Speciale Ferracchiati | La rappresentazione per andare oltre abitudini, ruoli, gabbie

Una intervista a Liv Ferracchiati

Pubblicato il 21/12/2021 / di / ateatro n. 180

Con la messinscena di La tragedia è finita, Platonov dal 9 al 14 novembre 2021 al Piccolo Teatro di Milano e di Fuck Me(n) dal 16 al 21 novembre a Campo Teatrale, e con la presentazione il 9 novembre al Chiostro Nina Vinchi del suo romanzo di esordio Sarà solo la fine del mondo edito da Marsilio nell’ottobre di quest’anno, a novembre 2021 la scena teatrale e culturale milanese ha un nuovo protagonista, Liv Ferracchiati, pluripremiato autore e regista teatrale attualmente artista residente presso il Piccolo Teatro di Milano.

Liv Ferracchiati

La tragedia è finita, Platonov, Menzione Speciale alla Biennale Teatro 2020 e finalista ai Premi Ubu 2021 nella categoria “Migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica”, è una originale rivisitazione di Platonov di Anton Čechov. Quali motivazioni ti hanno portato a scegliere questo testo giovanile di Čechov e come è avvenuto il processo di riscrittura?

Platonov, inteso come testo, scritto da un diciassettenne, forse diciottenne (che poi sarebbe Anton Čechov), è stato per me un incontro. Leggere Platonov non è stato leggere un dramma, ampliare un tassello di cultura letteraria, è stata un’esperienza.
Negli anni ho continuato a pensare a quel personaggio, alle sue fragilità, al suo fascino, alla voragine del suo vuoto e alle figure che si aggirano attorno a lui, che sono entrate a far parte del mio immaginario.
Quello con Platonov è stato un confronto con una vera e propria materia organica, in grado di reagire al dialogo ideale che intavolavo. La scrittura si è accumulata negli anni e poi si è specificata attraverso le improvvisazioni con gli attori.

Nel tuo spettacolo, La tragedia è finita, Platonov, c’è un personaggio inedito: il Lettore, che si confronta con i personaggi dell’opera. Perché la scelta di indagare la relazione tra lettore e opera?

Il tema centrale dello spettacolo è la relazione tra opera e fruitore, il dialogo ideale che, come accennavo sopra, si instaura tra i due poli. Ci sono delle volte in cui un’opera d’arte entra nella vita di chi ne fruisce e comincia a influenzarla. Il personaggio del Lettore è un affiancamento drammaturgico. Accosto la mia scrittura a quella di Čechov. Il Lettore, di fatto, dialoga con la scrittura originale. È un nostro contemporaneo, un altro uomo superfluo e forse un lettore qualsiasi che si sente immergere in un’atmosfera che nella sua vita non avrebbe mai attraversato.

Il rapporto tra lettore e opera è presente anche nel tuo ultimo lavoro, che ti ha visto in una veste totalmente nuova. «Lettore, seguimi!», così scrivi nel tuo primo romanzo Sarà solo la fine del mondo. Protagonista un transgender, come accade nella Trilogia sull’Identità che hai creato con la tua compagnia The Baby Walk. Esiste un legame diretto tra questi due lavori? Cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo e quali differenze hai riscontrato rispetto al lavoro di autore teatrale?

Sarà solo la fine del mondo nasce dalla creazione di un personaggio immaginario che ha corpo di femmina e che vive come uomo. È la storia di una composizione e scomposizione identitaria che mette in evidenza come sia utile individuare le categorie con le quali ci presentiamo agli altri per poi liberarcene. Questo personaggio e i tanti altri che gli ruotano attorno provengono, in qualche modo, dalla raccolta dei materiali per la Trilogia sull’Identità. Non è l’adattamento letterario dell’esperienza teatrale, è qualcosa di molto diverso, ma è da lì che si originano.

Liv Ferracchiati

La differenza tra Letteratura e Teatro per me sta nella pratica. Quando scrivi per il Teatro scrivi con e sugli attori, verifichi e ampli il testo attraverso di loro e andando in scena, impari a conoscere le reazioni degli spettatori. Nella Letteratura questo non c’è, scrivi magari pensando a chi leggerà, ma non sentirai mai il sussulto del Lettore. La reazione spontanea, anche brutale – un colpo di tosse o il rumore delle caramelle scartate quando a teatro ci si annoia – è negata, forse risparmiata, allo scrittore di narrativa. A me non dispiacerebbe osservare un Lettore del mio libro, annotarmi il numero dei colpi di tosse e delle caramelle scartate. Scrivere e riscrivere insomma, perché l’opera teatrale è un organismo vivente che cresce attraverso gli incontri, ma la Letteratura?
Per me è fondamentale che la parola sia performativa, che coinvolga e avvolga il lettore e questo, forse, deriva dal teatro.

Liv Ferracchiati

Insieme a Evoè!Teatro hai lavorato all’adattamento e alla regia di Fuck Me(n), spettacolo nato da tre monologhi di Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani e Roberto Traverso. In che modo ritorna la questione di genere in questo spettacolo? Come si inserisce nel tuo percorso di autore e regista teatrale?

Quando Emanuele Cerra mi ha proposto questi tre monologhi, mi è sembrato raccontassero da un’altra prospettiva rispetto a quella da cui mi pongo io la gabbia sesso-genere, come la definirebbe Paul Preciado. I tre testi hanno in comune il racconto di come, inconsapevolmente, può avvenire un certo apprendistato all’essere uomini, nel senso del ruolo di genere.
I protagonisti appartengono a diverse tipologie di maschile tossico: un professore animale, vittima della sua bulimia di sesso e potere, un uomo devoto alla violenza, incapace di verbalizzare la sua frustrazione, e un padre che dichiara, sempre più apertamente, la sua intolleranza e gelosia nei confronti del figlio. Questi personaggi appaiono a prima lettura tre mostri, disperati, senza luci.
Leggendo tra le righe però si può intravedere il percorso che li ha portati a essere quel che sono. La storia di ognuno emerge per contrasto. I carnefici, ingiustificabili in ogni caso, sono stati a loro volta vittime di un sistema culturale tramandato di padre in figlio. Bisogna che nascano nuovi padri e nuovi figli, che si interrompa la trasmissione di certi falsi saperi, occorre una liberazione, anche se dolorosa.

Soprattutto in tempi recenti sempre più persone hanno iniziato a utilizzare l’asterisco egualitario per evitare l’uso del maschile generalizzato e per creare maggiore inclusione: spesso leggiamo tutt* e car*… Non tutti però sono d’accordo con questa scelta, tu cosa ne pensi?

La lingua influenza il nostro pensiero, per cui è giusto fare dei tentativi per piegarla e aprire nuove strade a nuove visioni del mondo più vicine alla natura dell’essere umano. Nuove visioni che poi tanto nuove non sono, perché erano solo “momentaneamente” dimenticate a causa del prevalere di alcuni schematismi di potere. La storia la scrive chi ha il Potere, ma ciò che leggiamo negli esiti non sempre risponde alla possibilità migliore o a come sarebbe meglio fosse.
Non facciamo altro che rappresentarci, dunque anche attraverso il linguaggio cerchiamo di comunicare, di mostrarci. L’asterisco o lo schwa sono altri modi per tentare di esprimerci, graficamente preferisco lo schwa, sulla pronuncia non mi sembra ci sia ancora una soluzione convincente. Magari però è anche qui una questione di abitudine.




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