Nel cuore di Beckett, oltre Beckett, malgrado Beckett

Cap au pire di Maguy Marin al Festival d'Automne

Pubblicato il 25/11/2012 / di / ateatro n. 141

Negli ultimi anni della sua vita, Samuel Beckett ha scritto delle opere molto brevi, spesso oscure, dove la lingua e il significato sono portati a dissoluzione, ivi compresa la parola, che rimane ad essere non già significante, ma cosa, immagine spuria, in un (dis)ordine senza sintesi nel quale non è prevista nessuna sintassi logica, né accorparazione di parole a costruire, suppur sfuggevoli, discorsi. La sua prosa procede per impulso, come traducendo sempre un aspetto visuale, una forzata visione dell’occhio o della mente. Tale scomposte prove – prose – mettono a dura prova la pazienza e l’intelligenza del lettore, al quale, seguendo ad un prima lettura, risultano non solo ostiche, ma vieppiù incomprensibili. Si percepisce un fondo di bellezza che si rivela solo ai più curiosi, che tornano all’origine del tormento per rifare il percorso di lettura, rivelandosi come lucida e tagliente immagine, come straordinari pezzi che interrogano. Ma cosa? Chi?

Foto di © Laurent Philippe / fedephoto.com.

Fra le più difficili, forse la palma del peggiore, o migliore, pezzo tardivo nell’opera di Beckett, va a Worstward-ho, titolo mutuato dal linguaggio marinaro che significa che l’ovest è in vista (westward-ho nella vulgata ufficiale), la meta giunta, mentre nella mutazione della prima parte della parola, finisce coll’assumere il significato di “peggio tutta” o “peggio in vista”. Nell’unica traduzione ancora in commercio in Italia il titolo è rimasto in originale, mentre in francese fa Cap au pire.
Maguy Marin ha coraggio colossale a mettere in scena questa prosa, in una tenebra assoluta che non lascia scampo a nessuno, né allo spettatore né alla danza, cui lo spettacolo viene ascritto come genere: Maguy finisce ciò che Beckett ha iniziato, porta a compimento quel processo di dissoluzione che dalla lingua alla parola con la Marin arriva in scena. Bisognerebbe chiederle per quale motivo, quale urgenza l’ha spinta verso Cap au pire, ma chi frequenta assiduamente, aspramente Beckett, sa che la risposta è contenuta nella domanda, nella frequentazione.
Cap au pire va in scena per il programma del Festival d’Automne a Parigi, nella retrospettiva dedicata all’artista di Toulouse, in una sala al 104. Prima di entrare ci pregano di spegnere “realmente” i cellulari, di non lasciare per nessuno ragione lo schermo attivo, che non si illumini. Ci si immagina cosa ci aspetta: il “tutto buio”, tutto nero. La prima scena è un lampo, squarcia il buio assoluto con la forza di una rasoiata su una pelle glabra, dura un attimo, illumina ma non rivela, c’è il tempo per cogliere solo una larga striscia di luce al proscenio. Poi ripiomba il buio, assieme ad una voce che dice il testo, con un ritmo franto, spezzato, dove ogni frase vive per se stessa, senza legami, una dizione paratattica del copione, mentre a tratti una luce flebile illumina lo spazio, porzioni di spazio, seguendo, rivelando, in questa notte senza interruzione, luoghi limitati. La luce è flebile, quando non opaca, appare da nessun luogo, scompare in nessun luogo, lotta con il buio, ancora torna ad allargare lo spazio, poi un personaggio, forse un vecchio, l’occhio fa fatica ad abituarsi, si percepisce lo sforzo delle pupille che si allargano per meglio fissare, mentre il testo ripete parole come “meglio peggio”, “verso il peggio”, “fallire”, “ancora”, l’uomo è in ginocchio o piegato, non si capisce se di spalle o no, ha una capigliatura bianca, quella si intravede, poi si scoprono un vecchio e un bambino, teste bianche opache e mani bianchissime che si tengono, si muovono come se dondolassero, destra sinistra, destra sinistra, camminano, rimangono fermi, si allontanano, ma lo si percepisce appena, in questa oscurità appena sfiorata da questa luce grigia, lattiginosa, opalescente, che non rivela, disegna contorni sfocati. Così, in questo vuoto che ci assale, è lo spazio a danzare, la luce, che diventa onda, che illumina solo dove vede, che lotta ancora con un altro spazio che sfugge, che si fa tenebra.
Lo spettacolo si dipana come una sequenza seriale di luce e buio, ma luce e buio non sono correlati né antinomici, hanno realtà e ontologia a prescindere l’uno dell’altro, esistono separatamente e in sequenza, la luce diventa la musica, l’unica, grazie alla quale lo spazio danza, perché rimbalzando su di essa, lo spazio su la luce, non viceversa, i diversi luoghi prendono corpo, esistono, si direbbe, come proiettati fuori dalla testa che li pensa, ecco che appare un legame, fra luce e buio, perché è la testa che pensa lo spazio e pensandolo lo illumina, ed è la stessa testa che pensa prima l’uomo in ginocchio, poi le ossa, poi il dolore dell’uomo in ginocchio, che si alza in piedi, come se questa verticalità, il tentativo di recuperare la verticalità con la posizione eretta, fosse garanzia della sparizione del dolore, ma il dolore rimane, ce lo dice la voce che diventa sempre più un martello, dentro i nostri occhi, perchè si comincia a sentire con gli occhi, e la luce, sempre più flebile, evanescente, a tratti diventa quasi chiara, ci restituisce il corpo, i corpi, i due, l’uomo e il bambino, l’uno, l’uomo con la testa fra le mani, la donna, una vecchia donna, perchè improvvisamente appare una donna, vecchia donna, evocata dal testo, protesa sul corpo dell’altro, forse del vecchio, forse dell’uomo con la testa china, danza quasi come un’aquilone, perchè tutte queste “ombre” sembrano non avere peso, ed è questo il capolavoro della Marin, restituire il senso della presenza, in una dimensione senza gravità nella quale questi corpi perdono peso, diventano forme pure, sospese, come se chi guarda fosse dentro la testa della voce, o fosse nella voce, come se tutto diventasse spazio e pensiero materiale, ma senza massa, e la sofferenza delle ombre in scena diventa la nostra stessa sofferenza, diretti al peggio, per fallire, meglio fallire, meglio peggio fallire, ancora, ancora, litania di parole che diventano tortura, e difatti parte del pubblico non regge, fugge, sfidando la raccomandazione iniziale di tenere spenti gli schermi dei cellulari che invece si mostrano ben accesi, per farsi largo, per non cadere scendendo dalle scale, luce che illumina una personale via di fuga, mentre chi rimane accetta con la Marin di fare questo viaggio, dentro un vertigine verticale, orizzontale, dove tutto è vuoto, tutto è oscuro, tutto è Beckett, tutto è teatro o danza o come più vi piace chiamarlo, “un’esperienza”, come mi dirà lei alla fine, quando incontrandola le comunico il mio godimento e le mie uniche parole: “tutto è oscuro, tutto è vuoto, tutto è Beckett”.
Tutto questo è una lingua nuova che traduce ciò che dovrebbe forse essere, in questo scorcio di tempo, lo spettacolo dal vivo, o almeno uno delle sue forme.
Il pubblico, alla fine, applaude. Liberato. Alla fine si applaude. Alcuni con convinzione altri per educazione: poi la sorpresa finale quando si accendono le luci sul palco: non c’erano attori sulla scena, tranne uno. Tutto il resto, pupazzi, marionette, abbandonate lì, a terra, sulla sinistra della scena, a formare un cumulo, “l’impossibile cumulo” direbbe Clov, cumulo di ombre che si pensavano umane, e invece sono marionette, ed è in questo tragico che si rivela il grottesco, ma il grottesco cos’è, non lo puoi spiegare, lo fa nei testi Beckett. Questa immagine grottesca, partendo da Beckett, l’ha creata Maguy Marin.

Foto di © Laurent Philippe / fedephoto.com.

Salvo_Gennuso

2012-11-25T00:00:00




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