La mia solidarietà all’astice (anche se a lui, poveretto, non gliene frega niente)

In margine a Accidens di Rodrigo García

Pubblicato il 23/03/2007 / di / ateatro n. 107

Quando ho saputo che nella performance di Rodrigo García in (s)cena al Teatro i di Milano si assiste allo strappo delle chele di un astice, alla sua uccisione e cottura, ho deciso di non assistere nella performance (oltretutto ho dedotto che non l’avrei nemmeno mangiato io, il prelibato crostaceo, con il suo bravo cucchiaio di maionese, ma l’attore che se lo cucina).
Preciso che non so se in scena la sofferenza dell’animale duri tanto o poco, e nemmeno che cosa significhi la sofferenza di un astice, o se abbia senso parlare propriamente di “sofferenza di un astice”. Ma non credo sia questo il punto.
Così come non c’entra ovviamente nulla (pur essendo una pratica ingiusta e crudele) il fatto che nei ristoranti milanesi chissà quante aragoste e affini, in bella mostra nell’acquario all’ingresso, facciano ogni sera una fine analoga a quella dell’attore non protagonista della serata.

So che la morte altrui ci provoca inevitabilmente un brivido. Quella del condannato a morte più di quella dell’astice, naturalmente. Quella dell’incidente d’auto cui assistiamo per caso più di quella dell’ennesimo attentato suicida trasmesso per l’ennesima volta dalla tv (naturalmente dopo aver tagliato “i dettagli più raccapriccianti”, che tanto adesso si trovano facilmente su Internet).
Quella suscitata dalla morte altrui è un’emozione che fa leva su un mix di curiosità e repulsione, ed è assai facile suscitarla. Se posso la evito, perché so che non mi rende migliore. Anzi. E perché fa leva su aspetti della personalità che possono facilmente diventare morbosi. Questa è la prima ragione per cui ho preferito non partecipare al rito sacrificale dell’astice.

Soprattutto, ritengo che uccidere un animale in scena sia un errore estetico e prima ancora etico. Avevo cercato di spiegarlo in occasione della famigerata affaire del cavallo al Festival di Santarcangelo una ventina d’anni fa (in questo numero di ateatro abbiamo ripreso il testo scritto nell’occasione).
E non perché episodi di questo genere possono essere strumentalizzati dai media conservatori (come accadde di regola con gli scandali di questo genere, autentici o opportunamente cercati e poi gonfiati dal “panico morale”), ma per il fatto in sé. Questa è la ragione principale per cui non ho voluto assistere al lavoro.
Oltretutto – ma questo risvolto per me è molto meno importante – come è noto l’esibizione delle sofferenze animali a fini spettacolari è proibita dalla legge italiana (e giustamente: pensate alla corrida), con tutte le inevitabili e spiacevoli conseguenze del caso: la polizia che blocca lo spettacolo, i magistrati che hanno l’obbligo di aprire un procedimento penale, eccetera eccetera.
A differenza di Vittorio Sgarbi, che da esteta ha difeso con coerenza e vigore il gesto dell’attore di Victor García, ritengo che l’etica (scusate la parolaccia) sia più importante dell’estetica e della politica (soprattutto dopo Auschwitz), anche se non penso affatto che estetica e politica debbano essere subordinate all’etica (soprattutto dopo Auschwitz e il Gulag).
Il fatto che poi lo stesso Sgarbi si presenti con un astice in grembo a Porta a porta ad accusare la magistratura prendendo a pretesto la vicenda, fa parte della patologia di Sgarbi e del sistema informativo italiano: è assai sgradevole (oltre che insensato, e imbarazzante per chi difende il diritto alla rappresentazione di García e del Teatro i) ma non c’entra nulla con il fatto in sé.

(A s-proposito. Quando Sgarbi a ogni conferenza stampa accusa Mani pulite di aver spazzato via un’intera classe dirigente, e in particolare quella milanese, e di aver lasciato il deserto: è vero, ma quel ceto politico, quella classe dirigente, si erano già delegittimati da soli con Tangentopoli, le sue ruberie e il suo immobilismo, con l’occupazione sistematica di tutti i gangli del potere e relativi sprechi e taglieggiamenti, vedi i casi della Metropolitana milanese e del Passante ferroviario, ma anche della nuova sede del Piccolo Teatro, con i loro tempi eterni e i costi che lievitavano; insomma, Mani pulite non è stata la causa del crollo della “Milano da bere”, ma la sua conseguenza; del resto, se quella classe dirigente avesse avuto davvero una qualche forza e progettualità, non si sarebbe lasciata spazzar via in quel modo.)

Tornando al povero astice, era risaputo che la sua triste fine avesse già urtato qualche sensibilità: per la precisione a Prato, nell’estate del 2006, quando l’attore era già stato denunciato e la faccenda era finita sui giornali.
Ritengo che un artista, così come ogni cittadino, se lo ritiene necessario (perché la legge è ingiusta, oppure perché mosso da ragioni che ritiene superiori alla legge, per esempio una insopprimibile esigenza poetica), abbia il diritto di infrangere la legge, sapendo però che potrà (o meglio, che dovrà) pagare le conseguenza del suo gesto. Insomma, se so di commettere un reato, non dovrò sorprendermi più di tanto se dopo (o ancor meglio prima) arrivano i carabinieri.
Accusare Milano di essere retrograda e censoria, in questo caso, mi sembra assai pretestuoso e ingiusto (anche se per molti aspetti Milano è di sicuro retrograda e regressiva).

So anche che la valenza provocatoria del gesto teatrale è stata consapevolmente cercata da Rodrigo García, all’interno di una coerente riflessione poetica su cibo e morte, e sul rapporto che li lega, e all’interno di una più ampia critica del consumismo occidentale e dell’ipocrisia della cultura del “primo mondo”. Ritengo che un artista abbia tutto il diritto di provocare il suo pubblico e che da sempre il rapporto dialettico con i committenti sia una delle dinamiche fondamentali dell’arte.
Tuttavia mi pare di cogliere nell’atteggiamento del regista argentino una punta di “superiorità morale” nei confronti delle grandi istituzioni che lo ospitano-producono e del loro pubblico. Un atteggiamento che può sconfinare nel disprezzo, e rischia di diventare ricattatorio: “Se non ti piace, o se non lo accetti, allora sei un ipocrita – o un censore”.
So di essere per molti aspetti un ipocrita, agli occhi di un animalista radicale (e probabilmente anche a quelli di García): per esempio mangio carne e uso scarpe di pelle senza sgozzare e scuoiare personalmente gli animali, e illudendomi che le loro sofferenze siano limitate al massimo; e ricorro a farmaci certamente testati su animali.
Ma c’è un pizzico di paradossale ipocrisia anche in un’artista della provocazione che quando centra il bersaglio – quando finalmente fuori dal teatro arriva a polizia a bloccare lo spettacolo, fioccano denunce e scandali, quando la vicenda finisce sulla prima pagina della “Repubblica”, vedi il bell’articolo di Stefano Bartezzaghi del 16 marzo – si atteggia a vittima.

PS Mentre scrivo queste righe, mi rendo anche conto di essere disperatamente fuori moda: nell’epoca dei reality, la forma della rappresentazione è esplosa, e invece io continuo a ostinarmi a pensare che ci debba essere un confine tra la realtà e la finzione, e che il teatro sia anche costante riflessione su questo limite, senza la facile scorciatoia della provocazione – che può solo innescare un meccanismo di escalation.
E mi rendo conto di essere per un certo verso, un ipocrita al quadrato: perché con queste parole finisco anche io, volente o nolente, per contribuire alla piccola industria dello scandalo, ad alimentare il dibattito, a farmi bello delle mie opinioni. E al povero astice tutto questo naturalmente non serve proprio a nulla. Da lassù, nel Paradiso degli Astici, si sarà giustamente irritato.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2007-03-23T00:00:00




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