Diario gulliveriano di bordo

Note sull'adattamento drammaturgico del romanzo di Swift

Pubblicato il 19/07/2004 / di / ateatro n. 072

La mia avventura gulliveriana è cominciata alla fine del 2002, quando Alessandra Panelli, Anna Di Quirico e Ivana Conte, anime della Compagnia Diverse Abilità, mi hanno parlato dei laboratori teatrali creati e gestiti nell’ambito di un Centro d’igiene mentale della Asl di Roma (al Laurentino) e di una prova non aperta al pubblico realizzata nel 2002 ispirata a un frammento dei Viaggi di Gulliver e senza testo. La loro idea era di trasformare, al termine del primo ciclo triennale di laboratori, con il consenso e la collaborazione terapeutica degli operatori psichiatrici del Cim, questo primo rudimentale abbozzo teatrale in uno spettacolo vero e proprio, da presentare al pubblico. Per questo mi richiedevano di proporre una chiave di lettura drammaturgica del testo e di elaborarne una versione estremamente ridotta e semplificata da mettere alla prova durante i laboratori e poi da finalizzare allo spettacolo. Per prima cosa mi hanno fatto conoscere la realtà di quei laboratori, attraverso la visione di alcuni filmati e soprattutto mediante la partecipazione diretta – come spettatore – ai due laboratori gestiti da Alessandra Panelli (“Formazione dell’attore”) e Anna Di Quirico (“Danza e Movimento Terapia”). Parallelamente, in una serie di incontri di lavoro, si sono identificate le delicate condizioni di lavoro (il disagio e le problematiche psichiche dei partecipanti, l’impatto emotivo con un eventuale pubblico esterno, le indicazioni degli psicoterapeuti, la scarsità di tempo e di mezzi di sostegno, la povertà del budget, ecc.)
Il mio primo approccio è stato quello di ricavare dal testo di Gulliver una serie di frasi e di parole chiave (soprattutto legate al tema del viaggio come bisogno ed esperienza di cambiamento, come occasione di incontro/scontro con il diverso e l’ignoto e quindi come occasione di ridefinizione della propria identità) da sottopporre alla riflessione del gruppo all’interno dei laboratori. Volevamo scoprire cosa evocavano in ognuno quelle parole o quelle frasi, Alessandra e Anna poi stimolavano gli elementi del gruppo a somatizzare, mediante movimenti, gesti, vocalizzazioni, quelle suggestioni. Il senso di tutto questo era di fare in modo che il viaggio di Gulliver non fosse qualcosa di esteriore che si sovrapponeva all’esperienza soggettiva, ma che fosse usato come metafora per interpretare, comunicare, liberare i propri percorsi emotivi ed esistenziali. Partendo da questa dinamica psico-fisica di interiorizzazione e dall’abbozzo di un episodio gulliveriano (quello del disequilibrio e del naufragio) già sperimentato l’anno precedente, si sono gradualmente introdotti nuovi episodi. Il mio metodo di riscrittura è stato quello di trovare primariamente un’idea scenica come sintesi metaforica e metamorfica del testo (come ad esempio la trasformazione iniziale del lenzuolo sul letto di Gulliver nella vela della sua zattera).
All’inizio il mio progetto drammaturgico comprendeva quattro parti (corrrispondenti alle quattro parti del libro: il paese dei lillipuziani, il paese dei giganti, l’isola sospesa e l’accademia dei folli inventori, il paese dei cavalli sapiens), un prologo e un epilogo. Collocando la vicenda in una dimensione atemporale, ed evitando sia i riferimenti storici del romanzo sia eventuali riferimenti alla nostra attualità. La forza corrosiva della satira swiftiana non è infatti tanto diretta a una categoria di uomini e di politici (anche se nell’Inghilterra dell’epoca l’avevano considerata tale perseguitando lo scrittore), ma alle ipocrisie e alle meschinità dell’essere umano, capace di produrre immani tragedie come i genocidi, le guerre civili, le persecuzioni e gli stermini razziali. Era questa universalità della satira swiftiana, sempre attuale, che ci interessava cogliere. Così, ad esempio, il tema dell’intolleranza verso il diverso o il vicino che conduceva alla guerra faceva parte della prima versione teatrale dell’episodio dei lillipuziani, oppure il tema dell’incomunicabilità delle lingue che diventava l’occasione di una discriminazione dello straniero. Poi la scelta di eliminare tutto il dialogo in scena e limitare il testo alle registrazioni, conseguente ai problemi emotivi degli attori , spaventati di dover ricordare le battute e di doverle ripetere in pubblico, ci ha indotto a una drastica riduzione dei dialoghi. Anche la complessità della struttura in quattro parti è stata ridimensionata sia riducendo le scene in ogni parte sia abolendo la quarta parte dell’incontro di Gulliver con i cavalli sapiens. Il testo è quindi diventato soprattutto diario di Gulliver, letto sia dalla voce del personaggio sia da altre voci, a testimonianza che ciascuno degli attori era una parte di Gulliver. La parola si fa contrappunto dell’azione, vera protagonista dello spettacolo, interagendo con una texture sonora sapientemente elaborata da Hubert Westkemper. Il lavoro registico di Alessandra ha trovato nell’integrazione tra i diversi linguaggi, nella semplicità e nel ritmo le chiavi risolutive per fare emergere con nitidezza il complesso percorso laboratoriale e drammaturgico che era stato intrapreso, valorizzando l’intesa e la coesione espressiva del gruppo. Un elemento caratterizzante di questa esperienza – e la sua sfida – è stato proprio quello di trasformare i molteplici limiti oggettivi e soggettivi in una risorsa creativa, in uno stimolo a lavorare non per rinuncia ma per sottrazione consapevole, crcando l’essenza della relazione tra soggetti-attori e nucleo simbolico del testo. Una sfida, credo, vinta, grazie a un impegno umano prima ancora che “teatrale”. Come diceva Jung: “Gli atti semplici rendono l’’uomo semplice. E quanto è difficile essere semplici.”

Andrea_Balzola

2004-07-19T00:00:00




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