Pasolini, teatro

(1985)

Pubblicato il 03/11/2010 / di / ateatro n. 127

Il «teatro di parola» di Pier Paolo Pasolini, come egli stesso lo definì, nasce anche da un’ammirevole furia polemica, contro il teatro così come lo si praticava in Italia nella prima metà degli anni Sessanta. Tale polemica non può, oggi, essere occultata o giudicata «poco interessante», a meno che non si voglia rendere innocua e in offensiva la sua opera, che rimane invece fortemente attuale anche per la sua persistente carica aggressiva, sia politica sia letteraria.
A parte le primissime esperienze giovanili, in Friuli, in veste di demiurgo-regista, come ci ricorda Attilio Bertolucci, un precedente significativo delle sei «tragedie» (e la definizione è ancora di Pasolini) è la traduzione del Miles gloriosus di Plauto, con il titolo Il vantone, dell’inizio degli anni Sessanta, eseguita «su ordinazione». Nella breve e, come al solito, acuta e provocatoria nota introduttiva, Pasolini, nell’esporci i gravi problemi che l’impresa aveva comportato, comincia la sua polemica che chiamerò «di fondazione».
Qui, come in altre circostanze, è opportuno cedergli la parola. Ecco: «Per che palcoscenico, dunque, per che spettatori traducevo io? Dove potevo trovare una sede dotata di tanta assolutezza, di tanto valore istituzionale? Nel teatro dialettale, sì, ma il testo di Plauto non era dialettale. Del teatro corrente, ad alto livello, in lingua, mi faceva (e mi fa) orrore il birignao». Proprio su questo «birignao», su questa insofferenza dettata da un rifiuto quasi istintivo tornerà, e vedremo tra poco come.
Conviene, per un momento, continuare su Plauto ed esaminare la soluzione che trovò: «Beh, qualcosa di vagamente analogo al teatro di Plauto, di così sanguignamente plebeo (…) mi pareva di poterlo individuare forse soltanto nell’avanspettacolo (…) E a questo, è alla lingua dell’avanspettacolo che, dunque, pensavo – a sostituire il ‘puro’ parlato plautino. Ho cercato di mantenermi il più squisitamente possibile a quel livello. Anche il dialetto da me introdotto, integro o contaminato, ha quel sapore. Sa più di palcoscenico che di trivio. Anche la rIma, da me maspettatamente, credo, rIassunta, vuole avere quel tono basso, pirotecnico».
Ecco il gioco straordinario delle rime (che tornerà in altri luoghi teatrali) a tenere «squisitamente» alto il gioco di un dialetto reinventato per un avanspettacolo nobilitato da uno stile del tutto inusuale. Si ripresenta dunque qui, indirettamente, quella questione e ossessio¬ne dello stile che percorre come un filo conduttore tutto il suo lavoro, in tutti i campi, e che nel teatro si svilupperà in modi aperti e complessi, in parallelo col suo linguaggio cinematografico, nell’affrontare i problemi della particolare e intollerabile artificiosità della lingua italiana.
Aveva scritto su «Officina»: «Lo sperimentalismo stilistico, dunque, che non può non caratterizzarci, non ha nulla a che fare con lo sperimentalismo novecentesco – inane e aprioristica ricerca di novità collaudate – ma, persistendo in esso quel tanto di filologico, di scientifico o comunque cosciente, che la parallela ricerca ‘non poetica’ non può non apportare, esso presuppone una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito. La libertà di ricerca che esso richiede consiste soprattutto nella coscienza che lo stile in quanto istituto e oggetto di vocazione, non è un privilegio di classe: e che dunque, come ogni libertà, è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, an¬gosciante».
Il corsivo è mio, ma avrei voluto anche sottolineare, e lo faccio subito, che lo stile per Pasolini non sarà mai un punto di arrivo, mai quello che ora da alcuni viene chiamato un «grande stile», ma sempre e ovunque sinonimo di ricerca.
Pasolini non fu neo-classico, né sognò un ritorno a quella «purezza» che fu definita «classica» solo da alcuni classicisti; pensò piuttosto alla riconquista di un assoluto della forma che ricomponesse, per mezzo di una fusione sincretica, storicamente fondata dall’uomo, in unità stilistica tutte le possibili stratificazioni dell’esperienza personale e sociale. Era così, per esempio, che leggeva l’architettura antica (come si può vedere nello stupendo breve film intitolato La forma della città, in cui Pasolini, intervistato, risponde esplorando, con la macchina da presa, la città di Orte).
Ma torniamo alla scrittura teatrale, così come l’ha puntualizzata Pasolini in un’intervista a Jean-Michel Gardair: «Nel ’65 ho avuto l’unica malattia della mia vita: un’ulcera abbastanza grave, che mi ha tenuto a letto per un mese. Durante la prima convalescenza ho letto Platone ed è stato questo che mi ha spinto a desiderare di scrivere attraverso personaggi. Inoltre, in quel momento avevo esaurito una mia prima fase poetica e da tempo non scrivevo più poesie in versi. Siccome queste tragedie sono scritte in versi, probabilmente avevo bisogno di un pretesto, di interposte persone, cioè di personaggi per scrivere versi. Ho scritto queste sei tragedie in pochissimo tempo. Ho cominciato a scriverle nel ’65 e praticamente le ho finite nel ’65. Soltanto che non le ho finite. Non ho finito di limarle, correggerle, tutto quello che si fa su una prima stesura. Alcune sono interamente scritte, tranne qualche scena ancora da aggiungere. Nel frattempo sono diventate un po’ meno attuali, ma allora le do come cose quasi postume».
Dunque a cose quasi fatte Pasolini stenderà il suo «Manifesto per un nuovo teatro», pubblicato su «Nuovi Argomenti». Ciò però non significa, naturalmente, che non sia stato pensato e previsto prima o durante la stesura delle tragedie, in una contemporaneità di scelte ideologiche, poetiche e stilistiche che è caratteristica tipica della letteratura di ricerca, come dimostra la citata nota alla traduzione di Plauto.
Ora, sono sostanzialmente due le preoccupazioni che nel «Manifesto» affronta e cerca di sciogliere: la lingua italiana e i linguaggi teatrali in atto, quasi come una conseguenza inevitabile, e il pubblico cui il suo nuovo teatro si rivolge. Il rifiuto dei precedenti linguaggi teatrali è duplice. Non sono più sopportabili ne i nipotini stanchi delle avanguardie rimaste vitali fino al declino del Living, e tanto meno il «birignao» per cui aveva già manifestato orrore. Questi rifiuti torneranno nella nota introduttiva (del 1975) a Bestia da stile; ciò che interessa di più, a questo punto, è delineare le soluzioni che Pasolini propone e che ha tentato di mettere in atto, sia pure in modi non sempre definitivi, nelle sei tragedie scritte (o abbozzate) in quei pochi mesi del ’66.
Il «teatro di parola» deve opporsi al teatro della «chiacchiera» e del «birignao», come a quello puramente gestuale delle avanguardie, portando in scena il linguaggio della poesia; sarà dunque un teatro in versi, capace di recuperare quell’oralità che sta all’origine della poesia stessa. Oralità che va inserita nello spazio rituale del teatro che cessa così di essere teatro sostanzialmente barghese, sia in senso negativo (quello delle avanguardie, appunto) che «positivo», in quella inutile e leccata ripetitività che il teatro ufficiale si incarica di tenere in uno stato di vita apparente.
Scrive Aurelio Roncaglia nella preziosa nota al secondo volume del teatro pasoliniano: «Teatro dunque, ma anche – e nel senso più radicale – Poesia; propriamente Teatro di Poesia». E giustamente mette in rilievo altre dichiarazioni di Pasolini, citando un articolo che egli scrisse per il quotidiano milanese «Il Giorno»: «Questo nuovo tipo di teatro, che io chiamo ‘teatro di parola’ (dove il passaggio alla minuscola connota l’acquisita familiarità con l’idea) è un misto di poesia letta ad alta voce e di convenzione teatrale sia pure ridotta al minimo (…) ‘Poesia orale’, resa rituale dalla presenza fisica degli attori in un luogo deputato a tale rito».
Soltanto il linguaggio della poesia è in grado di risolvere il problema, apparentemente insolubile, dell’eccessiva artificiosità della lingua italiana (una delle cause principali del «birignao» del teatro), sommando due convenzioni, quella del verso e quella del luogo rituale. Il verso che ridiventa «orale» e il rito che si ripropone come evento socialmente rilevante. Su questo secondo punto si innesta il problema del pubblico cui Pasolini si rivolge. Ma prima di affrontarlo occorre rilevare quanto egli abbia anticipato i tempi nel riproporre pubblicamente la necessità di un ritorno alla poesia orale anche in funzione di un certo pubblico dal profilo ancora non ben decifrabile e sulla cui esistenza pochi erano disposti a scommettere.
Nel punto 15 del «Manifesto» Pasolini si chiede: «Sarà possibile una coincidenza, pratica, tra destinatari e spettacolo?». E risponde: «N oi crediamo che ormai in Italia i gruppi culturali avanzati della borghesia possano formare anche numericamente un pubblico, producendo quindi praticamente un proprio teatro: il teatro di Parola…». La sua convinzione è profonda e viene così accentuata: «a) il teatro di Parola è – come abbiamo visto – un teatro reso possibile, richiesto e fruito nella cerchia strettamente culturale dei gruppi avanzati di una borghesia»; b) esso rappresenta, di conseguenza, l’unica strada per la rinascita del teatro in una nazione in cui la borghesia è incapace di produrre un teatro che non sia provinciale e accademico, e la cui classe operaia è assolutamente estranea al problema…». È evidente che queste affermazioni hanno pure un forte significato politico, destinato per molto tempo ancora a essere nmosso.
L’utopia, o sarebbe meglio dire la visione di una possibile socialità dello stile, dal linguaggio della poesia al teatro di parola, rimane dunque il filo conduttore del lavoro di Pasolini. Ora sono in molti (o almeno più di allora) a condividere l’idea-progetto di una sociabilità della poesia e di una possibile forma nuova di comunicazione ad essa legata; quando egli cominciava a indicarne il tracciato questa proiezione rimase pressoché invisibile.
In nome di questa ricerca Pasolini rifiutò anche il «teatro del Gesto o dell’Urlo» che aveva il torto non tanto e non solo di rappresentare una semplice «conferma, pure rituale, delle convinzioni antiborghesi» dei suoi destinatari, come scrisse nel punto 14 del «Manifesto», ma soprattutto perché mancava di stile, o, quando lo raggiungeva, ritornava accademia, del Gesto o dell’Urlo.
Pasolini non fu neo-classico, ho accennato all’inizio, e bisogna ribadirlo, a questo punto, perche l’idea di una socializzazione dello stile può facilmente condurre al varo di uno stile egemone, il che significa, oggi, recuperare gli stili egemoni del passato, dunque ricorrere agli anacronismi, ai remake, al citazionismo, che si travestono come ricerca allo scopo di occultare il prezzo che si deve pagare alla reazione per occupare un mercato forse immaginario.
Pasolini rimase fedele a ciò che aveva scritto in «Officina» nell’articolo citato. Allora gioverà chiedersi in che modo il suo stile è andato via via mutando soprattutto per merito di quell’intuizione teatrale di recupero dell’oralità della poesia.
Fu costretto, muovendosi in questa direzione, a scrivere «non più in terzine», come dice in quella straordinaria poesia che s’intitola «Una disperata vitalità»!!, eminentemente teatrale, a cominciare dal suo spunto dialogico (intervistatrice-intervistato), e la cui data finale, il 1964, arriva quasi alle soglie di quell’anno di grazia, il 1966, in cui scrisse o abbozzò le sei tragedie. Mi pare inoltre opportuno ricordare che nel 1968 lesse questa poesia a Roma, al Teatro del Porcospino, di fronte a un pubblico tesissimo e partecipe (segnale che i tempi stavano già maturando in favore dello stile della poesia…).
L’opera di gran lunga più importante di tutto il percorso stilistico di Pasolini è l’ultima, la più incerta e sofferta delle sei tragedie, Bestia da stile, per me un capolavoro, a cominciare dal bellissimo titolo, che sintetizzava il suo «pensiero dominante». Stiamo attenti alle date che egli ci ha indicato nella breve nota introduttiva, che cercherò poi di interpretare anche in un punto di rimozione Dice: «Ho scritto quest’opera teatrale dal 1965 al 1974, attraverso continui rifacimenti, e quel che più importa, attraverso continui aggiornamenti: si tratta, infatti, di un’autobiografia (…). Nell’estate del 1974 ho deciso di smettere. Con gli aggiornamenti, ma non con i rifacimenti (per cui l’opera è rimasta ancora per più di un anno inedita: chiudendosi così il decennio 1965-1975). Nell’estate del 1974 ho scritto praticamente la lunga appendice. Che il lettore, se vuole, può però non leggere. L’opera finisce con le parole ‘ebbro d’erba e di tenebre’». E il decennio verrà chiuso anche dalla sua morte.
Va notato che anche in questo caso Pasolini commette, mi pare, lo stesso errore di date dell’intervista a Gardair, che Roncaglia ha corretto: il ’65, l’anno dell’ulcera, era invece il ’66 (e si tratta dunque di un vero decennio). Ma preme di più rilevare questa sorta di ritrosia verso il monologo finale (che pure lesse personalmente al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975); ritrosia e pudore provocati, a mio modo di vedere, dalla rimozione del nome di Pound, che pure a Lecce fece apertamente, così definendo il monologo: «una poesia che cita e, in un certo senso, rifà e mima i Cantos di Pound». Ricordo, tra l’altro, che Pasolini intervistò Pound a Venezia, per la tv italiana (e sarebbe importante ritrovare questa intervista, per molti versi emblematica, negli archivi della Rai).
Ritrosia e pudore, dicevo, credo non arbitrariamente, nei confronti del nome di Pound, perche la sua svolta stilistica era pure il frutto di un’attenta rilettura dei Cantos. «Una disperata vitalità» è già una poesia poundiana, nel senso che vi vengono sfruttate tutte le risorse di quel sincretismo stilistico che Pound aveva posto al centro della ricerca contemporanea. Quando leggiamo, in quella poe¬sia capitale, «Versi, versi, scrivo! versi! / (maledetta cretina, / versi che lei non capisce priva com’è / di cognizioni metriche! Versi!) / Versi non più in terzine! / Capisce? / Questo è quello che importa: non più in terzine! / Sono tornato tout court al magma! / Il Neo-capitalismo ha vinto, sono / sul marciapiede / come poeta, ah (singhiozzo) / e come cittadino (altro singhiozzo)», ebbene, credo non vi possano essere dubbi sui modi di una svolta precisa, qui sottolineata con ironia.
Un altro nome può sorprendere qui in Pasolini, quello di Lacan, che compare in uno dei ‘cori’ di Bestia da stile: «Parlare / la parola / (Lacan) è ormai la nostra prima nuova qualità». Posso supporre che Lacan sia arrivato a Pasolini tramite Andrea Zanzotto, ma è ora importante rilevare l’uso che ne fa, quale lezione positiva nella pronuncia della parola, fino a quell’eccesso di discorso che Stefano Agosti ha sottolineato di recente.
Lacan lo troviamo pure in questi versi: «Un’idea di stile: uno stilo! / Piantata nel cuore / fin dove vibrano le corde più segrete…», e ci fa tornare, seguendo la traccia dell’eccesso del discorso, a quella definizione di stile come meta raggiungibile per accumulo, di cui si è detto all’inizio, parlando della forma della città di Orte. Ecco l’importanza dei continui aggiornamenti e rifacimenti in Bestia da stile: la somma, e soprattutto l’interazione delle stratificazioni di un decennio, avevano come scopo il raggiungimento di quell’assoluto formale (come la splendida concrezione della città di Orte) cui da sempre tendeva, anche tentando, a volte senza riuscirci a volte riuscendoci, di uscire dalla semplice letteratura («che ha reso appunto i miei sentimenti piccoli e meschini», come è scritto nel «Frammento II: Parigi», p. 289 di Bestia da stile). Stratificazioni, accumuli: da questo punto di vista è stato giustamente osservato che tutta l’opera di Pasolini va considerata come un unicum, come una sola, interminabile opera.
Dopo avere sovrapposto al linguaggio poetico quello cinematografico, doveva riscoprire l’importanza del teatro di poesia, per sovrapporlo al linguaggio del corpo. Il procedimento è sempre più necessario: non vi è linguaggio che possa bastargli o che possa portarlo, da solo, fino alle proprie, estreme conseguenze stilistiche. Di qui quel senso di perdita che si ha in certe parti delle sue opere, come di voragini che si aprono incolmabili. Pensava di riempire quel vuoto che si lasciava alle spalle con un’opera successiva o con un altro linguaggio.
Bestia da stile è invece l’opera che riassume tutte le sue possibilità, un passaggio obbligato, come «Una disperata vitalità», e definitivo. Prendere o lasciare, non c’è scampo. In Bestia da stile, Jan, il doppio di Pasolini, così recita: «Voglio essere poeta e non distinguo questa decisione / dagli odori della cucina / nell’ora d’inverno che precede la cena / (e fa tanto male – un male per sempre inspiegabile – / al cuore di bambini) / (…) Non lo distinguo dal silenzio del granaio / delle camere sospese nelle notti in cui i figli / restano soli con tutto il cielo davanti»(p. 205).
Accettare la sfida del silenzio: ciò vale per tutti i poeti. Trovare una soluzione stilistica nell’eccesso, questa è la scommessa di Pasolini. E nel cumulo dell’eccesso, nel linguaggio stratificato della poesia, ci stanno la buona e la cattiva letteratura, il manierismo e il rifiuto della letteratura, l’iperletteratura, ci stanno le immagini del suo cinema, il corpo teatrale e il corpo nel teatro della vita, quando finzione e verità vengono a ultima coincidenza, in una morte più volte annunciata.

Pubblicato originariamente in “Alfabeta”, n. 70, marzo 1985, pagina 6-7 e in “Il Progetto Infinito”, a cura di Giovanni Raboni, “Quaderni Pier Paolo Pasolini”, Roma, 1991
L’autografo con varianti, si trova presso il Centro Apice.
Si ringrazia Rosemary Liedl Porta.

Antonio_Porta

2010-11-03T00:00:00




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