L’estetica del tradimento sulla scena di Heiner Müller

Le parole del drammaturgo tedesco un anno prima della caduta del Muro di Berlino

Pubblicato il 21/12/2021 / di / ateatro n. 000

Pubblicata sul “Manifesto” il 19 aprile 1988, e dunque in un momento storico assai particolare.
Heiner Müller era stato invitato alla Civica Scuola d’Arte Drammatica dal direttore Renato Palazzi.
Il drammaturgo tedesco è considerato l’erede eretico (e post-moderno) di Bertolt Brecht. Aveva una visione lucidamente paradossale della Storia. Da autentico equilibrista dell’ideologia, ha vissuto e lavorato a lungo di qua e di là del muro, mettendo a nudo sia le degenerazioni totalitarie del comunismo sia le assurdità globali del capitalismo. Dopo il 1989, ha ammesso di essere stato, come altri intellettuali della Germania Est, un “collaboratore informale” della Stasi, la polizia segreta della RDT. Aveva spiegato che il suo era un “comportamento inevitabile nella sua situazione” (che gli garantiva una grande libertà artistica e di movimento), precisando di “non mai aver avuto problemi morali” (i suoi detrattori l’hanno sempre considerato un campione di cinismo). La sua era una sorta di consulenza culturale, visto che gli veniva chiesto soprattutto di chiarire il senso di certi testi (evidentemente la sua scrittura densa e frammentaria, l’incastro di metafore e provocazioni turbavano i censori di Berlino Est).
Müller è stato, fino alla sua morte nel dicembre del 1994, direttore del Berliner Ensemble.

L’intervista

Heiner Müller è in questi giorni a Milano, alla Civica Scuola d’Arte Drammatica, dove tiene un seminario centrato sulla teatralità di un testo poetico di Gottfried Benn, Gewise Lebenstande (Certe sere della sera). Nel presentare l’iniziativa, il drammaturgo tedesco spiega divertito, con la sua abituale e lucida ironia, quali sono i personaggi principali su cui ruota il suo lavoro. Ci sono uno Shakespeare ossessionato dalle sue creazioni e proiettato nel nostro tempo e il suo maggiordomo, assiduo telespettatore ormai refrattario alla comunicazione teatrale: uno spunto in cui s’intrecciano la cultura del passato e quella del presente, la sua esperienza di uomo insieme dell’Est (dove tuttora risiede) e dell’Ovest (dove spesso lavora).

Heiner Müller alla dimostrazione del 4 novembre 1989 a Berlino

In Europa Occidentale il teatro ha perso il suo rapporto con la società. Il sintomo è il dominio del registi. Il teatro europeo si è trasformato in un duello tra registi famosi: chi ne fa le spese sono i testi e, a volte, gli attori. In URSS si assiste invece, in concomitanza con il nuovo corso di Gorbaciov, a un rinascimento del teatro, che assume un ruolo giornalistico-informativo e soddisfa precise esigenze sociali. Il teatro è un luogo pubblico in cui si riuniscono almeno cento persone e dove, quindi, reazioni dei singoli divengono incontrollabili: è un ottimo barometro della disponibilità al cambiamento. Anche nella RDT si cerca oggi di riferirsi a quanto avviene in URSS.

Ma i suoi testi vengono rappresentati, anche – e soprattutto – all’Ovest.

E’ vero, i miei testi arrivano in scena prima all’Ovest: spesso come sintomi della delusione per il marxismo o il socialismo, oppure come opere di uno specialista dell’Apocalisse (anche se credo di essere più un comico che un apocalittico). Fino all’arrivo di Gorbaciov, c’è sempre stato all’Ovest un grande appetito per tutto quel che sapeva di dissidenza. Ma oggi, personalmente, mi sembra più importante lavorare all’Est, con testi ambientati e scritti per l’Est, che possono ovviamente essere capiti anche all’Ovest, ma in maniera più piatta. Credo che la morte del teatro sia lo status quo. In Occidente la società non ha quasi nulla davanti e molto dietro. Tutti gli sforzi sono rivolti a mantenere un certo standard, alla totale occupazione del presente.
I ricordi sono cancellati, le aspettative paralizzate. Resta solo il postmoderno. Recentemente, per esempio, sono passato in Baviera: tutte le case sono così pulite, perfette, dipinte di fresco. Credo che le ridipingano tutte le settimane. In un orizzonte come questo, l’unica aspettativa, quasi un desiderio, è la catastrofe. Ecco, il mio incubo è che la Germania si preoccupi di salvare l’Italia; ma non accadrà, ci sono caos e problemi a sufficienza… L’unica cosa che è rimasta nella RFT è l’igiene… è difficile pronunciare grandi frasi, ma se il teatro ha una funzione è quella di rendere la realtà impossibile. Non mi interessa la riproduzione della realtà sulla scena, come sta avvenendo all’Ovest, come difesa dall’invadenza di cinema e tv. Mi interessa al contrario difendere la scena dalla realtà, portare in scena un’altra dimensione, un altro spazio, un altro tempo. Nell’ottenere questa distanza dalla realtà, c’è una sorta di godimento, un vero e, proprio divertimento, Si tratta di togliere gli spettatori dalla realtà in cui vivono per fargliene vedere un’altra: lo straniamento brechtiano non è altro che questo. Riso e pianto possono ottenere questo effetto: instaurare un altro rapporto con il vissuto.

Questa insofferenza, questo rifiuto del reale, e insieme lo sgretolamento dei grandi sistemi ideologici sono alla base dell’estetica del tradimento che sottende l’opera di Müller. E il tradimento ritorna anche, in forme imprevedibili, nel rapporto tra Müller e i suoi testi, tra i suoi spettacoli e il pubblico, mentre sullo sfondo continua a muoversi il gran teatro della Storia.

Recentemente ho portato in scena un testo che avevo scritto nel ’56, Der Lohndrucker. Non ho avuto bisogno di cambiare neppure una parola, ma oggi la verità e il messaggio sono diversi: la storia ha raggiunto e superato il testo. è molto interessante proprio la contraddizione tra le intenzioni e il prodotto.

In Lohndrucker c’è un operaio che dalla prima all’ultima scena ha le scarpe rotte, e non gli danno mai la contromarca per comprare quelle nuove. Alla fine, in un gesto di sfida, getta le sue scarpe rotte all’Uomo Politico e gli dice: ‘In America gli operai hanno l’automobile ma non c’è il socialismo. Qui da noi c’è il socialismo ma gli operai non hanno le scarpe’. L’uomo del partito gli risponde: ‘Negli Usa l’auto appartiene agli operai, ma a chi appartengono gli operai? Qui ci sono le contromarche per le scarpe, ma le fabbriche appartengono a noi’. Quando l’ho scritto, il dialogo conteneva una classica argomentazione stalinista e lo ritenevo una cosa seria e positiva. Adesso invece ridono tutti come matti: tra il pubblico c’è chi deve aspettare otto, dieci anni per un’auto e il dialogo sembra una barzelletta. La reazione si è ribaltata: ma erano le mie intenzioni a essere sbagliate.

Tra i maestri di Müller si citano spesso Beckett e Genet, ma soprattutto Brecht (di cui viene ritenuto il più conseguente e perciò paradossale erede). E anche Artaud, grande profeta del teatro di questi decenni.

A proposito di Artaud, vorrei citare Peter Brook, quando afferma che la prima volta in cui ha visto praticare le sue teorie sul Teatro della Crudeltà è stato negli anni Cinquanta, quando ha assistito a uno spettacolo del Berliner Ensemble: entrava nella coscienza, distruggeva la realtà proprio nello spirito di Artaud. Ma il grande problema di Artaud come autore teatrale era di non restare semplice osservatore per diventare egli stesso oggetto dell’osservazione, oggetto della catastrofe. Brecht invece alla fine del ’53, quando ha iniziato a trovarsi egli stesso sul rogo, si è irrigidito nella posizione di osservatore (da questo punto di vista è morto al momento giusto, prima della rivolta d’Ungheria). Oggi l’autore non può bruciare soltanto i suoi personaggi: deve mettersi egli stesso sul rogo. è quello che ha fatto Artaud, ed è forse la ragione per cui non è riuscito a realizzare il suo teatro.




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