ILT Festival a Aarhus | Quando esplode l’inatteso

Billy’s Violence di Needcompany, Fuck me! di Marina Otero, Sunday di Chaliwaté & Focus, 03:08:38 States of Emergency di Tore Vagn Lid

Pubblicato il 29/08/2023 / di / ateatro n. 193 | TourFest 2023

Expect the Unexpectable: ILT Festival a Aarhus

EASTAP a Aarhus

Aarhus si trova nella penisola dello Jutland, non lontano dalla leggendaria Holstelbro, sede dell’Odin Teatret e vero e proprio topos del teatro novecentesco. Seconda città della Danimarca per popolazione, possiede un’università prestigiosa che vanta una specifica tradizione nell’ambito degli studi teatrali. E’ proprio in occasione del sesto convegno dell’European Association for the Study of Theatre and Performance organizzato dal Department of Dramaturgy, intitolato non a caso Dimensions of Dramaturgy, che ho scoperto l’ILT Festival.
L’EASTAP, fondata da Josette Féral nel 2017, ha fra i propri obiettivi la promozione del rapporto fra ricerca e creazione, per cui i suoi congressi annuali, che si svolgono ogni volta in un paese diverso, hanno la particolarità di essere associati a dei festival. Studiosi, venuti da tutta Europa e non solo, hanno così l’opportunità di ascoltare le comunicazioni dei colleghi e dialogare su questioni teoriche, ma anche di vedere spettacoli, assistere a incontri con artisti e partecipare a workshop, in giornate interminabili e densissime da cui si esce come in stato di ebbrezza per le tante sollecitazioni cui si è sottoposti.

ILT Festival (14-18 giugno 2023)

Expect the Unexpectable: ILT Festival a Aarhus

L’ILT Festival è una manifestazione giovane, nata otto anni fa dal desiderio comune di tre realtà teatrali di Aarhus – il Teatret Gruppe 38, il Teatret Svalegangen e l’Aarhus Teater – di portare sulle scene cittadine un distillato di quanto di più interessante viene creato a livello internazionale. Malgrado la presenza dell’Odin e l’esistenza di numerosi festival teatrali in un sistema generoso a livello di sovvenzioni e garanzie, nonché piuttosto capillare a livello locale – come ho potuto apprendere da una comunicazione di Louise Ejgod Hansen, negli anni 1980 è stato creata una rete di 27 teatri locali al di fuori delle aree urbane delle quattro principali città –, il teatro danese non è particolarmente attivo nei circuiti europei. Se il cinema danese è ben noto e influente, gli artisti teatrali sono più discreti sulle scene internazionali e di contro gli spettacoli internazionali non hanno grande circolazione in Danimarca.
ILT risponde a questo stato di fatto con l’ambizione di aprire delle finestre sul mondo e di sorprendere la città. “Expect the unexpectable” è il motto del festival, declinato sugli striscioni e i cartelli che colorano di fucsia le strade e le piazze.
La programmazione è il risultato della curatela collegiale dei direttori delle tre strutture promotrici, Bodil Alling, Per Smedegaard e Hanne Lund Joensen, con le loro diverse sensibilità. Il festival coinvolge altri spazi teatrali cittadini dalle identità molto differenti – teatro musicale, teatro ragazzi, teatro di prosa, sperimentale – in modo tale da raggiungere pubblici diversi, magari affezionati frequentatori di un luogo in particolare, che si lasciano così tentare da una programmazione più eccentrica rispetto alle loro abitudini. Anche per chi viene da fuori, come me, spostarsi da un luogo all’altro ha permesso di esplorare la città e di navigare fra i suoi numerosi centri culturali: la grande scena musicale Musikhuset, il Bora Bora, specializzato in danza e teatro visivo, lo Svalegangen – che significa “nido di rondine” , dedicato alla scena sperimentale, l’Aarhus Teater, incentrato più su un teatro di repertorio.
Il festival, che richiede un grande sforzo economico e organizzativo, ha cadenza biennale e si concentra volutamente in pochi giorni, in cui vengono presentati per due, al massimo tre rappresentazioni, numerosi spettacoli – sette quest’anno – cui si aggiungono delle performance all’aperto in accesso libero, dei concerti, dei laboratori. Il programma è concepito in modo tale che gli eventi non si sovrappongano e che lo spettatore possa assistere a tutti gli spettacoli senza essere obbligato a scelte e rinunce. Non vi è un filo conduttore tematico, né di genere, né di area culturale, ma un insieme eterogeneo che riunisce ad Aarhus compagnie e artisti di orizzonti e di paesi diversi – Norvegia, Belgio, Spagna, Regno Unito, Argentina, Paesi Bassi, Libano, Québec, Repubblica Ceca – che vengono presentati nel programma in modo coinciso, senza troppe spiegazioni, ma esaltandone visivamente le specificità grazie a delle foto significative e accattivanti delle loro creazioni. Nelle mie giornate a Aarhus, sono riuscita a vedere quattro spettacoli e ad assistere a tre performance nel cuore della città.

Billy’s Violence di Needcompany

Il festival si è aperto con Billy’s Violence di Needcompany nell’enorme sala del Musikhuset, un complesso di architettura moderna e luminosa situato in un parco. La direzione del festival, come emerso dal discorso di apertura di Per Smedegaard, teneva molto a questa presenza per aprire la manifestazione. Needcompany è una realtà importante del teatro “postdrammatico” interdisciplinare, che, nei suoi spettacoli mescola creazione coreografica, musicale, performance, arti figurative, recitazione. Si affermò potentemente a cavallo fra XX e XXI secolo, insieme ad altri artisti, Jan Fabre in testa, dell’ondata fiamminga. La chambre d’Isabella, creato nel 2004 da Jan Lauwers, è stato per molti spettatori della mia generazione una rivelazione: Isabella, interpretata dall’immensa attrice Viviane De Muynck, circondata da una curiosa raccolta surrealista di oggetti e opere d’arte, raccontava la sua vita avventurosa ed evocava tutte le persone, ormai scomparse, che l’avevano intessuta insieme a lei. Un intreccio di finzione, ironia metateatrale e gesti performativi trascinava con leggerezza nel turbinio crudele del vivere e del morire.

Needcompany, Billy’s Violence ph. Maarten Vanden Abeele

Billy’s Violence, come suggerisce il titolo, ha come punto di partenza il teatro shakespeariano. Il testo di Victor Afung Lauwers, figlio del regista, riflette sulla violenza attraverso la riscrittura di dieci scene che hanno come protagoniste dieci personaggi femminili, da Desdemona a Cleopatra, da Giulietta a Lady Macbeth. Un eccezionale meneur du jeu, Maarten Seghers, conduce l’azione e compone musica in diretta, ma nonostante la generosità e bravura degli interpreti, e la poesia di alcune sequenze – la lite domestica fra Otello e Desdemona, gli amori burlesque di Giulietta e Romeo – il partito preso dello spettacolo appare troppo evidente e allo stesso tempo non del tutto chiaro nel suo fine.

Needcompany, Billy’s Violence ph. Maarten Vanden Abeele

Lontani paiono il teatro della crudeltà di Artaud, l’universo carcerario e la peste del Living Theatre, forse per un eccesso di estetizzazione dei codici performativi. L’accumulazione ininterrotta di diverse forme di violenza – abuso psicologico, sopraffazione fisica, menomazione, tortura, assassinio, eccetera – produce un effetto di nauseata assuefazione, che raggiunge i suo apice nella scena finale, una concretizzazione letterale dell’espressione “bagno di sangue”. La ricezione è polarizzata: alcuni spettatori lasciano la sala, altri salutano gli interpreti in piedi, con applausi entusiasti.

Needcompany, Billy’s Violence ph. Maarten Vanden Abeele

Lo spettacolo pone la questione del limite nelle dinamiche creative collettive post #metoo: cosa il regista può chiedere ai performer? La violenza in scena è specchio della violenza nella sala prove? Quale legittimità hanno un autore e un regista – due maschi – per parlare di violenza sulle donne? Questo il tenore delle domande poste dai partecipanti al convegno EASTAP durante l’incontro con Jan Lauwers, che si difende da un lato esaltando l’apporto singolare e l’autorialità di ogni performer, dall’altro insistendo sulla specificità dell’azione scenica e del corpo in un’epoca di virtualizzazione delle relazioni.

Fuck me! di Marina Otero

Il corpo e i suoi limiti, fisici e psicologici, sono anche al centro di Fuck me! della coreografa, danzatrice e performer argentina Marina Otero, presentato nella seconda sala del grande teatro municipale. Lo spettacolo inizia con una musica trascinante e sei uomini nudi che raggiungono la scena dall’alto della platea passando tra gli spettatori, come in un peep show. Si scopre allora, seduta a destra in proscenio, Otero, che inizia a raccontare dei problemi alla colonna vertebrale che l’hanno costretta all’immobilità proprio durante le prove di questa creazione, inizialmente incentrata sulla figura del nonno e sul silenzio famigliare intorno al suo coinvolgimento nelle attività repressive della dittatura militare.

Marina Otero, Fucck Me; ph. Matias Kedak

Attraverso immagini del suo archivio personale e soprattutto grazie al transfert degli interpreti, che diventano gli avatar sani del suo corpo malato, Otero dispiega sulla scena il suo rapporto furioso con la danza, in cui il corpo è costantemente spinto all’estremo della sua resistenza e delle sue possibilità. Vengono riprese le prime coreografie inventate da bambina, gli assoli sfibranti degli inizi, fino a una sequenza estremamente perturbante che oscilla fra lo stupro di gruppo e la fantasia orgiastica, filmata in video selfie durante le prove prima dell’infortunio da Marina Otero stessa e riprodotta dagli interpreti sulla scena.
Le frontiere fra femminile e maschile, sofferenza e piacere, desiderio e violenza, energia e prostrazione, realtà e finzione si confondono in un continuo ribaltamento dei ruoli e delle attese. Anche i performer prendono brevemente la parola e svelano alcuni aspetti del rapporto al proprio fisico: chi è conscio della propria bellezza e si sente costantemente reificato dagli sguardi altrui, chi avverte i segni del tempo che passa, chi, più giovane, è fiero della propria straordinaria flessibilità. In un vortice energetico e, nonostante tutto, giubilatorio, siamo trasportati al centro delle contraddizioni che abitano il nostro corpo, strumento di espressione e liberazione, ma anche prigione di stereotipi, infermità e morte.

Sunday (Dimanche) delle compagnie belghe Chaliwaté e Focus

In altri due spettacoli l’asse tematico si sposta su piani più esplicitamente collettivi. Al Bora Bora, ho scoperto Sunday delle compagnie belghe Chaliwaté e Focus. Il lavoro, premiato come Migliore spettacolo e Migliore realizzazione artistica e tecnica ai Prix Maeterlinck del 2020, parla del cambiamento climatico, mostrando l’incapacità degli esseri umani a riconoscere e affrontare l’urgenza di una situazione destinata a sfociare in catastrofe. Tre attori orchestrano un susseguirsi di scene tragicomiche senza parole, manipolando oggetti e interpretando straniati personaggi. Si comincia con la spedizione tragica di tre reporter sui ghiacci polari ormai in liquefazione, a cui ci avviciniamo attraverso una serie di piani cinematografici, ottenuti grazie alla scala degli oggetti – un furgoncino dapprima piccolissimo, poi più grande, e infine rappresentato da una portiera a grandezza naturale – e agli effetti sonori, in particolare al volume e alla qualità più o meno in sordina di una canzone di Simon & Garfunkel ascoltata all’interno dell’abitacolo.

Chaliwaté e Focus, Dimanche

Con rapide dissolvenze al nero si passa poi ad altri quadri sorprendenti, da colazione in una giornata estiva così afosa da far afflosciare i mobili, a una cena romantica interrotta da un uragano che spazza via senza distinzione suppellettili domestiche e animali selvaggi, fino all’immersione oceanica delle terre emerse. L’animazione degli oggetti, l’inventiva costruzione delle immagini e la loro articolazione sottile con il suono rendono questo spettacolo un piccolo distillato della magia bambina di un capace di dare un piacere ludico e immaginativo profondo, di far sorridere e riflettere. (E se mi posso permettere una raccomandazione, lo spettacolo sarà al Teatro Nazionale di Torino a maggio: non perdetelo!)

03:08:38 States of Emergency del regista norvegese Tore Vagn Lid

Anche 03:08:38 States of Emergency del regista norvegese Tore Vagn Lid si serve della manipolazione di oggetti e materiali, ma in chiave rituale : lo spettacolo, presentato al teatro Svalegangen, ricostruisce gli attentati perpetrati dall’estremista di destra Andres Breivik il 22 luglio 2011 a Oslo e sull’isola di Utøya, associando la ripetizione esatta della temporalità degli eventi alla loro completa trasfigurazione teatrale e artistica. Entrando nella sala si scopre un’istallazione artigianale composta da due tavoli di legno, che disegna un paesaggio longitudinale composto da due sezioni principali – la città di Oslo e l’isola – coperte da vari oggetti e circondate da tavolini, piloni, carrucole, strumenti musicali. Un orologio rotondo, posto in fondo in posizione sopraelevata, indica l’ora. Alcune sedie sono collocate tutt’intorno, ma, all’inizio dello spettacolo il pubblico è invitato a circolare nello spazio per osservare da vicino e da diversi punti di vista gli artisti all’opera. Una moltitudine di musicisti, disegnatori, cantanti, cameraman, prende infatti posto intorno all’istallazione e inizia ad affaccendarsi silenziosamente, con estrema cura e concentrazione, per raccontare collettivamente senza parole, ma attraverso disegni, scritte, piantine e piccoli oggetti di cartone filmati in diretta, proiettati sui due schermi, il percorso criminale di Breivik, dall’esplosione della bomba al Regjeringskvartalet, il quartier generale del governo a Oslo, fino alla strage dei giovani del Partito Laburista norvegese, riuniti in un campo estivo.

03:08:38 States of Emergency

Una striscia di led, che si illumina progressivamente, mette in relazione il tempo e lo spazio e mostra l’avanzare dell’assassino: a cadenza regolare, le lampadine si illuminano raggiungendo dei cartoncini che danno, di tanto in tanto, indicazioni di luogo e di azione. Quando una vittima viene uccisa, una luce rossa appare sulla scia. Spezzoni documentari di trasmissioni radio di quel giorno, perfettamente sincronizzate all’azione degli artisti, punteggiano il percorso e, retrospettivamente, sconvolgono per l’attrito fra la gravità di quanto stava succedendo e la noncuranza delle canzoni pop trasmesse e per l’incomprensione della situazione da parte di autorità e commentatori. Mentre il furgoncino di Breivik avanza indisturbato e si allontana dal centro della città, raggela il sangue – e uso l’espressione senza alcuna enfasi – ascoltare un frammento di registrazione delle voci dei ragazzi a Utoya cantare un inno socialista, completamente ignari della strage imminente.
Intanto sull’ “isola” teatrale un gruppo di interpreti crea, con gesti calmi e precisi, alture di cartapesta servendosi delle terrificanti 1581 pagine del memoriale di Breivik e, di tanto in tanto, intona dei canti a cappella. Si entra in una temporalità altra, punto di giunzione tra il presente e un passato che si può ripetere, ma non modificare. Come nella tragedia greca, noi spettatori sappiamo già come la storia andrà a finire, e nel lento scorrere dei minuti, siamo portati a provare una profonda angoscia per le vittime, ma anche rabbia al pensiero di quanto poco sarebbe bastato perché, almeno l’orribile massacro di Utoya, fosse evitato.

03:08:38 States of Emergency

Negli interminabili trenta minuti in cui Breivik si ferma di fronte all’isola prima di imbarcarsi sul traghetto, riempiti dai suoni creati dal percussionista Terje Igusnet con elementi naturali, l’attenzione si sposta anche sull’assassino. Osservando la piccola vettura in cartone posata a margine dell’istallazione, non si può fare a meno di chiedersi: cosa gli passava per la testa? Ha forse esitato? Quali pensieri avrebbero potuto bloccarlo, farlo tornare indietro? E’ stato, anche solo per un istante, un bagliore di compassione per le sue vittime? O si è trattato solo una pausa di fredda programmazione o in qualche modo di sfida? A ogni istante, si è confrontati crudelmente alle deviazioni possibili che gli eventi avrebbero potuto prendere e all’ineluttabilità del loro tragico corso ormai concluso.
Lo spettacolo, di una grande intensità, meriterebbe un’analisi più rigorosa per la maniera in cui combina, in maniera estremamente singolare, sforzo collettivo e ricezione intima, molteplicità di linguaggi artistici – musica strumentale, disegno, video, canto – e concentrazione dell’azione, profondità dell’impatto emotivo e assoluta economia di soluzioni drammaturgiche e sceniche volte a provocare delle reazioni affettive immediate. L’ho vissuto come una sorta di « rito critico », che, pur non producendo una catarsi completa, accompagna la collettività nel ricordo riparatorio delle vittime e nella riflessione sugli errori e le fragilità di una società forse troppo certa della propria armonia.

Gli spettacoli di strada

Finale

Per le strade di Aarhus, ho assistito all’enigmatica, per me almeno, performance I am from Reykjavik della britannica Sonia Hughes, impegnata a costruire una casa in legno interagendo con i passanti interessati; a Happiness di Dries Verhoeven in cui, penetrando in un piccolo chiosco di cemento, ci si ritrova faccia a faccia con un robot androide che dettaglia proprietà e effetti di innumerevoli sostanze psicotrope in grado di provocare la sensazione di una felicità artificiale; e, last but not least, Finale di Saloa Fernandez e Sheila Ferrer, ripetuto per due volte al giorno, venerdì e sabato, nella piazza principale della città. Mentre risuonano brani ben noti del repertorio di Čajkovskij, due ballerine in tutù si calano dal campanile della cattedrale appese a cavi e iniziano a danzare utilizzando la parete verticale come punto d’appoggio. In questa inversione di 90° in cui l’orizzontale diventa verticale, le ballerine volteggiano sfidando le leggi delle gravità e trasformando i gesti e le figure della danza classica, che, con il peso spostato dai piedi alla vita, diventano aerei, fluidi, leggermente rallentati. L’azione incanta, i passanti si fermano, gli occhi sorridono guardando in alto: uno spettacolo nello spettacolo, un momento di poesia inattesa e condivisa che fa breccia, se pur in modo effimero, nel flusso della realtà.

Una scoperta condivisa

Se l’assenza di una linea precisa e le scarne indicazioni del programma mi avevano lasciata perplessa, attraversare delle creazioni così diverse, senza un orientamento predeterminato dalle strategie di comunicazione del festival, mi ha entusiasmato e mi ha lasciato l’impressione di essermi nutrita profondamente, variamente e soprattutto liberamente. Il motto del festival, che mi sembrava un semplice gioco di parole, ha rivelato la sua pregnanza: il festival come proposta di scoperta condivisa, dai programmatori al pubblico della loro città, al cui centro viene posto lo spettatore e il suo piacere di farsi stupire.