Attraverso il corpo – fuori dal corpo

Il potenziale dell’Arte come veicolo ai tempi del coronavirus

Pubblicato il 12/07/2020 / di / ateatro n. 173

Questo testo è una versione modificata del saggio “Przez ciało – poza ciało” pubblicato sul numero 19. della rivista degli studi teatrali “Performer” dell’Istituto “Jerzy Grotowski” di Breslavia.

Il teatro polacco al tempo della pandemia

Oggi la maggior parte del teatro polacco sta vivendo con ogni probabilità il suo più terribile incubo dai tempi della diffusione del cinema di massa: le registrazioni video poco attraenti di spettacoli non sono in grado di competere con le produzioni televisive o cinematografiche, dove il montaggio segue regole completamente diverse. Penso soprattutto a quelle forme istituzionali di teatro che Dariusz Kosiński ha chiamato una volta “teatro della città della cultura” (1) e che equivalgono, grosso modo, ai teatri italiani contro i quali Pippo Delbono punta il dito nei suoi spettacoli.
I teatri in Polonia sono stati chiusi l’11 marzo. Da quel momento la maggior parte dei teatri offre in rete le videoregistrazioni di alcuni tra i più importanti spettacoli degli ultimi anni e alcuni spettacoli che hanno debuttato nella stagione 2019/2020.
Altri ancora sperimentano con la forma, proponendo per esempio “repertori del teatro online” creati appositamente (il primo a farlo è stato il Teatro Ebraico “Ester Rachel e Ida Kamińska” di Varsavia) o le “anteprime dei tempi della pandemia” (come Nowy Dekameron, produzione di gruppo del Teatro “Helena Modrzejewska” di Legnica).
Non mancano letture sceniche e letture di poeti (come il ciclo del Teatro Nazionale di Warsawia Poeti polacchi) oppure progetti su scala minore ma interessanti perché rivolti anche agli spettatori stranieri, come la lettura di poeti contemporanei in varie lingue nell’ambito del Miłosz Festival in collaborazione con Stary Teatr di Cracovia.
La situazione in cui si è trovato lo spettacolo dal vivo a partire dalla prima metà di marzo è ancora più difficile per i teatri che – come ha osservato ancora Kosiński (2) – abitualmente costituivano la loro poetica sulla compresenza fisica nello stesso luogo e nello stesso tempo degli attori e degli spettatori. Questa presenza è diventata condizione sine qua non dei teatri di sperimentazione a partire degli anni Sessanta. In Polonia è stata fondamentale soprattutto per il filone del “teatro polacco di trasformazione” radicato nell’opera di Adam Mickiewicz e di Juliusz Słowacki (soprattutto nell’esperienza di quest’ultimo della traduzione de Il Principe Costante di Calderon de la Barca in polacco) e basato su una matrice liturgica, per trovare il suo punto culmine nell’atto totale di Jerzy Grotowski. Le varie limitazioni di partecipazione alle celebrazioni liturgiche “dal vivo” hanno messo in discussione proprio questa matrice liturgica.

Un corpo obsoleto (3)

Nel novembre 1995 Stelarc, un artista australiano di origini cipriote, ha ripetuto e superato creativamente nella realtà post-biologica la più riconoscibile tra le performance di Marina Abramović – Rhythm 0 (Studio Mona, Napoli 1974) – trasponendola nella rete. Fu un evento affascinante, commovente e forse anche un po’ toccante. Stelarc con la sua azione minava quella che sarebbe diventata la base dell’estetica del performativo di Erika Fischer-Lichte, ispirata proprio dalle performance della Abramović e basata sulla compresenza fisica dell’artista e dello spettatore nello stesso spazio-tempo come condizione costitutiva di spettacoli per eccellenza, cioè di spettacoli che producono un loop di feedback autoreferenziale (4).
Rhythm 0 è stato l’ultimo tassello della serie Rhythm, realizzata da Marina Abramović tra il 1973 e il 1974, e anche la prima performance nella cui struttura l’artista aveva previsto le azioni dei partecipanti, e persino fino a un certo punto aveva subordinato il proprio potenziale performativo alle azioni del pubblico.
Su una parete della sala della galleria di Napoli dove si svolgeva la performance erano state esposte queste informazioni:

“I am the object. During this period I take full responsibility”.

Sul tavolo di fronte a lei, Abramović aveva disposto settantadue oggetti. I visitatori della galleria potevano usarli liberamente sul corpo della performer mentre lei non reagiva in alcun modo alle loro azioni. I partecipanti alla performance di Stelarc potevano agire sul suo corpo altrettanto liberamente, ma con una differenza: dovevano servirsi di un sistema collegato alla rete informatica.
Stelarc, come la Abramović, aveva studiato pittura per poi abbandonarla a favore della performance. Tra le sue prime azioni, una serie di sospensioni (Suspensions, venticinque in tredici anni), realizzate negli anni Ottanta all’aperto, in luoghi appartati o in piccole gallerie, in presenza di un piccolo numero di persone. Inizialmente l’artista si serviva di macchinari solo per appendere il proprio corpo ai ganci; nelle successive realizzazioni ha fatto ricorso ad apparecchiature che registravano le attività elettriche di muscoli e di nervi periferici (EMG) per visualizzare i processi interni che si verificavano nel suo corpo

“anestetizzato e pacificato che era obsoleto ma ancora presente. Il [suo] corpo [era] esposto alla vista del pubblico come obsoleto, vuoto, assente, privato del potere causativo e che agiva in modo piuttosto involontario [absent from its own agency and performing largely involuntarily]”. (5)

Stelarc, Ear On Arm Suspension.

Allo stesso tempo, come ha sottolineato lo stesso performer in un’intervista, quando Stelarc afferma che il corpo è obsoleto non intende dire che possiamo farne a meno. Vuol soltanto dire che a essere obsoleto è il corpo umano che conosciamo e che ognuno di noi sperimenta giorno dopo giorno. L’obiettivo di Stelarc è invece cercare e sperimentare costruzioni anatomiche alternative (6). Pertanto nelle sue azioni non si tratta tanto di eliminare e di domare il corpo, quanto di espanderlo usando i risultati delle ricerche di biotecnologia e di genetica, e di ridefinendolo. A tal fine, ricorrendo a vari strumenti, a volte discutibili dal punto di vista della bioetica e probabilmente ammissibili soltanto nel campo dell’arte – con ogni nuova performance ricostruisce e ridefinisce il suo corpo e crea dei laboratori dove mette alla prova questo nuovo corpo, agendo a volte da solo e in altri casi lasciando agire altri “attori”.

Stelarc, Third Hand

Nella serie Amplified Body sono i processi fisiologici del corpo a guidare varie azioni performative; in Third Hand, un work in progress sviluppato tra il 1980 e il 1998, il performer era invece dotato di una terza mano meccanica: un arto perfettamente funzionante con proporzioni reali attaccato alla sua mano destra naturale e controllato da impulsi elettrici dei muscoli addominali e delle gambe. Sperimentando la terza mano, Stelarc esplorava le possibilità dell’interazione biologica del corpo con la sua protesi intesa come eccesso; nel frattempo realizzava Fractal Flesh e Ping Body, in cui il suo corpo “aumentato” veniva collegato a un vasto sistema teleinformatico attraverso il quale i partecipanti alla performance potevano agire sul suo corpo servendosi di un apposito software.

Stelarc, Ping

Nel novembre 1995 Ping Body, definita da Stelarc “Internet Actuated and Uploaded Performance”, ha coinvolto i partecipanti che introducevano i comandi da tre centri diversi collegati in un’unica rete: Centre Georges Pompidou, Media Lab a Helsinki e il convegno “Le porte della percezione” che si teneva ad Amsterdam. Nella registrazione video della performance, vediamo il corpo del performer muoversi in convulsioni mentre su alcuni schermi possiamo seguire rappresentazioni grafiche di varie parti del corpo e le loro fasi di movimento, immagini EMG e altri parametri vitali (7). In diverse occasioni Stelarc ha spiegato che l’obiettivo di Ping Body non era di mostrare un pupazzo inerte connesso alla rete, le cui azioni sono determinate dai comandi altrui, ma un corpo che interagisce con la rete grazie alla quale potrebbe pure essere collegato a un altro corpo.
In questa ottica, Ping Body si piazza in linea con la ridefinizione della corpo intesa non come una degradazione, ma come una conseguenza di cambiamenti in atto nel mondo, perché, come sostiene Marshall McLuhan

“tutti i media sono un’estensione di alcune capacità mentali o fisiche umane. […] L’ambiente elettronico è un’estensione del sistema nervoso centrale” (8).

Mettendo in discussione il corpo, Stelarc mette in discussione anche l’estetica del performativo, aprendo al contempo la strada alle definizione di liveness allargata alla categoria di incontri mediatizzati (ossia messi in onda in diretta), descritta da Philip Auslander (9). A differenza di Rhythm 0, in Ping Body il corpo del performer reagisce agli stimoli degli spettatori assenti “qui e ora”. Va però subito sottolineato che l’efficacia di questa performance non dipende da queste reazioni visibili. Infatti, se Stelarc provasse a mantenere il corpo immobile, la presenza dei partecipanti verrebbe comunque testimoniata dagli dispositivi che registrano i parametri fisici in risposta agli stimoli. Se l’interazione di Stelarc con i partecipanti fosse un’interazione mediatizzata, nel senso che non avviene “qui e ora”, mi sembra una questione da approfondire, che comunque necessita di un’analisi che va al di là dell’obiettivo di questo testo.
La decisione di sottomettere il proprio corpo alle azioni degli spettatori/partecipanti della performance ha funzioni diverse per la Abramović e per Stelarc: tuttavia in ambedue i casi il fatto che non vediamo alcun segno esterno del processo interno del performer non significa che tale processo non si verifichi. Inoltre nel loro lavoro l’unità di tempo e di luogo viene costantemente ridefinita.
Ai tempi della pandemia la conclusione di questa breve digressione su Abramović e Stelarc è che la rete consente nuove forme post-biologiche di interazione o di presenza (senza virgolette). Forse sono forme che noi, che soffriamo per la mancanza dello spettacolo dal vivo, non possiamo nemmeno immaginare.

“Per coloro ai quali non basta la Chiesa”

Non è solo la scarsa qualità delle registrazioni video che non ci permette di godere appieno dei valori estetici degli spettacoli dal vivo. L’esperienza di Ping Body costituisce una minaccia per il paradigma della presenza nello stesso spazio-tempo dell’attore/performer e dello spettatore/testimone per ragioni molto più profonde
Con questa affermazione veniamo al “teatro polacco di trasformazione” che nelle sue assunzioni novecentesche possiamo riassumere nella frase formulata da Juliusz Osterwa, fondatore insieme a Mieczysław Limanowski del Teatr Reduta che ha operato in Polonia tra le due guerre mondiali:

“Dio ha creato il teatro per coloro ai quali non basta la Chiesa.” (10)

Come ho accennato all’inizio, il teatro di trasformazione è basato su una matrice liturgica e per praticarlo – proprio come nel caso delle celebrazioni liturgiche – ancora nel marzo di quest’anno sembrava indispensabile la compresenza nello stesso luogo e nello stesso spazio di chi compie le azioni e di chi ne è testimone . La limitazione del numero di partecipanti ai riti e alle funzioni religiose in Polonia ha portato invece (e inevitabilmente) a una discussione all’interno della chiesa cattolica sull’efficacia delle pratiche religiose a distanza.
Per esempio, il 15 marzo alla Radio Polacca don Piotr Mazurkiewicz ha parlato di “comunione spirituale”; pochi giorni prima, il 9 marzo, sul portale “Więź”, don Andrzej Draguła, anticipando in un certo modo il lockdown della Polonia, aveva ricordato il Decreto del Concilio di Trento (1551) sul santissimo sacramento dell’eucaristia, sottolineando l’importanza e la validità della comunione spirituale; su “Tygodnik Powszechny”, un settimanale cattolico progressista di cultura, Piotr Sikora ha ricordato le pratiche spirituali di Meister Eckhart. Come illustra questa breve panoramica, la pandemia ha fatto riscoprire alcune pratiche spirituali antiche, legate più al desiderio e all’atto di volontà che agli obblighi imposti dall’istituzione ecclesiale.
In questa situazione, è impossibile non porsi la domanda sull’efficacia delle pratiche teatrali che si rifanno al paradigma della liturgia, e quindi cercare una soluzione al compito che Grotowski ci ha lasciato in Performer: come toccare l’intoccabile e ciò che nasce sviluppando l’Io-Io. Del resto questo processo che non passa per il “corpo-massa”, ma attraverso un “organismo-canale” in cui circolano le forze vitali.

L’ultima foto di Georges Gurdjeff, Evian, 1948.

L’essenza di questo processo è il percorso verso il corpo dell’essenza che – come dice Jerzy Grotowski in Performer – “si può riconoscere nella foto di Gurdjieff vecchio seduto su una panchina a Parigi”. La dichiarazione nel manifesto dell’ultima fase della vita artistica di Grotowski, secondo cui il corpo dell’essenza può essere riconosciuto in una foto di un vecchio in posizione seduta, cioè sulla rappresentazione [sic!] di un’azione che aveva poco in comune con le attività che si suole chiamare “Arte come veicolo”, era controversa: e infatti lo stesso Grotowski avvertì la necessità di tornare su questa foto in un altro suo testo, Era come un vulcano (11).
Ritornando all’immagine di Gurdjieff, Grotowski non ha rinnegato le osservazioni che aveva fatto in precedenza. Ha preferito precisare che a un certo punto il solo corpo non basta più, semplicemente perché tutti i corpi invecchiano e invecchiando diventano meno agili. Con questo ha voluto aprire una prospettiva per il futuro. E questo a sua volta apre il campo per discutere di tali forme dell’atto totale che, usando la precedente esperienza dell’agire (che per Grotowski rimane comunque il necessario presupposto dell’atto totale), allo stesso tempo la superano.

NOTE

1. Dariusz Kosiński, Teatra polskie. Historie, Warszawa, PWN, Instytut Teatralny im. Zbigniewa Raszewskiego 2010.

2. Dariusz Kosiński, Na linii i trzy kroki dalej, „Tygodnik Powszechny” 202 n. 21 (22.05.2020).

3. Attingo in questa parte da un mio testo precedente, dedicato a Stelarc e alla Abramović: “Przestarzałe ciało. Próby o estetyce performatywności w rzeczywistości postbiologicznej”, in Artysta: biokulturowy interfejs? a cura di Marek Pieniążek, Wydawnictwo Edukacyjne, Kraków, 2017, pp. 75–84.

4.Erika Fischer-Lichte, Estetyka performatywności, przeł. Mateusz Borowski, Małgorzata Sugiera, Księgarnia Akademicka, Kraków, 2008, s. 42–55.

5. Vedi: http://stelarc.org/?catID=20316 (26.05.2020), traduzione dell’autrice.

6. Incontro alla Foundation for Art and Creative Technology del 2011 con Liz Carr (26.05.2020): https://www.youtube.com/watch?v=Qhc7OhegSdk.

7. La registrazione è disponibile al link https://www.youtube.com/watch?v=smdBFx1EYGU (20.06.2020).

8. Marshall McLuhan, Quentin Fiore, The Medium Is the Massage: An Inventory of Effects, New York – London – Toronto, p. 26, 40.

9. Philip Auslander, Liveness: Performance in a Mediatized Culture, Routledge, London – New York, 1999.

10. A proposito dei legami tra il teatro di Grotowski e il Teatr Reduta di Juliusz Ostrewa è disponibile in italiano il testo di Zbigniew Osiński La tradizione di Reduta in Grotowski e nel Teatro Laboratorio, nota introduttiva e traduzione di Marina Fabbri, “Teatro e Storia” a. V, n. 2, ottobre 1990, pp. 259-300.

11. Entrambi i testi di Grotowski sono reperibili nel quarto volume di Testi tradotti ed editi da Carla Pollastrelli. La Casa Usher, Firenze 2016.




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InformazioniKatarzyna Wozniak-Shukur

Ricercatrice presso l’Università di Breslavia e redattrice della rivista di studi teatrali “Performer” dell’Istituto “Jerzy Grotowski”. Gestisce il laboratorio di traduzioni zywoslowie.pl. Ha tradotto in polacco Awareness. Dieci giorni con Jerzy Grotowski di Gabriele Vacis e diversi testi sul teatro contemporaneo e per la scena (tra cui scritti di Eugenio Barba, Gerardo Guccini, Marco De Marinis, Luigi A. Santoro, Jean-Marie Pradier e spettacoli di Pippo Delbono e Romeo Castellucci). Attualmente sta lavorando sulla traduzione italiana del libro di Dariusz Kosiński e Wanda Świątkowska dedicato ai primi spettacoli di Jerzy Grotowski per la CuePress. Altri post