Telenovela Čechov. Le tre sorelle tra cinema e teatro di Christiane Jatahy

E se ellas fossem para Moscou alla Biennale Teatro

Pubblicato il 02/09/2016 / di / ateatro n. 159

Al termine della prima parte, quella “cinematografica”, di E se ellas fossem para Moscou possono sorgere degli internrogativi sulla tenuta della seconda parte, quella dichiaratamente “teatrale”, dello spettacolo che Christiane Jatahy ha tratto da Tre sorelle di Čechov. Dopo novanta minuti di serrata indagine intorno e dentro i personaggi, con la telecamera che ne segue la deriva sentimentale e sembra stanare perfino quelle finzioni che le tre donne non confessano neppure a se stesse, cos’altro potrà mai aggiungere una riproposizione dal vivo del medesimo allestimento? Dubbi infondati, perché le due parti sono davvero complementari, tant’è che a Venezia, in prima italiana per la Biennale Teatro, sono andate in scena simultaneamente in due repliche incrociate in due navate attigue delle Tese dell’Arsenale. Una dilatazione del luogo scenico perfettamente corrispondente alla dilatazione che nello spettacolo della regista brasiliana cinema e teatro operano reciprocamente nei rispettivi spazi fino a ricavare per sovrapposizione una più vasta area d’indagine comune. Ne risulta un effetto di scambio e integrazione di linguaggi. La prima parte molto teatrale per tempi, successione di scene, percezione quasi fisica dei corpi degli attori, scandagliati fin nella loro intimità; la seconda costruita come un grande set cinematografico, con gli attori costantemente ripresi da una o più telecamere e perciò allontanati in una visione paradossalmente più mediata. Un esperimento riuscito, per quanto non perfettamente compiuto in quanto non arriva (almeno nella versione veneziana) alla proiezione in tempo reale del materiale girato in scena.

E se elas fossem para Moscou

E se elas fossem para Moscou

Come nel testo cechoviano, anche queste Olga, Maša e Irina colte in un modesto interno brasiliano sono sempre “da un’altra parte”, e precisamente in una dimensione di rappresentazione della propria vita o di proiezione in un’illusoria trasformazione imminente. La telecamera, manovrata da una sorta di servo di scena ma anche dagli stessi personaggi, è un quarto attore, del quale non si dimentica mai la presenza e che diventa ben presto filtro della visione dello spettatore, il quale è a volte esplicitamente invitato a guardare attraverso l’obiettivo, tra voyerismo e testimonianza oculare. Un neobrechtiano antidoto tanto all’immedesimazione nella vicenda quanto all’adesione a una sua interpretazione, visto che l’occhio del cameraman è per Jatahy anche «la sconcertante testimonianza di racconti asfissianti e romantici, capace di istallare un legame unico con lo sguardo dello spettatore nella rilettura analitica e creativa dei classici». Forme e temi cari alla regista, che si muove su questo terreno di ricerca da molti anni, in particolare con spettacoli come Corte Seco (2010-2012) e lo strindberghiano Julia (2011), presentato con grande successo l’anno scorso al festival veneziano.

E se elas fossem para Moscou

E se elas fossem para Moscou

E se ellas fossem para Moscou affronta e usa Čechov come un dispositivo per interrogarsi sul desiderio di cambiamento e sulla difficoltà di realizzarlo nella società contemporanea, sulla veridicità delle immagini e sulla falsificazione della vita reale. Eppure siamo di fronte a un lavoro profondamente cechoviano. In questo stesso sfrangiarsi del dramma, nel moltiplicarsi delle prospettive e dei piani di rappresentazione prende nuova forma la rarefazione caratteristica delle opere dello scrittore russo che così spesso sfugge anche a grandi registi o viene resa in modo didascalico. Non mancano le sospensioni temporali: il richiamo all’inafferrabilità del presente o al trascorrere delle stagioni; il reiterato motivetto alla chitarra elettrica suonata dalla stessa Irina; l’alternarsi di momenti ipercinetici ad altri di immobilità; i tuffi nella vasca come un’ipostasi della rottura esistenziale, del salto nel vuoto; perfino un omaggio a Stanislavskij con i famosi grilli in sottofondo.

E se elas fossem para Moscou

E se elas fossem para Moscou

Ma il ritmo dello spettacolo è leggero, i dialoghi giocano con il genere telenovela, la quarta parete è un diaframma sottile che svanisce nei cambi scenografici a vista, nello sguardo diretto sugli spettatori (anche alla fine della proiezione, con le attrici passate dalla scena teatrale nella sala accanto alla ripresa dal vivo davanti al grande schermo), nel coinvolgimento del pubblico, chiamato a brindare con gli attori, a ballare in scena con loro. Le tre attrici – Isabel Teixira, Julia Bernat e Stella Rabello – rendono efficacemente la rete di complesse relazioni sentimentali e i differenti caratteri dei personaggi, con una tenuta interpretativa sorprendente, sia nelle parti improvvisate che nelle partiture precisamente calcolate (confrontabili nel passaggio dalla parte filmata a quella recitata dal vivo). Quel che più conta – e senza che mai venga meno il senso profondamente tragico della cechoviana riflessione sulla condizione umana, sulla vana ricerca della felicità e, dunque, sulla necessità di «imparare a vivere» – in questo vortice di slanci e cadute, ricordi e progetti, crisi di nervi e confessioni liberatorie si ride, non solo con amarezza. Del resto, per Čechov Tre sorelle non era che un vaudeville.

 




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