Un’estetica dell’ambivalenza

Masbedo dal video al teatro (e viceversa)

Pubblicato il 31/08/2010 / di / ateatro n. 127

Era il 2007 quando ho visto per la prima volta un lavoro video dei Masbedo; fu piuttosto spontaneo e credo, per nulla azzardato, l’’accostamento a Bill Viola, il più grande video maker di tutti i tempi, colui che ha dato al video un’’anima spirituale.

10 insects to feed

Era a Prato, al Museo d’’arte contemporanea “Luigi Pecci” in occasione della mostra “Nessuna paura”; mi colpì molto la modalità e la dimensione della loro installazione dal titolo 10 insects to feed (la multivisione, con tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni), la perfezione tecnica (la qualità della fotografia, la luce, le campiture cromatiche degli abiti, la scelta cinematografica delle inquadrature e delle immagini), e non ultima, l’’interpretazione degli attori basata su un’’improvvisazione fisica estrema a raccontare panico improvviso, soffocamento e delirio: in sostanza, mi colpì la forza complessiva dell’’opera video nel suo insieme.
L’’impressione fu quella di avere di fronte artisti che, pur giovanissimi come Jacopo Bedogni e Niccolò Massazza, avevano già trovato la corretta grammatica per un’arte video di grande valore e sviluppato una conseguente sintassi coerente e originale. I loro lavori sono caratterizzati proprio, sin dagli esordi, da una fase di pre-produzione studiata nei dettagli, articolata e complessa, che mette in campo ogni volta, un vero staff cinematografico di professionisti della scrittura e dell’’immagine e che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale. Il contenuto, sempre fortemente drammatico della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando immaginari mentali che partono sì dalla realtà ma per trasfigurarla. Da qui l’accostamento sempre meno azzardato a Bill Viola (che li allontana viceversa, dall’accusa di estetismo manieristico e conformista a loro rivolta) la cui arte mediale, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico” (Bill Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001).

Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Teorema d’incompletezza, Glima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).
Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

Masbedo, Leopardi e gli altri
Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezza, Glima, Autopsia del tralala, Togliendo tempesta al mare, Person) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’’incomunicabilità, l’’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Il bisogno di infinito.

Teorema di incompletezza

Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. In Schegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’’esistenza inumana che l’’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane.
In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive (cioè, figure retoriche che sostituiscono un termine proprio con uno figurato): l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’’uomo.

Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio

Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest’eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce).
In Dialogo della Natura e di un Islandese o ne La ginestra la natura non è mai confortante. E’ nemica o almeno è ostile:

“(L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi).”

Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi:

“Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s’illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell’uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti.”

Indeepandance: o del meticciare linguaggi
E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni.

Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte dell’’immagine, una permeazione dell’’immagine nella vita sociale e quotidiana. Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, recentemente Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza individua nel concetto di “ambivalenza” che rompe la pratica del modello strutturale normativo, dell’’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

“La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno… L’’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’’ambivalenza…. Classificare consiste negl atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno.… L’’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione.. Quella all’’ambivalenza è una guerra suicida.” (1)

Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Come ricorda Bruno Di Marino citando le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale “arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare” la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. (B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002).
E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli “fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto” (S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, 2004).
Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale.
Schegge d’incanto in fondo al dubbio è una videoinstallazione per due schermi sincronizzati diventata live set con musica dal vivo suonata da Lagash dei Marlene Kuntz per il Festival Invideo e per Aquaticus (Porto Venere).

Glima.

Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010.

Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione di Erna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario.

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori.

La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti.

Pathei Mathos (Apprendo dalla sofferenza)
Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’’uomo l’’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”).
La donna, novella Antigone, opponendosi all’’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos -– come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente -– accende un fuoco come a chiedere aiuto.

Schegge d’incanto in fondo al dubbio.

In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere.
Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento orfico da Proclo, cit. da G. Colli, La sapienza greca).

“Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre.
(Oliver Taplin, Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell’Archive of Performances of Greek and Roman Drama all’Università di Oxford, testo della conferenza tenuta all’Università di Catania, 18 gennaio 2010).

Distante un padre
Si chiama “Ponti per le culture costruendo pace” il forum delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro in cui hanno partecipato oltre 2000 operatori politici, leader e attivisti, fondazioni e giornalisti di tutto il mondo e in cui è stato presentato con successo il 28 maggio il film collettivo commissionato dall’’ONU che ha visto tra i partecipanti anche Masbedo insieme con Tata Amaral, Robert Wilson, David Cronemberg e Fanny Ardant e che è stato girato interamente alla Spezia nelle aree della Marina Militare.
Masbedo hanno dato il loro contributo in forma di cortometraggio dal titolo Distante un padre con la sceneggiatura di Aldo Nove e musiche originali dei Marlene Kuntz.

Distante un padre

Masbedo hanno voluto declinare il tema comune per tutti i registi, la spiritualità, come la luce interiore che pervade in un momento di grande dolore, come verità rivelata, l’animo dei due protagonisti, un uomo e una donna. L’uomo è un palombaro e il buio della profondità è la sua dimensione; un senso di mancanza e di perdita legato alla morte della figlia che li vede da quel momento vivere in una sorta di simbiosi acquatica, viene colmato dal ricordo e dalla fiducia che “se non si vivrà la felicità, almeno se ne vedrà la luce”, come recitano le prime frasi del testo di Aldo Nove scritto per l’occasione. La loro esistenza è accompagnata dalla consapevolezza del dolore e dell’estraneità assoluta col mondo; una sofferenza indicibile pervade i loro gesti quotidiani e li rende figure quasi ascetiche e mistiche, di un misticismo trascendente che svetta al di sopra del trambusto umano, nella speranza vivificante di una dimensione altra. Al culmine della sofferenza terrena, i protagonisti sembrano toccare la verità. Chi soffre risulta separato dal contesto del mondo perché il dolore ha provocato in lui un tipo di visione che non è di nessun altro. Come ricorda Salvatore Natoli, “la sofferenza è una recessione di comunicazione: il sofferente tende a una comunicazione di tipo estremo, o il silenzio o l’urlo, ed entrambe anche se in modo diverso, tendono alla morte”. Negli abissi del mare ovvero nella profondità del proprio spazio interiore, il vuoto prende la forma luminosa del ricordo e l’’uomo vuole perdervisi dentro. L’’abisso come amplificatore della coscienza, da dove comunicare empaticamente con la persona con cui condividiamo l’’amore e il dolore, comunicare come il neonato fa con la propria madre, attraverso il cordone ombelicale. Ancora una volta la luce ci riporta ai video di Bill Viola, e rappresenta quella forza superiore che si manifesta agli uomini inaspettata e preannuncia il cambiamento. Un video drammatico e intenso, con una speranza finale di rigenerazione che è la risposta agli interrogativi esistenziali dei protagonisti. Il video è stato realizzato interamente alla Spezia (direttore di produzione: Anna Monteverdi) grazie all’aiuto fattivo della Marina Militare in ambienti davvero difficili e angusti come camere iperbariche e capsule per immersioni profonde custodite all’’interno dell’Arsenale Militare.

Anna_Maria_Monteverdi

2010-08-31T00:00:00




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