Per una ecologia della multimedialità

Corpi e tecnologie nella XVII edizione di OperaPrima a Rovigo

Pubblicato il 08/10/2021 / di / ateatro n. 180

Due linee di ricerca emergono con forza dalla XVII edizione di OperaPrima, il festival di Rovigo curato da Massimo Munaro e dal Teatro del Lemming. Entrambe queste tendenze si rapportano giocoforza con l’esperienza della pandemia. La prima è legata al corpo, tornato a riappropriarsi di una dimensione realmente performativa dopo i sempre deludenti surrogati virtuali imposti da chiusure e divieti. La seconda è la pervasiva presenza del video in scena che, soprattutto fra gli artisti più giovani, sembra ormai componente imprescindibile e perfino “naturale” della scrittura scenica.

Sosta Palmizi: Esercizi di fantastica (foto Loris Slaviero)

Corpo significa anzitutto danza: Sosta Palmizi, Joshua Monten, Gennaro Lauro, Olimpia Fortuni, Fabio Liberti hanno mostrato nuove esperienze creative incentrate sui linguaggi corporei, molto diverse fra loro, ma accomunate da un lato da un interesse per il viaggio all’interno del soggetto e per le sue possibili trasformazioni, dall’altro da un rifiuto o comunque da una assenza del mezzo tecnologico.
Esplicitamente in Esercizi di fantastica di Sosta Palmizi, dove i tre danzatori (Elisa Canessa, Federico Dimitri e Francesco Manenti) cominciano i loro giochi liberatori e surreali, fra Jarry e Rodari, con la rottura del meccanismo prestabilito di cui sono prigionieri: l’apparizione di una farfalla sposta finalmente i loro sguardi dagli schermi alla dimensione dell’immaginazione.

Gennaro Lauro in Mondo (foto Loris Slaviero)

Gennaro Lauro muove dal contrasto fra immagini di sé e dimensione interiore. Il suo Mondo si compone di figure che alternano stasi e parossismi, ripiegamenti ed esplosioni, attraversando le contrastanti accezioni del piacere: soddisfazione e dover essere, provare piacere e (dovere) piacere agli altri. Una scissione che spinge a cercare nello sguardo altrui una rappresentazione di noi stessi e che porta il danzatore a scendere dal palco per continuare la sua performance tra le colonne del chiostro degli Olivetani. Il suo corpo si contrae e si dilata, cade e si rialza, frantuma l’azione in convulsioni che cercano una forma, lavorando a togliere, ritrovando il ritmo del respiro. Un ritorno in sé che Lauro, studi filosofici alle spalle, riporta alla necessità di “continuare a scolpirsi”. Traspare il richiamo a Plotino: «Non cessare di scolpire la tua propria statua interiore», l’unico modo per vedere la bellezza.

Game Theory (foto Loris Slaviero)

Alcuni spettacoli sono stati proposti in spazi urbani aperti, coinvolgendo (per quanto consentito dalle norme antiCovid) passanti e curiosi. Joshua Monten e i suoi danzatori hanno presentato la loro Game Theory in Piazza Vittorio Emanuele II: una coreografia molto ironica basata sugli elementi caratteristici di ogni gioco: regole e violazione delle regole, costrizione e libertà, ritualità e invenzione, sorpresa, sfida, adrenalina. Fabio Liberti ha invece danzato con Jernej Bizjak ai Giardini Due Torri un pas de deux che ha suscitato molta curiosità fra gli spettatori in platea e anche uno sgradevole episodio di intolleranza da parte di qualche passante. Insulti e provocazioni che non hanno fatto altro che confermare la giustezza della decisione del festival di proporre lo spettacolo in uno spazio cittadino di forte passaggio.

Jernej Bizjak e Fabio Liberti in Don’t, Kiss (foto Loris Slaviero)

Don’t, kiss, infatti, affronta un’analisi dinamica delle dipendenze e interdipendenze relazionali in una coppia. Per tutta la durata del lavoro, che intreccia geometrie complesse e climax emotivi, i due performer mantengono un punto di contatto fisico che diventa perno di tutte le evoluzioni, fulcro di rotazioni, contrasti, trazioni, torsioni. L’obbligo (o il divieto) imposto al movimento è spesso in scena uno stratagemma tecnico per sperimentare soluzioni, stabilire forzatamente una necessità fisica che aguzzi l’ingegno coreografico. Il fatto che in questo spettacolo tale punto di contatto obbligato sia stato individuato nelle labbra, ed evidentemente perché si trattava di due performer di sesso maschile, ha eccitato isolate reazioni omofobe tra gli occasionali spettatori di passaggio, subito contrastate da pubblico e organizzatori.

Paola Di Mitri in Vita amore morte e rivoluzione (foto Loris Slaviero)

La presenza pervasiva dei video in scena solo apparentemente può ricondursi alle sperimentazioni della postavanguardia o al videoteatro degli anni Novanta. L’interazione con gli strumenti video sembra non avere più nulla di “sperimentale”, appare piuttosto in una immediata continuità con la dimensione quotidiana di rapporto con le tecnologie. Rispecchia la simbiosi domestica e sociale fra corporeo e digitale, reale e virtuale che il lockdown ha esasperato e che i più giovani vivono con la dimestichezza dei nativi digitali. Dispositivi a vista, soluzioni tecnologiche artigianali, rimediazione di tecniche e linguaggi della tradizione sono tratti che accomunano le prove, presentate ancora in fase evolutiva e di studio, di Paola Di Mitri, Giulia Odetto, Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio. Nel raccontare il suo ritorno a Taranto in Vita amore morte e rivoluzione, Paola Di Mitri ricostruisce frammenti di memoria familiare e collettiva, personale e politica, adoperando supporti digitali (videocamera in scena, materiali live e preregistrati, originali e d’archivio proiettati sul fondo) per condividere una “geografia emotiva” che diventa ricerca etnografica partecipativa e denuncia politica. Perché la storia della sua famiglia è quella di molte famiglie tarantine e la storia di Taranto (investimenti sbagliati, lotte operaie, disastro ambientale) è quella di tante aree del Meridione (e non solo).

Edma Suliman e Giorgia Possekel in From Syria: is this a child? (foto Loris Slaviero)

From Syria: is this a child? ha solo bisogno di trovare una conclusione all’altezza del materiale già ottimamente montato, poco più di mezz’ora che assorbe lo spettatore in un crescendo emotivo e lo lascia profondamente toccato. Sbagliano Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio a presentarlo come uno spettacolo per ragazzi: il lavoro arriva al pubblico di ogni età, proprio perché riesce ad avvicinare, senza retorica né facile documentarismo, ad un tema pesante come quello della guerra. La chiave è semplice ed efficace. Giorgia ha 12 anni, in scena è sé stessa, non “recita” ma ha i tempi e la presenza di un’attrice che conosce la sua parte. È sé stessa, in quanto la storia che racconta è davvero autobiografica, ma ha imparato (sta imparando) a prendere le distanze da sé proprio attraverso la pratica teatrale e un lungo, delicatissimo lavoro di elaborazione che si deve alla sensibilità di Miriam Selima Fieno e che traspare nello sviluppo drammaturgico. La separazione dei genitori ha sconvolto la sua vita che, per frammenti, lei stessa presenta attraverso foto e filmati proiettati sul fondale. La casetta in miniatura al centro del palco incornicia un IPad con il quale la ragazzina interagisce. Scorrono le immagini di una normale vita familiare, l’infanzia felice, e poi un’intervista alla nonna sulla guerra. La guerra che la nonna ha vissuto da bambina, la guerra nel mondo di oggi, apparentemente così lontana.
Perché Giorgia cerca un senso a questo dolore che la sovrasta, cerca qualcuno con cui condividerlo, e lo trova in Edma, una giovane profuga siriana che diventa sua amica e le fa conoscere il proprio diverso dolore, quello di chi ha perso tutto a causa di un conflitto devastante. Edma entra in scena sbucando dalle proiezioni delle rovine delle città siriane distrutte dai bombardamenti. Immagini forti, ma che vediamo attraverso lo sguardo della ragazzina. Anche Edma è sé stessa, anche lei nel teatro trova (sta trovando) la forza di uscire da sé. È Giorgia che la riprende con la videocamera mentre lei, davanti alla propria casa in miniatura dagli interni esplosi, racconta le bombe, la paura, la fuga. Tra loro un dialogo tremante, a tratti sussurrato, grazie al quale Giorgia scopre il dolore universale e può mettere in prospettiva il proprio, lo ipostatizza, gli dà un nome (Pippo, come l’aereo che la nonna sentiva di notte durante la Seconda guerra mondiale), lo tiene buono in angolo. Non lo soffoca, non può (non deve) dimenticarlo, ma lo accarezza, lo tiene buono, lo porta con sé a confrontarsi con altri dolori. Impara che in guerra tutti perdono e vorrebbe cambiare il mondo, si rivolge con fermezza agli adulti che si combattono, vorrebbe capire: «Come sarà il vostro mondo, fatemi un disegno». E quello che capisce è che non si cambia il mondo se non si comincia a cambiare sé stessi. Per questo si (ci) ripete: «Che adulto vuoi diventare?».
Lo spettacolo si era aperto con una domanda: «È giusto raccontare la guerra ai bambini?», ma in realtà qui è una bambina che ci racconta la guerra, che ci colpisce e ci interroga. In modo diretto come solo i ragazzini sanno fare. E a questa immediatezza di approccio al tema tremendo della guerra – senza sovrastrutture, senza sconti – corrisponde una spontaneità nell’uso delle tecnologie in scena che fa sembrare semplice anche il complesso lavoro di intreccio e sovrapposizione di piani narrativi, di linguaggi e di media.
Non è il primo lavoro di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio sui conflitti contemporanei a partire da esperienze dirette portate a scoprirsi sulla soglia insidiosa che separa la realtà dalla finzione. Un procedere artisticamente ibrido e politicamente esposto che ricorda l’approccio etico/estetico di Milo Rau. Segnaliamo anche Fuga dall’Egitto, una performance che unisce il teatro documentario alla musica, in un intreccio tra parola, cinema del reale e sonorità orientali live. Lo spettacolo, ispirato all’omonimo libro di Azzurra Meringolo, getta luce sul fenomeno della diaspora egiziana post-2013, sulla sorte degli attivisti che, traditi dai militari e minacciati di repressione e tortura in Egitto, sono stati costretti a scegliere la via precaria e dolorosa dell’esilio. Anche in questo caso, i protagonisti sono reali e interpretano sé stessi, tutto accade dal vivo.

Teatro de lo inestable: El rastre d’aquella nit (foto Loris Slaviero)

Anche in El rastre d’aquella nit (Le tracce di quella notte) dello spagnolo Teatro de lo inestable ritroviamo le riprese live che dialogano con gli attori, creano ambienti sempre diversi, definiscono l’articolazione drammaturgica. Le videocamere scrutano i paesaggi miniaturizzati su tavolette sospese nello spazio scenico, ingrandiscono dettagli, li muovono, seguono le oscillazioni di questi micromondi cambiando fuoco e prospettiva. Le storie di due coppie si confondono in questi spazi e tempi dilatati in cui lo spettatore è invitato a immergersi, con un linguaggio che si direbbe guardare un po’ a David Espinoza, un po’ a Agrupación Señor Serrano. Senza l’ironia del primo né la sperimentazione tecnologica del secondo.

Onirica (foto Loris Slaviero)

Più interessante un’altra opera presentata come studio e in verità già piuttosto compiuta: Onirica, di Giulia Odetto. In scena Daniele Giacometti, Camille Guichard, Andrea Triaca e Beatrice Vecchione a intraprendere un viaggio per frammenti nel mondo, appunto, dei sogni. Un mondo parallelo dal quale sembrano provenire le figure e le scene realizzate dai bravi performer: pronuncia di testi evocativi, contorsionismo, acrobatica, una foresta di luci gestite direttamente dagli attori, oggetti di scena che diventano elementi drammaturgici, lacerti di narrazioni che si concatenano nella logica altra di stati percettivi che nascono dalla realtà ma ne sono svincolati.

Onirica (foto Loris Slaviero)

Queste “lettere inviate a sé stessi”, così Freud definiva i sogni, giungono allo spettatore come rispecchiamento della propria esperienza onirica. Si potrebbe forse parlare di fenomeni di appercezione: più che sul senso di ciò che sta accadendo, l’attenzione si risveglia sulla consapevolezza della percezione stessa. Ne deriva uno sdoppiamento intuitivo che effettivamente avvicina alla dimensione del sogno lucido. Porta a guardare la scena, per così dire, con gli occhi socchiusi. Determinanti il continuum sonoro ipnotico e l’uso di elementi tecnici e tecnologici come estensioni “naturali” dei corpi. La videocamera diventa protagonista di elaborate costruzioni spaziali facendo corpo con la performer che la manovra. Interessante anche il recupero di effetti tecnici della tradizione teatrale attraverso un uso artigianale della tecnologia. Per esempio l’occhio di bue sul fondale ottenuto semplicemente inquadrando con la videocamera una fonte luminosa. Viene da pensare, di fronte a queste diverse esperienze di giovani artisti e al loro nuovo rapporto con le tecnologie, più libero e consapevole, che sono forse maturi i tempi per una ecologia della multimedialità.




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