La dialettica della vendetta e del perdono

Oscura immensità di Massimo Carlotto con la regia di Alessandro Gassman

Pubblicato il 25/11/2012 / di / ateatro n. 141

Oscura immensità che intitola il nuovo spettacolo dello Stabile del Veneto con l’Accademia Perduta Romagna Teatro, in prima assoluta al Goldoni di Venezia, è quella della morte e insieme quella che si spalanca in una coscienza incapace di scegliere, di fronte al male subìto, tra vendetta e indulgenza.
L’antefatto è una rapina andata storta, una giovane donna e il suo bambino uccisi, uno dei due malviventi in fuga. L’altro da quindici anni marcisce in una cella che, nell’Italia della cronica emergenza carceraria e del sovraffollamento condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, è stranamente singola e silenziosa. Anche se ha sempre dichiarato – mentendo – di non essere stato lui a sparare, sul suo fascicolo il sigillo è definitivo, fine pena: mai.

La polarità opposta di questo esercizio sulla dialettica del perdono che dal romanzo di Massimo Carlotto giunge sulle scene per la regia di Alessandro Gassmann è la figura del marito e padre delle vittime, Silvano Contin, la cui vita è stata devastata irrimediabilmente dal dolore. Tormentato dalle ultime parole della moglie in punto di morte – «È tutto buio, Silvano. Non vedo più nulla. Ho paura, ho paura, è buio» –, vive tra i simulacri dei suoi cari e cova un rancore sordo, pronto a esplodere quando l’ergastolano gli scrive per chiedergli quel perdono che solo gli consentirebbe di ottenere la grazia, o almeno la sospensione della pena, in quanto gravemente malato. Il detenuto ha infatti scoperto di avere un tumore, anche se non vuol sapere dove: «Che cazzo me ne frega di sapere dov’è. Se lo sapessi mi toccherei sempre la parte malata, magari lo stuzzico e quello si mette a mordermi in anticipo».
Il galeotto (Claudio Casadio) e il “regolare” (Giulio Scarpati), personaggi uguali e opposti, non s’incontrano mai in scena, rimangono chiusi nelle rispettive carceri mentali e i loro monologhi prendono forma in spazi altrettanto soffocanti, resi efficacemente dalla scenografia di Gianluca Amodio e dalle luci di Pasquale Mari, da cui scartano le incursioni psicologiche della videografia firmata da Pasquale Schiavoni. Alla cella del carnefice corrisponde la cucina della vittima, o il suo banchetto di calzolaio – il lavoro che s’è ridotto a fare per non dover fingere nelle relazioni sociali. Mentre quest’ultima inveisce e sogna di mettere le mani almeno sul rapinatore scampato alla giustizia, l’altro fantastica sulla possibilità e trascorrere i suoi ultimi anni di vita in Brasile tra donne whisky, grazie alla sua parte di refurtiva che il complice ha custodito per tutti questi anni. Uscirà solo perché sua madre, per ottenere il consenso di Contin, gli rivelerà il nome del bandito libero, e lui si farà giustizia da sé, con un’efferata esecuzione.

Tanta ferocia e assurdità ottundono la coscienza di Contin, ormai pago di vendetta, e invece turbano profondamente il rapinatore malato, che finisce per consegnarsi alla polizia accusandosi del nuovo assassinio. Le parti sembrano dunque invertirsi, ma in realtà è l’ergastolano il solo a riposizionarsi nei termini di una compassione che Contin non conosce ora come non ha mai conosciuto prima. E come il detenuto è il solo dei due a superare la dialettica della colpa e del perdono con una scelta che è di sacrificio personale e di redenzione universale, così Casadio è tra i due attori quello che meglio incarna la tensione tra il realismo delle forme (il linguaggio crudo, le sbarre della cella, lo spioncino) e l’aspirazione simbolica di certi scarti improvvisi (le immagini che passano sul velo di tulle, l’ingrandimento delle gocce di valium che scendono nel bicchiere, i dialoghi con un alter ego immaginario muovendo la mano come un puppet, il racconto in dialetto romagnolo della passeggiata in spiaggia con una vecchia prostituta, unica gioia della sua breve libertà).
Gassmann torna così, come lui stesso dichiara, a indagare «con sguardo neutrale e inquietante, tra le pieghe di un’umanità senza speranza», proseguendo il percorso intrapreso due anni fa con Roman e il suo cucciolo. La scelta di un interprete così fortemente connotato, nell’espressione fisica e vocale, come l’attore ravennate, gli ha consentito di evitare una scivolosa identificazione geografica della vicenda, scampando ai banali luoghi comuni sul nordest che lo stesso Carlotto non perde occasione di alimentare, per orientarsi invece su un terreno in cui la questione della giustizia e del perdono lascia a tratti emergere le sue radici ancestrali.

Fernando_Marchiori

2012-11-25T00:00:00




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