Mercato e ricerca

L'intervento per Teatro e ricerca 2024

Pubblicato il 04/01/2024 / di / ateatro n. 196 | teatro e ricerca 2024

Simone Faloppa

Eccoci qua, a partire da una sollecitazione scritta di Eugenio Barba, di nuovo assisi attorno a una nota questione manichea: mercato o ricerca? Aziendalismo o arte drammatica? Americanizzazione fast food della società dello spettacolo o difesa dell’artigianato scenico?
FUS o democratizzazione delle risorse? Teatro Pubblico o Teatro Indipendente? Conventuali o Spirituali? Capitalismo o Pauperismo?
In verità, nomino queste questioni sciattamente per lasciarmele alle spalle perché, a mio avviso, non hanno saputo reggere né rispondere al cambio di paradigmi imposti dal XXI secolo.
Già.
Non possiamo rispondere con modalità novecentesche a scenari inediti, diversamente sfidanti e impattanti. Proprio perché il secolo XX – il secolo dei riformatori, delle pedagogie e dei gruppi – è volto al termine possiamo storicizzare alcune evidenze. Dunque, problematizzarle. Dunque, porci nuove domande:

. La costruzione di spettacoli e la ricerca, a differenza dei maggiori centri d’innovazione teatrale europea (nati studi, ateliers o laboratori parallelamente a riconosciute Istituzioni Teatrali pubbliche), in Italia si biforca dopo la fine del boom, a metà anni Sessanta. Lo steccato ideologico, il muro oppone due fazioni, contempla due questioni: da una parte il ricco teatro confezionato… parolaio e borghese; dall’altra il teatro disassemblato …delle novità, della parola-suono e dei reumatismi… La critica e il mondo accademico li hanno messi a sistema, creando teoremi, correnti, tendenze, profitto, coppe-premio…

. I cosiddetti studi, gli ateliers o i Laboratori – a partire da Virgilio Talli, dal Teatro degli Indipendenti dei fratelli Bragaglia e la compagnia del Teatro d’Arte di Pirandello – non nascono in Italia all’interno di dichiarati meccanismi produttivi, ma per iniziative autofinanziate spesso di singoli.
Le Accademie professionalizzanti, luoghi che dovrebbero essere laboratoriali per vocazione e statuto, alla prova della storia non hanno assolto a questa funzione, se non per circoscritti passaggi di teatranti irregolari… ma di sistema. Al contrario, sono nate espressamente per supplire a un’esigenza produttiva delle città industriali che le hanno generate: fornire manovalanza, operaismo, culto della dirigenza. Sono insieme mattoni e cottimisti.
Allo stesso modo, quello che è accaduto per grotte, cantine, eremi rimane, agli occhi della storia, materiale speleologico da tombaroli o pallino accademico. Non possono considerarsi né un’alternativa né un vanto perché, nostro malgrado, pratichiamo delle professioni pubbliche, che hanno un vulnus e una ricaduta sociale a prescindere.

. In Italia coesistono e si sovrappongono… senza dialogare, spesso guardandosi con reciproco sospetto… almeno fin quando non si mettono in affari… tre mercati del lavoro diversi (che determinano altrettante enclaves): il teatro pubblico, il teatro privato, il teatro indipendente.

. La parola ricerca in Italia ha prodotto un altro mercato (spesso equivocato tout court per teatro contemporaneo, perché non di repertorio), spesso nato in provincia, in seno a gruppi autodidatti, in lotta per autodeterminarsi e rendersi riconoscibili e precettabili nel cerchio primario del teatro pubblico. Questo per cominciare.

Come avrete notato, non sciorino nomi né esempi.
Ritengo altrettanto manicheo oltre che ideologico individuare cattive o buone pratiche. A che pro? Mi limito a constatare, e con questo passo il testimone, che il cosiddetto mercato in Italia è saldamente in mano a una sola generazione teatrale, che la democratizzazione dell’accesso pluralistico alla visione… agli infiniti altri… è saldamente ostaggio del gusto-giudizio di pochi, che l’offerta si diversifica talmente velocemente da non dare il tempo a niente di depositarsi. I teatri sembrano rincorrere le strategie degli scaffali degli ipermercati, cercando di stare al passo di tempi e forme di comunicazione veloci e solipsistiche.
E la ricerca? Per carità, essa è inoculata come un anticorpo storico dietro qualsiasi spettacolo sincero e competente. Si respira persino nelle pratiche che avanzano e vengono legittimate dai palchi istituzionali.
Anch’essa è mercato. Anch’essa è appiattita.
Anche la ricerca sa essere maniera. Sa consolare. Sa farti passare due ore diverse. Poi, però, c’è anche chi rimugina in un lavorio attorno a sé stesso o a un sentimento della verità che esprime bellezza. Se ne vedono e ce ne sono. Restano difficilmente intercettabili perché il nostro rimane un paese delle 100 città-stato. C’è chi ricerca, attraverso il proprio lavoro, e di questo vive dignitosamente, abbozzolato in una forma di anonimato vigile e responsabile. Forse perché non è la sua mission pensare alla carriera come a una scacchiera di pezzi da muovere, o perché è semplicemente in sala…
al lavoro… in ricerca, attraverso sé stesso.
Rieccoci al paradosso più squisitamente rinascimentale di Shakespeare: la scena del flauto all’inizio del terzo atto dell’Amleto. I colleghi-studenti in filosofia mandati a chiamare da Wittenberg fanno il doppio gioco col principe in nero, pazzo per metodo. Rosencratz e Guildersten pretendono di suonare Amleto come fosse un flauto, senza sapere neanche dove mettere le mani.
Ecco due versi da Il flauto di vertebre di Majakovskij:

Io, taumaturgo di tutto quello che è festa, con chi andare alla festa non ho.
Io, taumaturgo di tutto quello che è ricerca, con chi andare nel mercato non ho. A voi la parola, grazie.

In occasione dell’incontro Theatre No Theatre/Laudesi
PERCORSI NOMADI – Raúl Iaiza e Thomas Richards
Milano, febbraio 2024