Oltre la parete: dal futurismo al teatro scolpito di Dario Bellini

Il piede al MAMbo per il finissage della mostra "No, Neon, No Cry"

Pubblicato il 01/11/2022 / di / ateatro n. 186

Da un lato una parete dipinta con una fantasia floreale, un proscenio lungo e stretto, le poltrone per il pubblico, i programmi di sala. Dall’altro rosso sbiadito, un abito appeso, altre sedute. Un bambino in calzoncini e maniche di camicia entra in scena assieme alla madre e occupa il proscenio più piccolo, dove resterà fino alla fine dello spettacolo. La donna è alle sue spalle, oltre la parete. Il pubblico non la vede, se ne sentono i passi, la voce che dialoga con il figlio, i piccoli rimproveri, poi, all’improvviso, una fessura lunga e stretta si apre con rumore sordo e, dal fondale, appare un piede.
Inizia così Il piede, pièce surreale e squisitamente novecentesca di Dario Bellini che nel pomeriggio di domenica 23 ottobre 2022 ha animato il finissage di “No, Neon, No Cry”, la mostra curata da Gino Gianuizzi per celebrare il ricordo della galleria neon (Bologna, Museo MAMbo, 12 maggio-23 ottobre 2022). Lo spettacolo, andato in scena nel Foyer del museo bolognese, ha raccolto velocemente una piccola folla di curiosi che, disposti sui lati della scena, hanno assistito a due racconti diversi: quello della madre, su fondo rosso, e quello del bambino, con la parete floreale, la fessura, il piede.
Ma le differenze non si limitano ai piani narrativi. La quarta parete, recita il programma, è un “baratro spazio-temporale”: da un lato c’è il pubblico del 1915, accorso per assistere a Il piede di Filippo Tommaso Marinetti, dall’altro gli spettatori di oggi che, attenti, seguono le molte istanze avanzate dal gruppetto d’antan. La comunicazione è resa possibile dai membri del Collettivo 10dieciventi20, abilmente mescolati tra le poltrone, e da voci fuori dal coro, scelte casualmente prima dello spettacolo.

Dario Bellini, Il piede (2022), foto di Gabriele Bonomi

Costruito a partire da un sogno, Il piede ha una struttura a più strati: la fittizia pièce di Marinetti, i due piani temporali del pubblico, la riflessione sull’essenza d’arte, i diktat che la opprimono. L’intento è dichiaratamente politico ma investe questioni prettamente filosofiche: l’estetica della sparizione, i concetti di forma e sostanza, quello che per noi è il significato di “realtà”.
Per l’autore questo non è uno spettacolo ma una “scultura teatrale”, come confermano i movimenti di alcuni avventori che istintivamente scelgono di non sedersi sulle poltroncine e iniziano a camminare tra i due lati della scenografia, osservandola come fosse un’opera d’arte.
“Sembra teatro, ma non è teatro… sembra Novecento, ma non è Novecento”: quello di Bellini è un gioco di specchi, ironico e abilmente architettato, contorni e prospettive sono sfumati, spesso sovrapposti, e si irradiano da un unico centro che, in realtà, ha molto a che fare con l’essenza stessa del termine théatron come luogo della visione.
A monte, infatti, vi è una lode allo sguardo, un voyeurismo tutto intellettuale: “piede come l’occhio necessario per guidare”, recita Antonio Porta traducendo il poeta cinquecentesco François Sagon (Lodi del corpo femminile, 1984), Bellini sembra saperlo e tesse la sua trama giocando con il desiderio di guarda.




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