

Adriano_Gallina

2004-09-23T00:00:00




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