L’inventore di Arlecchino

Siro Ferrone racconta Tristano Martinelli

Pubblicato il 07/01/2007 / di / ateatro n. 105

Arlecchino, il bel libro di Siro Ferrone, è in apparenza più fedele al suo sottotitolo, Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, che al titolo. E’ infatti la biografia d’un attore, di un grandissimo attore, nato nelle campagne vicino a Mantova e poi apprezzato, amato e protetto dai più potenti sovrani d’’Europa.
Fin dall’’inizio Ferrone spiega chiaramente che non si occuperà più di tanto delle radici mitologico-folclorico-etimologiche della maschera più celebre, e nemmeno delle sue successive evoluzioni sui palcoscenici di tutto il mondo. Tuttavia il titolo del saggio di Ferrone è quanto mai pertinente: perché anche se “Arlecchino non può esibire un testo che certifichi la sua nascita (…) a inventarlo fu un attore del secolo XVI, Tristano Martinelli”.
Prima di lui ci furono gli “zanni”, naturalmente, che continueranno a esistere anche dopo di lui, ma all’’interno di questa tradizione, con una serie di “invenzioni” (o di “trasgressioni”, a cominciare dall’’abbandono della “Bergamascha lingua”), Martinelli riuscì a distinguersi “come primus inter pares”. Soprattutto, seppe far emergere – a tutto suo vantaggio – una maschera e soprattutto un nome che “era stato per molto tempo un borborigmo, un balbettamento che circolava (…) soprattutto nelle favole e nei riti pagani della Francia e dell’’Europa del Nord”. Sulla scia del suo straordinario successo, dopo di lui arrivarono altri famosi Arlecchini, a partire da Dominique Biancolelli, per arrivare fino a noi con Moretti e Soleri. Ma, appunto, arrivarono tutti dopo di lui, il primo Arlecchino riconosciuto come tale: “un perdente di classe che dalla sua condizione di inferiorità (maldestro guerriero, stonato cantante, amante tradito, marito cornuto, osceno ruffiano) seppe ricavare la delega a rappresentante principe della nazione comica italiana” (p. 88).
Ferrone segue passo passo questa invenzione, sia nella rete dei segni su cui lavorò Martinelli, sia nelle motivazioni che lo portarono a quello che fu, senz’’altro, un vero colpo di genio, che infiammò all’’istante il pubblico di Parigi, con immediato contorno polemico. Grazie anche, va aggiunto, a “una sottile strategia pubblicitaria” (p. 88) a opera di Tristano e del fratello Drusiano, con meccanismi di sorprendente modernità. E’’ un vero piacere seguire i tortuosi percorsi di questo avventuriero del teatro, le sue astuzie e le sue bassezze, le sue ambizioni e le sue astuzie di guitto. Pagina dopo pagina, sulla base di una ampia documentazione però sempre distillata in forma di godibile racconto, vediamo Martinelli imporsi alla corte dei Gonzaga, anche come supervisore e gabelliere dei suoi meno fortunati colleghi; per poi partire in cerca d’’avventure e di fortuna con la sua scalcagnata troupe verso il Nord, per approdare ad Anversa, Londra, Vienna e Madrid, e naturalmente soprattutto a Parigi, che sarà il teatro dei suoi massimi trionfi ma anche la levatrice della sua immortale creazione.
Ma tutto questo è meglio lasciarlo al piacere della lettura, pagina dopo pagina, in quella che assume spesso i toni di un’’avventura, sempre in bilico tra le piazze dove si esibivano i cantimbanchi e le splendide corti dove il nostro eroe aveva grandissimi fan, a cominciare da Maria de’ Medici. Perché al di là del romanzo picaresco, il saggio di Ferrone offre anche altri spunti di riflessione, a cominciare da un approccio esplicitamente biografico a un episodio chiave della storia del teatro: privilegia infatti l’’attenzione alla parabola individuale rispetto alla storia degli archetipi (e Arlecchino è anche questo) e ai tempi lunghi dell’’analisi dei miti, così come alla ricostruzione di un orizzonte comune, dove le singole parabole trovano senso solo nella rete di relazioni e trasformazioni storiche (anche se ovviamente tutti questi elementi continuano a fornire lo sfondo da cui far risaltare, come a contrasto, il protagonista; anche se Ferrone preferisce nell’occasione attingere a studi più focalizzati, come quelli di Sara Mamone e Delia Gambelli).
Questo Arlecchino preferisce concentrarsi sul nodo tra la creatività personale e un’’arte collettiva come il teatro (e ovviamente nel collettivo teatrale entrano anche il pubblico e gli sponsor-protettori-mecenati). Nel contrasto tra l’’invenzione individuale e la tradizione. E lo fa in un terreno storiografico come questo, dove si sono accumulate letture molto diverse, dalle grandi sintesi (a volte semplificatrici) come quelle di D’’Ancona e di Allardice Nicoll alle raccolte di copioni, materiali e documenti sulle compagnie dei comici raccolte e pubblicate degli scorsi decenni – anche dallo stesso Ferrone, per Mursia, Einaudi e Le Lettere – e che hanno cambiato la nostra lettura della Commedia dell’’Arte (ma privilegiando appunto “il movimento”, la tendenza, rispetto ai singoli).
La figura di Martinelli assume così un rilievo esemplare, sospesa com’è tra il vecchio e il nuovo. Da un lato l’’attore mantovano pare profondamente radicato nella tradizione dei guitti poveri e scalcagnati, e dunque molto lontano dalle ambizioni impresariali e dalle velleità di riscatto culturale – letterario che già allora infiammavano le velleità di molti suoi colleghi (proprio da questa volontà di riscatto parte del resto una della rare frecciate polemiche di Ferrone, contro gli innominati – e non citati – professori che “danno l’impressione di voler correggere i colleghi moralisti e fingono di vedere” in certi attori “ qualcosa di più, qualcosa che non furono e che a loro – i professori -, non si capisce perché, piace di più”, p. 120).
Dall’’altro Martinelli incarna ancora, per molti aspetti, il ruolo del buffone di corte: basti pensare ai suoi rapporti “alla pari” con principi e sovrani, che facevano a gara per far da padrino ai suoi numerosi figli, e alle spassose missive che inviava loro (nella speranza, spesso soddisfatta, di doni preziosi).
Insomma, un solitario, per certi aspetti ancorato a tradizioni e realtà superate, ormai avviate al tramonto da una nuova situazione politica, da nuove esigenze artistiche e da una nuova organizzazione delle compagnie: e proprio in questa frizione, suggerisce Ferrone, esplode l’’invenzione di uno dei rari miti moderni. Schiacciato tra arcaismi e spinte modernizzatrici, Martinelli si ritaglia un suo ruolo. Con molte ambiguità, sia chiaro: perché emerge il ritratto di un uomo forse più furbo che simpatico, attentissimo a curare i propri interessi dopo decenni di miseria, con una scarsa solidarietà per i suoi colleghi – che peraltro spesso lo guardavano dall’’alto in basso.


Siro Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Laterza, Roma-Bari, 2006.

Tra gli altri volumi indicati nell’articolo sono disponibili:

Siro Ferrone (a cura di), Commedie dell’Arte, 2 voll., Mursia, Milano, 1985-86.
Siro Ferrone, Attori mercanti e corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino, 1993.
Siro Ferrone (direzione), Comici dell’Arte. Corrispondenze. G.B. Andreini, N. Barbieri, P.M. Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, F. Scala, a cura di C. Buttarelli, D. Landolfi, A. Zinanni, 2 voll., Le Lettere, Firenze, 1993.

Delia Gambelli, Arlecchino a Parigi. Dall’Inferno alla corte del Re Sole, 2 voll., Bulzoni, Roma, 1993.
Sara Mamone, Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina, Maria de’ Medici, Silvana Editrice, Milano, 1989.
Allardice Nicoll, Il mondo di Arlecchino, Bompiani, Milano, 1965.

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