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La conclusione di Teatro provincia dell’'uomo

Pubblicato il 09/01/2005 / di / ateatro n. 079

E’ difficile riconoscere un prima, un momento precedente in cui magmaticamente coesistevano tutte le espressioni che avrebbero successivamente dato vita al teatro come imitazione, alla maschera, ai generi teatrali. Il riso era la forma privilegiata di questa esplosione, che tornerà nella “commedia” come speranza utopica, come nostalgia di un mondo perduto.
Guardare all’indietro comporta necessariamente uno sguardo sulla realtà vivente. E’’ difficile capire il senso del riso nella sua forma più arcaica, tantopiù il senso della sua perdita, se non si ha chiaro l’essere del riso nella società presente.
Se è vero, come dice Aristotele, che l’’uomo è l’unico animale che possiede la proprietà del riso, dobbiamo riconoscere che da tempo essa si è estinta, rendendoci uguali a tutti gli altri animali. L’affermazione di Aristotele conduce a una tragica constatazione. Se infatti è vero che solo l’uomo ride è altrettanto vero che solo l’uomo è intelligente. Se dunque riso e intelligenza sono qualità essenzialmente umane vuol dire che l’uomo è tale in loro virtù, e non solo: che le due virtù devono avere tra loro una relazione, per cui si ha riso dove c’è intelligenza e si è intelligenti solo se si è capaci di ridere. La perdita di una delle proprietà comporta inesorabilmente anche la perdita dell’altra; la perdita del riso non può non accompagnarsi automaticamente alla perdita della intelligenza. Se “la concezione del riso”, come nota giustamente Bachtin, “può essere caratterizzata preliminarmente e sommariamente in questo modo; il riso ha un profondo significato di visione del mondo, è una delle forme più importanti con cui si esprime la verità del mondo nel suo insieme, sulla storia, sull’uomo; è un punto di vista particolare e universale sul mondo, che percepisce la realtà in modo diverso, ma non per questo meno importante (anzi forse più importante) di quello serio”. Ora l’epoca attuale è segnata da una forte contraddizione: avendo separato il riso dall’intelligenza, ritiene che l’uomo che non ride sia il risultato più alto del processo di conoscenza, potere e inventiva. Del resto non è stato l’uomo stesso a privarsi del riso nella sua ascesa divulgando il detto che risus abundat in ore stultorum? Non sono partoriti dallo stesso disprezzo l’odierno politically correct, che smorza ogni risata, e l’esaltazione del riso-farmaco, in cui naufraga l’antica arte del clown?
La maschera, al di là di convenzionali distinzioni di genere (tragico–comico), non può essere dissociata da una condizione: l’epifanìa. Che questa avvenga per strada in una processione o durante un carnevale, nel segreto di un rito o sul palcoscenico di un teatro ha poca importanza. L’epifania non può essere casuale né imposta dalla consuetudine. L’epifania è tale per necessità.
Ananke fa esplodere nel grembo della Notte Fanes, facendo il cupo cielo stellante di fuochi . “Sia la luce” tuona Javhè davanti alle tenebre dell’’abisso. L’’epifania è forma predestinata. Gli Orfici e l’autore della Genesi convergono in una comune mitopoiesi.
Tra le innumerevoli perdite della società contemporanea c’è anche quella di Ananke e quindi la rinunzia ad ogni epifania. Se così è, non solo il riso ma anche la maschera è da tempo scomparsa dal nostro orizzonte.
La maschera nasconde nelle proprie cavità le paure umane, l’angoscia di esistere, i mostri che dominano la vita, i terrori degli imponderabili eventi naturali. Potremmo dire che la maschera raccoglie in sé e rende visibile tutto ciò che sfugge al controllo dell’uomo. La sua epifania dunque si connette alla necessità di dare forma al terrore che non si conosce, nella illusione che essa sia sufficiente a superare l’angoscia di vivere senza sapere perché. Secondo le diverse mitologie le forme di tali terrori cambiano, ma mantengono una costante: appartenendo a quanto non è umano, non hanno nulla in comune con i lineamenti dell’uomo e sfuggono alla conoscibilità come al controllo umano. Una rivoluzione è in quanto documenta il cratere di Prònomos, dove accanto alla “mostruosa” maschera del satiro compaiono le maschere dell’uomo, distinte per rughe, per la condizione dunque di mortale soggetto al dominio del tempo. L’importanza di tale rivoluzione sta nell’aver colto l’orrore non come una forza esterna ma interiore all’uomo stesso, che traspare, attraverso le fasi d’invecchiamento del volto, dal suo procedere nel tempo. E’ questa rivoluzione che ha consentito il passaggio dalla maschera al tipo, al personaggio, al carattere comico, in cui si è spento il ghigno di Sileno decaduto in riso.
Annullandosi nell’istante il nostro tempo ha la hybris di avocare a sé l’eterno. Così anche l’eternità non è al di là dell’umano ma si configura come parte di una nuova umanità che in virtù del progresso ha conquistato la condizione divina. Sul volto dell’uomo scompaiono i segni del tempo e le fotografie degli “uomini illustri” – dei sopravvissuti direbbe Canetti – ci mostrano facce inalterabili, icone che neanche la morte, che puntualmente continua a fare il suo mestiere, riesce a scalfire. Una nuova razza di semidèi è sorta, ma non ascendono al cielo, non c’è un passaggio, come nella morte apparente di Maria o nell’apoteosi di Eracle; essi sono tali nel mondo. Una santità immanente. Per usare come paragone l’illustrazione di Prònomos, i volti dell’uomo sono equivalenti a quelli dei satiri. Ma questi ultimi sono nell’eternità per il ciclo naturale dell’eterno ritorno, mentre gli odierni santi sono tali perché il tempo si è annullato nell’eternità dell’istante. Nell’istante, che è istante del profitto, si annulla il dolore, l’invecchiare dei milioni di schiavi che lavorano senza volto, senza nome, nel tempo privato del tempo. La foto è il modo di fissare una volta per sempre quell’istante. Ma “la fotografia ha distrutto l’effigie”.
Queste riflessioni potrebbero portare alla conclusione che non solo il mondo presente non ha bisogno di maschere (controlla ogni terrore, ha sottomesso ogni mostruosità, ha delimitato i confini della natura e può modificarla a suo talento), come non ha bisogno del ridere, ma che santo è il volto dell’uomo nell’eternità dell’istante.
Tuttavia non possiamo fare a meno, distogliendo lo sguardo da queste troppo facili conclusioni, di osservare che forse mai nella storia gli orrori si sono perpetrati oltre ogni misura umana, che mai essi hanno assunto forme non rappresentabili, che mai alla vittima è stato impedito di maledire il suo dio carnefice. Non possiamo invocare “Apollo, mio distruttore!”, come Cassandra nell’Orestea , perché non sappiamo chi ci ha distrutto, né siamo in grado, vittime senza volto, di dargli un volto. Mai come adesso la formula astuta di Odisseo appare appropriata: chi ci colpisce? Nessuno. Mai come adesso la maschera del Nessuno, così popolare nel Medioevo e nel Rinascimento, potrebbe ambire a una nuova consacrazione. E pur essendo coscienti che tutto comunque deriva dall’uomo e che non si tratta di forze sovrannaturali, bensì di macchine, apparati, sistemi, leggi, il responsabile della nostra distruzione ci appare più distante e impensabile che non il terribile Fato. Le nostre angosce sono diventate, mentre le possibilità di intervento dell’uomo sul mondo aumentavano, ancora più grandi, disperate, irrisolvibili, incomprensibili. Mai come adesso l’epifania della maschera mostra la sua necessità, mai come adesso Adrastea-Ananke suona i suoi cembali sulla soglia della Notte . E con lei la necessità del riso. Non appartiene forse alla capacità di improvvisazione e a quella particolare intelligenza, tutta umana, del cogliere il valore di essere nell’istante?
Ma come si può mostrare questa epifania? Un’idea ci possono suggerire le tipologie della commedia dell’arte, uno dei repertori iconografici più copiosi della maschera comica. Il nostro tempo-istante è dominato da due forze: l’espansione dei processi economici e la loro imposizione per mezzo della violenza bellica. Non siamo in grado di dargli un volto, nonostante siano effetti del tutto umani, perché abbiamo perduto la capacità di dare volto al terrore e di riconoscerlo, come facevano i comici, nei ruoli stessi della “commedia umana”; inoltre se ricordiamo quelle tipologie non possiamo ignorare che la prima forza, che si identifica con il tempo stesso perché l’avidità si nutre dei suoi figli come il tempo che partorisce sempre nuove generazioni alla morte, è quella del mercante, mentre la seconda è quella del soldato, che ha coscienza del mondo unicamente al fine di distruggerlo. Il guerrafondaio, divorato dall’avidità di sterminio, non è che il doppio del mercante-tempo. Un uomo del Rinascimento avrebbe chiamato questi terrori con il loro nome di maschera: Pantalone e Matamoros. Volendo ricostruire un canovaccio dell’arte, Matamoros avrebbe ricoperto il ruolo del servo di Pantalone, il sosia spregevole e arrogante che gli spiana la strada. Sui palchi la loro ferocia sarebbe stata messa in ridicolo dalle trame e dalle invenzioni sceniche dei comici. Oggi quella ferocia, che non può trovare connotati simbolici adeguati se non in edulcorate e spensierate gag dozzinali, merita la nobiltà del ghigno. Non c’’è più riso né maschera, ma non possiamo far finta di non sentire nelle nostre orecchie l’’eco di un urlo ghignante, una nuova epifanìa del prima, come proferito dalla bocca sgangherata di Sileno: “economia militarizzata”.

[da F. Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004]

Fernando_Mastropasqua

2005-01-09T00:00:00




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