Polvanera a Gioia del Colle | Quando un concerto è un regalo d’intimità
L'intervista a Cristiano Godano per TourFest 2023
…E in quell’alone di perplessità
Si intuisce la vulnerabilità
Di un egocentrico all’angolo
Smascherato e fragile
Mi immedesimo…
Nel 2020 il tuo esordio da solista con Mi ero perso il cuore: quali sensazioni hai provato in questo dialogo intimo e intenso con il pubblico fuori dal contesto dei Marlene Kuntz?
Il progetto parte circa quindici anni fa, con le mie prime uscite solitarie chitarra e voce, un vero banco di prova per imparare a gestirmi, perché io nasco come chitarrista elettrico noise, un autodidatta che trova una via per far accadere le cose! All’inizio aveva molto a che fare con il noise, il conrario della dinamica del “pianissimo” suonato con la stessa intensità del “fortissimo”. Lentamente però, anche nel lavoro con i Marlene Kuntz, abbiamo scoperto la preziosità dell’arrivare “lassù in cima sì”, ma anche di andare “qua sotto” e quindi di creare una varietà di “movimento”. Ed è proprio questo che mi ha portato alle prime comparsate solitarie. All’inizio non avevo un mio repertorio, quindi suonavo i pezzi dei Marlene. Man mano che la mia confidenza con la chitarra cresceva e mi senivo più tranquillo, mi è venita voglia di fare qualcosa da portare in giro, mostrando ciò che sono.
Credo sia questa la motivazione principale: avevo raggiuno una zona di comfort, sentivo che quello che stavo facendo aveva una sua validità… Mi ci son voluti anni prima di sentirmi a posto con la coscienza.
Il progetto più intimo da solista e in contemporanea il percorso dentro i Marlene Kuntz: come coesistono le due dimensioni? Qual è l’equilibrio artistico e personale che lo rende possibile?
Senza nessuna interferenza. Sono due cose che coesistono in grande armonia, l’una va a rinforzare l’altra. Sicuramente la costanza della qualità delle prestazioni dei Marlene tiene alta nella considerazione della gente la rispettabilità del gruppo e questo fa sì che anche le mie performance da solista ne traggano beneficio. Ma dal punto di vista pratico, Marlene ha la precedenza: quando si preparano i tour, le mie date personali vanno a incastrarsi con grande attenzione tra i vari impegni del gruppo.
Non solo musicista, ma anche artista a tutto tondo. Scrivere significa “allargare” i tempi di un testo musicale o si trata di un linguaggio differente per esprimere altre tematiche e profondità?
Sono due linguaggi sostanzialmente diversi, proprio nella loro essenza. Nel linguaggio di una canzone cerchi una una sintesi e la parola si fa preziosissima, perché sono poche le parole che puoi utilizzare per riempire un verso. Quindi, se hai un piglio artistico e un livello di pretenziosità nei riguardi di ciò che stai facendo, non ti accontenti delle soluzioni facili. Dunque il processo creativo quando si scrive in versi passa attraverso la scelta di parole che sono preziose e che suonano bene, perché hanno bisogno di suonare all’interno del componimento. Per quanto poi io scriva canzoni e non poesie, c’è comunque un livello di pretenziosità che è diverso rispetto a quello che può avere il poeta con le sue creazioni, perché il cantante – pur scrivendo in versi come il poeta – cerca effetti metrici che siano coerenti con la musica. La musicalità ricercata dal poeta è quasi virtuosa, o meglio virtuale, fatta di assonanze fra le parole che poi l’orecchio dello spettatore attento intercetta e comprende. Ma si tratta di vertici di raffinatezza sicuramente diversi rispetto a quelli che ci sono nell’ascolto e nella creazione di una canzone. Sono due esperienze simili ma diverse. Scrivere in prosa è un lavoro completamente diverso. Molte parole sono meno “preziose”, tutte indispensabili per la ricerca di un significato che sia plausibile. Però hai molto più spazio per dire quello che devi dire, quello che vuoi dire. Puoi utilizzare molti più termini per spiegare qualcosa, per definire un’immagine, per raccontare un sentimento…
Uno dei miei libri, I vivi (Rizzoli), è a tutti gli effetti un’opera di narrativa, composto da sei racconti inventati. Invece Nuotando nell’aria (La Nave di Teseo, 2019, dall’omonimo testo dei Marlene del ’94) è un esperimento diverso, per me riuscito, in cui cerco di “dire qualcosa” tramite la discografia dei Marlene Kuntz. Parto dai nostri primi tre dischi e attraverso tutti i 35 testi, dal primo brano all’ultimo. Ogni canzone ha ispirato un capitolo a sé, dove utilizzo il pretesto del testo a volte per una parafrasi allargata, a volte per raccontare cose il cui senso proviene direttamente dal brano. Ogni canzone mi ha dato la possibilità di parlare del brano tramite la prosa. Non è un’opera d’invenzione, e nemmeno un testo autobiografico: è un “libro occasione” in cui ho avuto la possobilià di raccontare alcune cose che sento, che percepisco, che interpreto della realtà, cose che mi riguardano me e il mio modo di vedere e pensare il mondo che mi circonda. E’ in esperimento che definirei “curioso”, una dilatazione del tempo di una canzone…
Molti cantanti affermano che ai loro testi “non c’è nulla da aggiungere”, a cominciarie da Francesco De Gregori. Io credo invece che sia lecita la tentazione di voler dire qualcosa in più, tenendo conto che il limite tra quanto aggiungere o meno è labile e personale. In questo caso ho detto qualcosa in più, ma in una modalità che definirei molto “larga”, scrivendo cose che hanno origine dal testo ma che al contempo se ne allontanano. Lo fanno in una maniera anche molto creativa, ma non di pura invenzione.
Le Cantine Polvanera e il loro format festivaliero ci regalano l’opportunità di fruire di arte, musica e bellezza in un contesto nuovo e particolare. Qual è il tuo rapporto con i Festival sperimentali e di nicchia? Un regalo d’intimità?
Condivido l’espressione un “regalo d’intimità”. Come spettatore trovo godimento nella partecipazione a concerti, eventi culturali con una capienza limitata. Spesso a una maggiore affluenza di pubblico corrisponde un minore divertimento, l’impossibilità di gioirne appieno. Sul palco compaiono diversi elementi che non catturano la mia attenzione. Luci, schermi giganteschi, bagno di folla… Non sono cose che mi interessano molto.
Al momento il mercato musicale e la sua fruizione si stanno biforcando. Una fetta consistente del pubblico, per quanto piccola, che definirei mainstream, sta fagocitando il mercato, imponendo una via che spero non sia più sostenibile sul lungo periodo. Penso a uno sbigliettamento a tariffe altissime che crea barriere per il consumatore: prende vita un sistema per cui il potenziale spettatore investe una cifra molto alta che comprende oltre al biglietto viaggio, alloggio e tutto il resto. Questa scelta comporta una rinuncia: bisogna scegliere o l’uno o l’altro concerto, a discapito della proposta artistica in scena. Sappiamo infatti in un evento mainstream la qualità dello spettacolo non è misurata solo dall’altezza dell’artista e della sua performance, ma la musica diventa uno tra i tanti elementi di valutazione. E’ come se gli si togliesse il palcoscenico. La mia idea di “esperienza qualitativa” è vedere e apprezzare i musicisti sul loro palco, indipendentemente da quanta folla ci sia e da quanto sia “conosciuto” l’evento.
Nei contesti di nicchia, più intimi, riesco a trovare quel dettaglio che mi rende felice. Un dettaglio che magari c’è anche negli eventi mainstream, ma che va a confondersi con tutto il contorno.
Faccio quindi parte anche io di coloro che prediligono l’intimità, questo il mio mood, il mio godimento.
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