All’origine dei Circuiti regionali: dal decentramento al riequilibrio territoriale

L'intevento al convegno La scena (in) centrifuga. Dal decentramento al riequilibrio territoriale: storie, geografie, pratiche e politiche culturali in Piemonte che si è tenuto a Torino il 3 e 4 ottobre 2023

Pubblicato il 17/01/2024 / di / ateatro n. 192 | Le funzioni e la gestione dei teatri comunali

Matteo Negrin, direttore di Piemonte dal Vivo

Pubblichiamo l’introduzione di Mimma Gallina al panel dedicato a “Le politiche” nel quadro del convegno La scena (in) centrifuga. Dal decentramento al riequilibrio territoriale: storie, geografie, pratiche e politiche culturali in Piemonte che si è tenuto a Torino il 3 e 4 ottobre 2023.
Pubblichiamo questo testo anche in vista dell’incontro Il teatro in Comune. Nuove funzioni e modalità di gestione nei teatri comunali che si terrà il 18 gennaio prossimo a Sori, a cui parteciperanno tra gli altri Mimma Gallina e Matteo Negrin.
L’iniziativa di Fondazione Piemonte dal Vivo, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Torino, era inserita nell’ambito del progetto #PDVenti, realizzato in occasione dei vent’anni del Circuito Teatrale del Piemonte (2003-2023). Comitato scientifico Livia Cavaglieri (Università di Genova), Donatella Orecchia (Università di Roma “Tor Vergata”), Armando Petrini (Università di Torino). Curatela: Matteo Tamborrino. Organizzazione: Elisa Bertoglio, Sara Bertorello, Bianca Maria Cuttica, Mariateresa Forcelli, Hillary Ghidini e Alessandra Valsecchi.
Il convegno La scena (in) centrifuga è stata un’occasione per fare il punto sulla funzione e le modalità operative dei Circuiti Multidisciplinari Regionali nel presente e in prospettiva e per conoscere o approfondire alcuni casi e esperienze piemontesi.
Ha offerto anche l’opportunità di ricostruire storicamente il fenomeno del decentramento teatrale e ragionare in modo articolato e problematico sullo strumento dei Circuiti Teatrali Regionali, nati negli anni Settanta (Piemonte dal Vivo è uno dei più giovani) anche alla luce del grave problema degli squilibri territoriali.
Questo articolo sviluppa l’intervento introduttivo di Mimma Gallina al panel “Le politiche”, cui hanno partecipato Marco Chiriotti (dirigente Regione Piemonte-settore Promozione delle attività culturali), Patrizia Coletta, vicepresidente di A.R.T.I. (Associazione delle Reti Teatrali Italiane), Francesca D’Ippolito, presidente di C.Re.S.Co. (Coordinamento delle realtà della scena contemporanea) e Donatella Ferrante (già dirigente presso la Direzione Generale Spettacolo del Ministero della Cultura).
Gli atti del convegno saranno pubblicati prossimamente a cura di Piemonte dal Vivo.

All’origine dei Circuiti regionali

“Rimuovere gli ostacoli”: in principio c’è la Costituzione

I principi e i presupposti delle politiche a sostegno della cultura e dello spettacolo sono riconducibili a due articoli della Costituzione. L’articolo 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”) e l’articolo 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (…)” e inoltre “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Quando la Costituzione dice “la Repubblica” intende tutti i livelli di governo, e quando le Regioni cominciano a operare nei primi anni Settanta, tutte scelgono di occuparsi in qualche modo di cultura (e di spettacolo), anche se non hanno ben chiaro come.
Il problema delle competenze, di cosa debbano e/o possano fare Stato, Regioni, Enti locali, è un nodo tuttora – nei fatti – irrisolto. La riforma costituzionale 2001, articolo 117, riconducendo la “promozione di attività culturali” alla competenza legislativa concorrente (allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, alle Regioni la potestà legislativa) sembrava averlo in parte sciolto, ma lo Stato ha mantenuto le sue prerogative e ciascuna Regione è andata per conto suo (Ateatro se n’è occupata per oltre un anno con un gruppo di lavoro e tre incontri pubblici e la ricerca è confluita nel libro Le politiche per lo spettacolo dal vivo fra Stato e Regioni, FrancoAngeli, 2021).

IL LINK
Marina Caporale, Daniele Donati, Mimma Gallina, Fabrizio Panozzo (a cura di), Le politiche per lo spettacolo dal vivo fra Stato e Regioni, FrancoAngeli, 2021).

Andando all’origine dei Circuiti Teatrali, tutte o quasi le normative regionali relative allo spettacolo individuano come obiettivo primario la diffusione dell’attività sul territorio e presso tutte le fasce della popolazione. A partire dai primi anni Settanta, lo strumento più efficace e diffuso per attuarlo è identificato (se pure non in tutti i territori), nei circuiti teatrali – poi multidisciplinari – regionali.

Dal “reclutamento” al decentramento

La messa a fuoco sia dell’obiettivo sia di nuove forme istituzionali per attuarlo corrispondono a una visione che non è affatto scontata fino agli anni Sessanta inoltrati: e in quella fase il “decentramento” va inventato, un po’ in tutti i campi.
Il Piccolo Teatro di Milano, nel famoso Manifesto del 1947, come mezzo per la diffusione di un “teatro d’arte per tutti”, indicava il “reclutamento” degli spettatori “tra i lavoratori e tra i giovani, nelle officine, negli uffici, nelle scuole, (…) offrendo spettacoli di alto livello artistico a prezzi quanto più è possibile ridotti”. L’”organizzazione del pubblico” – “reclutato” appunto nelle sedi di lavoro e di studio e dalle periferie verso i teatri – è stato un punto di forza degli Stabili, ha costruito metodi e formato quadri.
Il “decentramento teatrale” ha le stesse finalità (la democratizzazione della cultura), ma rappresenta un ribaltamento di strategie e segna la presa di distanza delle nuove generazioni di operatori dalle politiche originarie degli Stabili. Un documento programmatico del Gruppo della Rocca – una delle cooperative più attive dalla fine degli anni Sessanta – chiarisce bene il cambiamento di prospettive, proclamando “la volontà di suscitare una domanda ovunque sia possibile il contatto con un pubblico popolare e nuovo, e ovunque sia possibile creare spazi per fare teatro”. Semplificando, non si tratta più di portare i cittadini a teatro, ma il teatro là dove vivono i cittadini.
Il “decentramento teatrale” è una delle parole d’ordine e un punto d’arrivo – forse il più significativo per le ricadute concrete, sia organizzative sia economiche – della contestazione globale che ha trasformato il nostro sistema teatrale.

Formidabili quegli anni

Già alla metà degli anni Sessanta, mentre nelle città si sperimentavano e si affermavano personalità, linguaggi e pratiche innovative (che trovano voce nel Manifesto del nuovo teatro di Ivrea del ’66), si erano verificate le iniziative del “circuito alternativo” di Dario Fo, anche con l’ARCI appena nata e con i sindacati. Poco dopo gli stessi teatri Stabili sperimentano le prime politiche di decentramento metropolitano, con i Teatri Quartiere nelle periferie di Milano e a Torino (uno dei casi storici proposti nel convegno ricostruisce proprio la dialettica, e quasi lo scontro, fra Giuliano Scabia e Edoardo Fadini rispetto alle prime esperienze nelle periferie torinese).
In crescendo, negli anni Settanta saranno le cooperative teatrali e un nuovo protagonismo dei Comuni (anche piccoli e piccolissimi) a determinare una spinta congiunta dal basso che porta prima le Provincie e poi le Regioni, da poco operative, a varare o sostenere le iniziative di decentramento teatrale.
All’inizio questo processo non coinvolge tanto i teatri, ma qualunque spazio, ovunque possibile: palestre e impianti sportivi, Case del Popolo, biblioteche, sale parrocchiali… Si moltiplica anche l’attività all’aperto (nel corso del decennio nasceranno molti nuovi festival). In genere, le “attività estive” si diffondono emancipandosi immediatamente dal modello convenzionale, per lo più la commedia classica.
I primi circuiti nascono in Emilia Romagna (l’ATER nasce nei primi anni Sessanta in collegamento con l’attività lirica e musicale e i bellissimi teatri di quella Regione, ma costituisce un modello per gli altri), e poi in Toscana (all’inizio su iniziativa della Provincia di Firenze) e – molto per tempo – in Friuli, in Abruzzo e Molise, in Sardegna, in Umbria, in Campania, in Calabria e in Basilicata (Regioni che oggi ne sono prive), più avanti nelle Marche, molto più tardi in Veneto, in Puglia (dove l’ETI tiene salda a lungo Bari). In Piemonte fino agli anni ’80 il decentramento fa capo al Teatro Stabile, come anche in Trentino Alto Adige, mentre in Lombardia negli anni ’70 si occupano di teatro i sistemi bibliotecari e si consolida il circuito delle sale parrocchiali (un circuito verrà riconosciuto nel 2015). In Sicilia e in Liguria circuiti non nasceranno mai.
Ma per capire cosa è successo niente parla meglio dei dati SIAE.

L’andamento degli anni dal ’56 al ’64 sembrava annunciare la morte del teatro, con attività più che dimezzata: le rappresentazioni passano da 32.332 nel 1954 a 14.369 nel 1964, la causa è sicuramente l’affermazione della televisione (che però porta notorietà, lavoro e diffonde una commedia a settimana). Fra il 1964, l’anno più basso, e il 1982, il numero delle rappresentazioni triplica, raggiungono le 48.209, e gli spettatori passano dai 2.748.157 del ’64 ai 9.493.638 dell’83 (non abbiamo purtroppo un dato preciso sul numero di piazze, alcuni commentatori dell’epoca dicono che fossero decuplicate). Per contro, il prezzo medio del biglietto -indicatore fondamentale di accessibilità- nel corso degli anni ’70 cala quasi del 30% (in valore corrente -calcolato in lire 1990- passa da 10.900 a 7.900 lire).
Il fenomeno si arresta nel 1983: il 13 febbraio del 1983 l’incendio del Cinema Statuto di Torino è all’origine di un’applicazione più rigorosa delle normative di sicurezza, che porterà sull’immediato a chiudere decine di teatri e segnerà in prospettiva la fine del teatro “ovunque possibile”, nelle palestre, nei circoli o nelle cantine romane: basta underground!
La fase pionieristica del decentramento ha comportato l’attivazione di spazi non tradizionali, la diffusione in località piccole e piccolissime: quegli spazi, abitati dai cittadini nella loro vita di tutti i giorni, richiedevano una grande agilità scenotecnica, orientavano il repertorio e il linguaggio, ma soprattutto annullavano le distanze tra lo spettatore e il teatro, annullando l’”effetto intimidatorio” (per dirla con Brecht) dei teatri tradizionali.
La vicenda del Cinema Statuto segna uno spartiacque: c’è un prima e un dopo Statuto. Il dopo è un ritorno alla normalità, che forse era già in atto ed è stato solo accelerato. Non bisogna dimenticare però che questa nuova visione della sicurezza sarà all’origine del restauro – su tutto il territorio nazionale ma in particolare nelle regioni del centro – di numerosi teatri tradizionali, anche medio-piccoli, anche dimenticati, per lo più teatri comunali.

Le politiche statali: le prime circolari e le funzioni dei circuiti

Una delle particolarità degli anni Settanta – che certo ha contribuito a generare la crescita del pubblico – è la capacità del Ministero del Turismo e dello Spettacolo di intercettare i cambiamenti, soprattutto grazie all’interlocuzione con l’AGIS. Così il teatro di ricerca, il teatro ragazzi e le cooperative si conquistano un posto in circolare e accedono al finanziamenti ministeriali. E naturalmente anche i Circuiti.
Il termine ancora non appare, ma già nella circolare 72/73 del 26 aprile 1972 si prevedono “contributi ad organismi teatrali costituiti dagli enti locali” in Regioni non servite dai Teatri Stabili “per realizzare in collegamento con l’ETI (Ente Teatrale Italiano), iniziative promozionali e di coordinamento della programmazioni teatrale”.
Nella circolare 75/76 del 6 giugno 1975, i Circuiti territoriali ottengono un articolo ad hoc: possono essere promossi da enti pubblici e da organizzazioni sindacali, culturali e di categoria (possono quindi essere sia pubblici sia privati) e hanno come fine la “programmazione” e la “promozione” nell’ambito di un territorio regionale o interregionale.
Le funzioni si delineano quindi molto per tempo. Quella distributiva è la principale: è subito molto chiara e nei fatti determinerà le modalità di collaborazione e i rapporti economici fra i Circuiti e i Comuni e orienterà le forme di assistenza tecnico-organizzativa. Un po’ più vaga risulta la funzione promozionale, che abbastanza per tempo assumerà le due accezioni che ha tuttora: il sostegno alle aree emergenti del sistema (giovani, ricerca, compagnie regionali…) e all’incremento del pubblico.
Tardiva, ma fondamentale, sarà più avanti l’esclusione della funzione produttiva. Il problema emerge nei primi anni Ottanta con il fallimento del Teatro Regionale Toscano, che aveva spostato sulla produzione una quota consistente di risorse ed energie. Forme di sostegno alla produzione erano state attuate anche altrove – già dagli anni Settanta – in qualche caso con l’acquisto di un numero consistente di rappresentazioni, ma anche favorendo la presenza di compagnie presso i teatri nei periodi di produzione. Erano esperienze che anticipavano di decenni le Residenze e che tendevano a superare la logica del decentramento come puro “giro” per costruire rapporti più strutturati e progettuali delle compagnie con il territorio, stimolando parallelamente modalità di gestione più consapevoli dei teatri comunali. Ancora una volta è l’Emilia Romagna, l’ATER, a fare da apripista, tanto nel sostegno, già dalla fine degli anni Sessanta, a due cooperative (Teatro Insieme e Associati), che nella scelta successiva di distinguere nettamente produzione e distribuzione dando vita, nel 1976, al primo Teatro Stabile a dimensione regionale
(Emilia Romagna teatro). Nel 1991 il ministro Tognoli ribadirà il principio con un Decreto, omologo a quello di riordino dei Teatri Stabili (una delle poche vere “riforme” organizzative del teatro italiano).
La distinzione fra funzione distributiva e produttiva è da allora un principio acquisito, su cui però si torna periodicamente a riflettere: negli anni 2000 si è parlato di “produzione leggera”, e oggi a molti Circuiti sono affidati progetti di residenza (e se le Residenze non sono considerate una pratica produttiva dal Ministero e dalle Regioni, nei fatti costituiscono quasi sempre tappe verso la produzione).
Il “decreto Tognoli”, che aveva come scopo l’omologazione degli statuti degli enti, troverà qualche difficoltà, freni e rallentamenti nell’applicazione ma, vent’anni dopo le prime esperienze, ribadisce e precisa funzioni e modalità di gestione in termini che, nella sostanza, sono gli stessi di oggi. I Circuiti in effetti si rivelano una delle tipologie organizzative più continuative nel tempo: che questo sia un bene o un male, che della continuità si sia fatto buon uso, che sia stato un ostacolo al rinnovamento… può essere un tema di discussione.
Il decreto Tognoli del 1991 – che analogamente a quello per gli Stabili prevede un direttore unico altamente qualificato e l’obbligo del pareggio di bilancio – descrive nel dettaglio le finalità e le tipologie di attività dei Circuiti.
L’attività primaria è la distribuzione: la programmazione e gestione diretta di sale dotate di agibilità, ovvero l’attuazione di un “progetto di distribuzione” con la partecipazione dei proprietari e dei gestori delle sale, presentazione di un repertorio qualificato, “con particolare riferimento a quello contemporaneo”, e al teatro per l’infanzia e per la gioventù, “equilibrato rapporto per la circuitazione di compagnie di varia natura e dimensioni organizzative di attività”. La dimensione quantitativa dell’attività deve essere inoltre “adeguata al numero dei teatri disponibili”.
La promozione viene descritta e può riguardare convegni, stages, seminari, mostre, attività editoriali, e “tutte le altre iniziative volte ad incentivare lo sviluppo delle attività teatrali e la partecipazione del pubblico” (non si usa ancora il termine formazione del pubblico), e può riguardare anche altre forme di spettacolo dal vivo. E’ collegata alla disponibilità di risorse diverse da quelle statali, e forse per questo non è mai proprio decollata. Sono inoltre previsti l’aggiornamento e la formazione professionale per amministratori, organizzatori e tecnici.
Inoltre “gli enti, a richiesta dell’ETI, sono tenuti a stipulare con quest’ultimo convenzioni annuali pluriennali, per la realizzazione di specifici progetti di distribuzione e promozione”.

C’era una volta l’ETI

Già nella circolare del ’72 l’ETI era stato individuato dal Ministero come organizzazione con cui i Circuiti nascenti erano tenuti a collaborare per ottenere un sostegno, con un ruolo di fatto di garante. Anche nelle disposizioni successive – e pur con il riconoscimento di questa nuova area del sistema – il riferimento alla collaborazione tra ETI e Circuiti non è mai mancato: la formula del Decreto Tognoli – decisamente anomala – che prevede rapporti cortesemente obbligatori (se richiesti), è il punto d’arrivo di una dialettica complessa (incontro-scontro) sul tema della distribuzione degli spettacoli sul territorio nazionale.
Forse è utile fare un passo indietro: l’ETI, unica organizzazione teatrale pubblica nazionale, nasce nel 1942 e decolla a tutti gli effetti nell’Italia repubblicana.

LEGGE 19 marzo 1942, n. 365 – Costituzione dell’Ente Teatrale Italiano per la cultura popolare (E.T.I.)

Art 1. E’ costituito, con sede in Roma, un ente di diritte pubblico denominato Ente Teatrale Italiano per la cultura popolare (E.T.I.) con lo scopo di promuovere l’incremento delle attivita’ teatrali o di pubblico spettacolo nel quadro delle direttive fissate dal Ministero della cultura popolare, a tal fine l’Ente si propone:
1. l’acquisto e la costruzione, nonche’ i restauri e adattamenti di immobili destinati o da destinarsi ad uso teatrale;
1. la gestione di teatri e, occorrendo, quelle di imprese teatrali e di spettacoli cinematografici.

Silvio D’Amico, lo considerava una forma di “impresariato di Stato”: la definizione è efficace perché, anche se la gestione diretta di imprese non è mai stata praticata, i criteri di programmazione dei teatri erano orientati più alle logiche e agli interessi delle compagnie teatrali (equilibri interni al mondo impresariale nel suo complesso, razionalizzazione nella misura possibile delle tournée), che a quelle dei singoli teatri e dei territori.
La funzione distributiva può essere intesa in modi molto diversi, e la logica dei Circuiti è molto lontana da quella dell’ETI. Negli anni Settanta la contrapposizione è forte: alcuni importanti teatri di proprietà comunale gestiti dall’Eti si emancipano dalla gestione centralista, non rinnovano le concessioni e danno vita a originali percorsi di gestione. A volte sono fra i fondatori e spesso aderiscono ai Circuiti.
E’ del 1978 una prima riforma dell’ETI che “democratizza” l’ente, ampliando il consiglio di amministrazione. La funzione distributiva è confermata (e si allarga alla promozione del teatro italiano all’estero), ma in collaborazione con i Circuiti. Nei fatti l’ETI rafforza la gestione diretta dei teatri di Roma (Valle e Quirino), Firenze (Pergola) e Bologna (Duse), si tiene stretto qualche altro teatro importante, soprattutto dove non esistono circuiti, e negozia qualche collaborazione (non sempre con facilità, a giudicare dal passaggio del Decreto Tognoli).
Fra il ‘93 e il 2001 l’ETI è commissariato (proprio per l’allargamento del cda, che sembrava avesse comportato o potesse comportare conflitti di interesse). In questo periodo si sperimentano cambiamenti significativi – progetti di taglio promozionale e internazionale, sostegno al teatro ragazzi – fino a darsi, nel 2002, un nuovo Statuto che conferma e rafforza questi nuovi orientamenti. Ma il “nuovo” ETI non ha vita lunga: viene soppresso nel 2010 assieme ad altri “enti inutili” e le sue funzioni vengono trasferite al Ministero. La soppressione è vissuta con dolore dagli operatori, Circuiti inclusi, che nell’operato dell’ultima fase dell’ETI avevano trovato un interlocutore per la messa a fuoco della funzione promozionale.

I Circuiti oggi

Nei decenni 1990-2020 le linee guida collegate al finanziamento statale nella sostanza non sono cambiate, fatta eccezione per la rilevante e positiva introduzione del modello multidisciplinare.
Riprendendo dal decreto FUS 2017:

Art. 38 Circuiti regionali multidisciplinari

1. Fermo restando quanto previsto negli articoli 5 e 37 del presente decreto, è concesso un contributo ai circuiti regionali che, nella regione nella quale hanno sede legale, svolgono attività di distribuzione, promozione e formazione del pubblico, in idonei spazi di cui l’organismo ha la disponibilità e che non producano, coproducano o allestiscano spettacoli, direttamente o indirettamente. I circuiti possono svolgere l’attività, in aggiunta, anche in una regione confinante con quella in cui hanno sede, ove sia priva di un analogo organismo. Può essere sostenuto, ai sensi del presente articolo, un solo circuito multidisciplinare per regione.

I Circuiti hanno attuato le loro funzioni in coerenza con queste indicazioni, a volte denunciandone i limiti, qua e là cercando di rinnovarsi, inventare e adeguare le pratiche ai cambiamenti del teatro e della società.
La funzione promozionale in particolare – da sempre vaga e sottostimata – ha dimostrato di avere declinazioni molto diverse.
Ma i Circuiti, così come erano stati concepiti, sono ancora uno strumento adeguato, a fronte delle sperequazioni territoriali che perdurano e si accentuano? E come hanno reagito al disastro (il termine crisi sarebbe eufemistico) del sistema distributivo nel suo complesso? Che resistenza hanno opposto alla sperequazione tra domanda e offerta, alla riduzione delle tournée, all’impoverimento diffuso del settore?
Il sistema produttivo nazionale, i gruppi giovani, le realtà territoriali chiedono ai circuiti risposte e soluzioni. Lo Stato sembra voler ancora attribuire ai Circuiti un ruolo rilevante in un futuro prossimo, se si attuerà il Codice dello Spettacolo.

Legge 22 novembre 2017 n. 175
Disposizioni in materia di spettacolo e deleghe al Governo per il riordino della materia

Art. 1 Comma 4. L’intervento pubblico a sostegno delle attività di spettacolo favorisce e promuove, in particolare: (…)
f) il riequilibrio territoriale e la diffusione nel Paese dell’offerta e della domanda delle attività di spettacolo, anche con riferimento alle aree geograficamente disagiate;
g) lo sviluppo di circuiti regionali di distribuzione, promozione e formazione tra i diversi soggetti e le strutture operanti nel settore dello spettacolo, anche con riferimento alle residenze artistiche, al fine di assicurare, anche in collaborazione con gli enti del terzo settore di cui alla legge 6 giugno 2016, n. 106, un’offerta di qualità su tutto il territorio nazionale e favorire la collaborazione con il sistema dell’istruzione scolastica di ogni ordine e grado;
(…)
Art. 2. Deleghe al Governo
(…)
4. Con particolare riferimento ai settori del teatro, della musica, della danza, degli spettacoli viaggianti e delle attività circensi, dei carnevali storici e delle rievocazioni storiche, i decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi specifici: (…)
e) previsione, ai fini del riparto del Fondo unico per lo spettacolo, che i decreti non aventi natura regolamentare di cui al comma 2, lettera b), numero 2), definiscano i seguenti criteri: (…)
7) l’attivazione di piani straordinari, di durata pluriennale, per la ristrutturazione e l’aggiornamento tecnologico di teatri o strutture e spazi stabilmente destinati allo spettacolo, con particolare riferimento a quelli ubicati nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti;
8) il sostegno ad azioni di riequilibrio territoriale e diffusione, anche tramite la realizzazione di specifici progetti di promozione e di sensibilizzazione del pubblico, da realizzare in collaborazione con gli enti territoriali, mediante i circuiti di distribuzione che includano anche i piccoli centri urbani;

I Circuiti sono attrezzati per tutto questo? (è la prima domanda)
E dove i circuiti non ci sono, sarà opportuno costituirli?
Il quadro nazionale infatti non è per niente omogeneo. Può essere utile ricapitolarlo in conclusione con un passaggio dal libro già citato, in cui si mettono a confronto le politiche delle Regioni e i diversi assetti territoriale in materia di Circuiti.

Le politiche per lo spettacolo dal vivo tra Stato e Regioni

i Circuiti teatrali regionali (o, dal 2015, multidisciplinari) incaricati della distribuzione e promozione sul territorio, sono però anche il terreno su cui le Regioni, all’inizio degli anni Settanta, hanno iniziato a rivendicare le loro competenze rispetto allo spettacolo. Proprio queste organizzazioni dovrebbero favorire la riduzione degli squilibri a livello nazionale e regionale.
Il termine “circuito” è sempre più spesso affiancato o sostituito da quello di “rete” (con caratteristiche e finalità sempre piuttosto vaghe), mentre i compiti dei Circuiti tradizionali si sono allargati a servizi più ampi, i principali sono diventati multidisciplinari.
Gli assetti e i riferimenti normativi regionali ai Circuiti sono però disomogenei. Premesso che la partecipazione delle Regioni ai Circuiti è disciplinata da leggi dedicate, la situazione che si evince dalle norme analizzate (e sul campo) è la seguente:

# 4 leggi che riconoscono un solo circuito (precisandone le funzioni): Friuli-Venezia Giulia (con Ente Regionale Teatrale), Lazio (con ATCL), Piemonte (con Piemonte dal Vivo), Toscana (con Fondazione Toscana Spettacolo);
# 4 circuiti (per 5 5egioni) non sono nominati nelle leggi analizzate, ma istituiti da leggi ad hoc e riconosciuti dallo Stato: Emilia-Romagna (ATER Fondazione), Puglia (Teatro Pubblico Pugliese), Veneto (Arteven). Abruzzo e Molise (ACS Abruzzo Molise Circuito Spettacolo)
# 4 leggi fanno riferimento a più circuiti o reti, anche se ne risulta solo uno riconosciuto dal MiC (per quanto non nominato dalle leggi): Sardegna (CEDAC), Lombardia (CLAPS), Campania (Teatro Pubblico Campano), Marche (AMAT);
# 3 leggi fanno riferimento a più circuiti o reti potenziali senza nominarli (e dunque potrebbero ancora non esistere): Umbria (dove però il circuito teatrale si identifica con il TRIC), Calabria, Sicilia;
# 5 leggi non nominano circuiti e non li indicano come tipologia di intervento da sostenere: Valle d’Aosta, Liguria, Bolzano, Trento, Basilicata (che fa un generico riferimento alle reti).

Si evince che il modello classico del circuito pubblico, unico per Regione, non solo non si è diffuso in tutta Italia, ma non è prevalente e non è avvertito da tutte le Regioni come necessità (va rilevato che Calabria e Basilicata hanno avuto nella storia più di un circuito). In alcune Regioni il ruolo e la funzionalità di queste organizzazioni è crescente o particolarmente valorizzato dalle norme (Piemonte, Toscana, Lazio, Friuli-Venezia Giulia). Invece le Regioni che non hanno circuiti (fatta eccezione per le Province di Trento e Bolzano) non hanno una situazione florida in termini di domanda e offerta: la distribuzione resta una delle criticità più evidenti del sistema, forse la principale: le politiche regionali dovrebbero affrontare questo nodo.
Una particolarità da segnalare: la legge delle Marche prevedeva nel 2009, e ha poi costituito nel 2011, il Consorzio Marche Spettacolo: una via originale per promuovere la collaborazione fra le organizzazioni di spettacolo, con ricadute possibili anche per la distribuzione (che però non è lo scopo).




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