La via negativa del teatro: Nassim Soleimanpour
White Rabbit Red Rabbit e Blind Hamlet, due testi del drammaturgo iraniano al Fringe di Edimburgo
Tra i più di 3000 spettacoli offerti quest’anno dal Fringe Festival di Edimburgo nell’arco di un mese ogni tanto può capitare di raccogliere qualche perla. È il caso dei due lavori del drammaturgo iraniano Nassim Soleimanpour, White Rabbit Red Rabbit e Blind Hamlet, prodotto il primo da Aurora Nova, da tempo un marchio di garanzia per il Festival, il secondo da Actors Touring Company, e presentati negli spazi dell’Assembly, che, assieme alla Summerhall, sono il cuore pulsante del festival. Se White Rabbit Red Rabbit torna al Fringe dopo una fortunata circuitazione che dal 2011 lo ha portato in giro per il mondo (con una tappa anche in Italia nel 2012 a Viterbo in occasione del Festival Quartieri dell’Arte), Blind Hamlet è una prima assoluta.
Si tratta di due capolavori di drammaturgia per cui è veramente difficile esprimere una preferenza. Sono espressione di una stessa impronta, di una stessa ratio drammaturgica che ha la capacità e la sapienza di affondare nell’essenza più profonda del meccanismo teatrale e svelarlo. Uno svelamento che avviene per sottrazione, perciò si potrebbe applicare un principio filosofico e osservare come il teatro in queste due pièce si riveli per via negationis, ossia quel principio di negazione espresso originariamente nelle enunciazioni della logica aristotelica e utilizzato successivamente dalla teologia negativa in vari contesti filosofici, dal neoplatonismo alla filosofia medioevale e oltre, per ottenere esattamente il contrario della negazione, ossia la più alta affermazione, nel caso della teologia negativa di Dio, nel nostro caso di quella entità difficilmente definibile che siamo soliti chiamare teatro. La negazione avviene qui a opera della scrittura: accade cioè che una volta tanto non sia il testo ad essere destrutturato, per fare emergere una verità altra, che sia la presenza attoriale o spaziale, ma è la potenza stessa della scrittura ad affermare tutti gli elementi che concorrono alla possibilità del teatro. Una volta tanto, o una volta dopo tanto, il drammaturgo è il fulcro di tutto; e Nassim Soleimanpour ci mostra che lì dove la possibilità del fare teatro è messa in discussione, minata nelle fondamenta, ecco che il teatro si svela nell’affermazione più piena delle sue componenti.
E, a confrontare i due lavori, il meccanismo di sottrazione è progressivo.
A cominciare da White Rabbit Red Rabbit, in cui il ruolo dell’attore, dell’unica presenza prevista dall’inizio in scena e che cambia a ogni spettacolo, è minato da subito: riceve il copione quando è già sul palco, lo estrae da un busta chiusa che apre per la prima volta di fronte al pubblico e lo legge per la prima volta in quel momento. A dettare il testo, a guidare progressivamente l’appropriazione che l’attore fa del copione e del suo ruolo è, come si scopre via via, l’autore, il drammaturgo, vero e proprio deus ex machina della pièce. Allora le voci dei due, autore e attore andranno progressivamente ad accavallarsi, identificarsi per poi scindersi di nuovo… in un gioco continuo che a volte può, per l’attore, risultare anche crudele. E come in tutte le opere d’arte degne di essere considerate tali, la vicenda personale dell’autore e la necessità oggettiva dell’opera vengono magicamente a coincidere, nell’ordito del testo si spiega la vicenda personale dello stesso drammaturgo che scrive da una distanza obbligata: scrive dall’Iran a un teatro e un pubblico occidentale che può solo raggiungere con l’immaginazione.
Ho avuto il piacere di conoscere Nassim a Teheran nell’elettrico gennaio 2011, quando le vicende tragiche del vicino Egitto cominciavano a far sentire i loro pesanti effetti. Era impossibilitato a lasciare il suo Paese perché gli era stato negato il passaporto, perché si era rifiutato di fare il servizio militare per non interrompere gli studi di teatro. In questo confino è nato White Rabbit Red Rabbit e non stupisce che un’opera di teatro possa essere stata stimolata da una condizione in cui i confini e le distanze hanno un peso fisico e psicologico così forte…
Il teatro di fatto si alimenta proprio di questo: vive i (e vive ai) limiti, vive in un ideale esilio che sia altrove o a casa propria, perché si nutre costantemente di straniamento, di differenza, di confronto con l’altro e di profonda insicurezza. Da questa distanza che l’autore riporta nel testo parlando espressamente della sua condizione si comprende anche il rapporto che instaura con il pubblico e il ruolo che fa giocare al pubblico, anch’esso trascinato assieme all’attore nella fragilità del tutto. Il copione, letto dall’attore, esige che alcune persone del pubblico – scelte a caso e coerentemente al dettato del testo – siano chiamate a prendere parte alla rappresentazione, e diventino esse stesse attori. Anche lo status di spettatore – solitamente rilassato – è quindi sottoposto a negazione, e l’improvvisa e inaspettata elezione, per quanto minima, al ruolo di attore ha la potenza di mettere profondamente in questione la sua stessa condizione. La condizione dello spettatore viene messa alla prova anche dall’esigenza del drammaturgo di entrare in dialogo con esso, con e senza la mediazione dell’attore: a un membro della platea chiede di prendere nota di parte di quanto accade, anche con l’ausilio della ripresa fotografica e di spedirlo al suo indirizzo email. E la storia dei due conigli incastonata nella struttura complessiva del copione e agita sul palco è un pretesto, un nucleo elementare di plot, per catturare l’attenzione nel vortice fragilissimo di quanto può o non può accadere in scena.
Con Blind Hamlet, la cui regia è firmata da Ramin Gray, il gioco diventa più complicato, complice una sottrazione ancora più radicale delle componenti che fanno teatro. Questa volta in scena scompare anche l’attore e a catalizzare l’attenzione è la sola voce di Nassim, riprodotta da un registratore azionato di volta in volta da un direttore di scena presente durante tutto lo svolgimento dello spettacolo. La prima traccia riprodotta è una anziana voce maschile – che scopriamo poi essere nella finzione scenica la voce del padre del drammaturgo restituita dal suo vecchio dittafono – che legge i primi versi dell’Amleto, ossia la tragedia che il nostro autore non ha mai letto e comincia ora a leggere con molta difficoltà per un problema all’occhio che rischia di renderlo cieco. La questione della presenza o assenza, tanto determinante nell’esperienza del confino di Nassim e agita così radicalmente in scena, trova un corrispettivo nella domanda delle domande, quell’”essere o non essere” che Shakespeare ha messo in bocca ad Amleto; e però l’”essere e non essere” si intreccia con l’altra questione teatrale per eccellenza: il vedere e non vedere che sembra convocare in scena un’altra figura, quella del cieco Edipo o quelle degli illustri scrittori che non a caso vengono nominati: Omero, Milton, Joyce, Borges… Di nuovo l’esperienza personale di Nassim si intreccia alla finzione poetica: adesso sappiamo che il nostro possiede un passaporto e può viaggiare liberamente per il mondo poiché ha “miracolosamente” scoperto un difetto all’occhio che lo esonera del servizio militare.
Allora da un altrove che è via via una stanza di un appartamento a Mosca e l’anticamera dello studio dell’oftalmologo da cui va a farsi curare, il drammaturgo si fa presenza attraverso la traccia vocale capace di riempire il vuoto dello spazio teatrale. E’ una voce calda, suadente, in grado di convincere il pubblico anche questa volta a farsi attore, ad alzarsi e prendere posto nelle sedie appositamente predisposte dal direttore di sala. Sarà che ho riconosciuto una voce a me nota, ma l’effetto di questo rivolgersi diretto al pubblico è di tranquillizzare e mettere a proprio agio chi, seduto comodamente in platea, si ritrova improvvisamente catapultato sul palco. Con il pubblico in scena, che sale sul palco come se entrasse nello spazio mentale dell’autore e diventasse anch’esso paziente immaginario nella sala d’aspetto di un oftalmologo, ‘the play’ si connota ancora di più come gioco e si complica ulteriormente, coinvolgendo a distanza anche gli spettatori rimasti in platea. Il riferimento all’Amleto, che significativamente l’autore dichiara di aver terminato di leggere a fine pièce, rimane sullo sfondo come un magnete catalizzatore di senso e le motivazioni che guidano l’interazione ruotano attorno a un gioco di sguardi e di progressiva eliminazione dei vari partecipanti; le voci dal vivo del pubblico/attore si intrecciano a quella registrata, l’improvvisazione si incastra con quanto è predefinito, il meccanismo di sottrazione procede spedito, l’incertezza e fragilità dell’esito sono riaffermate battuta dopo battuta, e caso e necessità si incontrano lungo quel pericoloso crinale che è sempre e comunque, nella riuscita o meno, garanzia di vitalità.
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