Il teatro è ecologico?

Scena ambiente antinatura

Pubblicato il 18/02/2001 / di / ateatro n. 002

Gli spazi naturali, sia quelli selvaggi che quelli degli ambienti “arredati” nei borghi e nelle città, svolgono una funzione essenziale nella comunicazione artistica, sia come linguaggio che come sistema di riferimenti topologici e simbolici. Nella natura ci muoviamo e agiamo quotidianamente e artisticamente: sia in quella terra dove “perdersi” à la Thoreau, nelle campagne, nei mari e nei monti, che in quella tecnologica dove “ritrovarsi”, negli spazi urbani, nei giardini, nelle piazze, nei viali, lungo i fiumi che attraversano le città. Dallo spazio che ci circonda, o in cui ambientiamo le nostre ricerche, dipendono pure i messaggi che ci giungono dalle varie parti del mondo.
C’è infatti omologia tra i tipi di comportamenti, che possono essere considerati come testi della cultura scenica, e la continua progettazione e rimanipolazione della Terra, del mondo. Dal momento che i testi di una cultura sono riconducibili a un modello astratto che assume spesso figure naturali, è possibile anche utilizzare i luoghi o le ambientazioni terrestri come metalinguaggio per la ricerca e la sperimentazione nella cultura.
Le interpretazioni semantiche, le chiavi di lettura più semplici sono quelle che procedono per opposizioni: interno/esterno, dentro/fuori, vicino/lontano, corpo/spazio, natura/cultura, eccetera. Ebbene, le culture teatrali contemporanee e di avanguardia tendono a far scorrere il punto di vista lungo i confini di questi opposti o addirittura a capovolgere il senso dei modelli più o meno tradizionali.
Queste ricerche, naturalmente, si complicano a seconda dei contesti storico-culturali e definiscono meglio i loro nuovi contorni nella azione  scenica, dai rituali mutuati dalla festa alle forme più raffinate del teatro colto, dal cosiddetto teatro di poesia sino alle attuali forme dello spettacolo multimediale e dell’installazione.
Il teatro, che si fondava pure su una precisa codificazione degli spazi “naturali”, dà oggi forte rilevanza alle frontiere di tali spazi, attraverso una permeabilità tra tutti gli elementi della scena, fino alla rinuncia alle stesse architetture teatrali per una ricodificazione dei linguaggi in altri ambienti, naturali e simbolici.
Ma lo spazio teatrale è sempre spazio significativo, cioè spazio che produce senso anche quando si scaglia contro di esso. Il teatro e’ il regno delle forme simboliche anche quando va “contro natura”. In teatro la natura e’ spazio da scoprire o spazio vissuto, invenzione e creatività. E’ vero che anche la terra e’ sempre in qualche modo connotata, ma lo spazio scenico e’ come una seconda pelle, che viene sovrapposta al luogo naturale per caricarlo di valenze estetiche o per conquistare al cosmo della cultura parti crescenti di quel territorio non massificato, talvolta inesplorato, che costituisce la cosiddetta wilderness nelle dimensioni dell'”oltre”.
Di fatto, quando l’attore o il performer entrano in contatto con la natura in un’area non tradizionalmente predisposta, il luogo fisico dove opera diventa spazio scenico codificato. Questo spazio scenico naturale trasforma a sua volta tutte le persone che hanno superato i confini del posto riservato al pubblico e in generale del mondo che si trova fuori di tale spazio e sono entrati nel suo regno. Forse per questo rimaniamo tanto affascinati dai templi, dai teatri e dai ruderi della storia sparsi per la Terra, dalla campagna mediterranea alle foreste dello Yucatan.
Certo, quando il teatro (la scena) entra nella natura tende a impossessarsi di questo spazio “magico”, può manipolarlo, plasmarlo, ma ne risulta a sua volta condizionato. Mentre gli spazi interni, attrezzati all’uopo, sono prevalentemente neutri, stagnanti, come in attesa d’una azione scenica, gli spazi terrestri naturali (e spesso magici) sono costituiti proprio dal loro ininterrotto divenire ed acquisiscono la stessa flessibilità della parola poetica, condividendone gli stessi rischi.
In questo spazio contaminato (reso “luogo deputato”), l’attore/attante, il regista, il performer, l’artifex che dir si voglia, articola e in-scrive (o riscrive) il suo discorso scenico sullo ambiguo confine che separa i segni della natura e le tracce della storia. Qui il percorso si fa impervio e si affaccia sul baratro che ci separa pure gli uni dagli altri…
Ci troviamo ora ben oltre la dimensione del , dello scenario naturale da utilizzare per rendere appetibile una “rappresentazione”.
Per intenderci, facciamo un passo indietro. L’arte si sviluppa dal momento in cui gli esseri umani si separano dalla loro comunità. Nel corso della preistoria non c’e’ arte. Cio’ che si e’ soliti isolare con questo termine e’ la materializzazione di una facoltà conoscitiva, attraverso la quale l’uomo rappresenta il mondo da cui non vive ancora separato, autonomizzato. Si tratta dunque di un elemento della conoscenza non astratta, cioe’ non basata unicamente su quella modalità della astrazione che si avrà in seguito; una conoscenza che, come dice Leroi-Gourhan,(1) deriva da un pensiero multidirezionale che si irradia e instaura un dialogo con quanto lo circonda, giacche’ non si e’ ancora verificata la frattura. Cosi’ questa arte, per definirla con termini attuali, e’ simultaneamente linguaggio, scienza, magia, rito, teatro, etc., e al tempo stesso parte di un tutto da cui riceve e a cui conferisce significato.
Una volta prodottasi la frattura, la arte e il teatro diventeranno un mezzo attraverso il quale far rivivere la antica comunità, la ; e, dal momento che il legame immediato non opera più, si porranno come mediazione che cerca di ristabilire la comunicazione, il “fenomeno radiante”(2).
Qui nasce pure la figura dello sciamano, del mago esploratore e regista dello oltre, esperto di tecniche esoteriche che con i suoi ed esorcistici cerca di proteggere la sua etnia da tutte le forze dissolutrici e di riscattarle da una terribile confusione con gli elementi più incontrollabili della natura stessa(3).
Con il teatro greco, l’opera, il cinema, con tutti i tentativi di realizzare l’arte totale in epoca contemporanea (lo si può constatare anche in alcuni progetti di land-art e in certe performance multimediali), questa nostalgia, questa ricerca della comunità perduta si afferma, anche se per gli operatori la cosa non può più manifestarsi in tali termini.
E’ interessante notare, a proposito di mancanza, di assenza (o di fine), che Mircea Eliade, nel 1963, affermava proprio che la arte contemporanea delle origini (tra Ottocento e Novecento) nella sua fase di distruzione-creazione del mondo precedente – e pur saccheggiando le giovani forze dei popoli cosiddetti primitivi, amerindi o africani – coltivava un forte interesse per le origini, rivalorizzando in fondo il mito della fine del mondo in epoca contemporanea(4).
In pratica si potrebbe constatare che gli attori-attanti-autori, gli scrittori-scompositori della scena, i demiurghi del nulla, lungi dallo essere i nevrotici di cui talora si parla, hanno invece capito che un vero ricominciamento può avere luogo solo dopo una vera fine; e i primissimi avanguardisti, come i cubofuturisti e i dadaisti, si sono adoperati veramente per distruggere il loro mondo nel tentativo di ri-creare un universo artistico nel quale l’uomo potesse nello stesso tempo esistere, contemplare e sognare…
In realtà, quello che si e’ venuto a creare in occidente (e non solo) dopo gli anni 30 e’ un mondo in cui l’uomo ha sempre meno importanza e significato – e non certo dal punto di vista umanistico – proprio perche’ ha subito una profonda e forse definitiva spoliazione ad opera delle esteriorizzazioni e rappresentazioni dello io causate dalla psicanalisi volgare.
In questa fase il soggetto stesso diventa arte (di mercato) e la arte diventa il sistema di comunicazione internazionale per eccellenza, con i suoi crediti e le sue fughe in avanti (e indietro), e le sue fabbriche di arte: la moda, la pubblicità, la critica come promotion e censura, il nome.
Non a caso, lo stesso Leroi-Gourhan segnalava già negli anni Sessanta(5) la tendenza tutt’altro che innocente a far scomparire la separazione tra attori e spettatori perche’ lo spettacolo deve essere allestito con la complicità di tutti gli esseri umani, messi in movimento da alcuni orchestratori della illusione che hanno proprio il compito di mediare, sono di fatto i mediatori tra i linguaggi della arte e le esigenze del mercato: quelli che oggi si chiamano, erroneamente, operatori culturali.
Percio’ si pone una alternativa alla interpretazione che il primo Ernesto de Martino – coniugando il suo scetticismo storicistico con il linguaggio analitico-esistenziale di Heidegger -, diede delle tecniche sciamaniche atte a rafforzare di fronte al rischio di non-esserci(6): nelle società di oggi molti artisti (o almeno quelli che potrebbero essere considerati gli attuali sciamani della Terra), poeti e teatranti in particolare, scelgono le amodalità di un “non-esserci” di fronte al rischio di esserci come presenza alienata dalla spettacolarizzazione diffusa, dalle stesse forme della comunicazione massmediatica.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1. Cfr. Il gesto e la parola, di Leroi-Gourhan, Torino, Einaudi, 1977.
2. v. Il disvelamento, di Jacques Camatte, Milano, La Pietra, 1978.
3. v. Il signore del limite, di Placido Cherchi, Napoli, Liguori, 1994.
4. v. Mito e realtà, di Mircea Eliade, Milano, Rusconi, 1974.
5. Op. cit.: Il testo, nella prima edizione francese, e’ del 1964.
6. v. Il mondo magico, di Ernesto De Martino, Torino, Boringhieri, 1973.

Massimo_Zanasi_(Arka_Teatro)




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