“Lo spettacolo è finito, gente. Circolare” L’’istituzionalizzazione dell’’arte e la vita segreta dell’’underground

The Next Thing - Materiali di lavoro

Pubblicato il 15/02/2002 / di / ateatro n. 029

Dal 1960 al 1968, l’altro mondo argentato della soffitta di Warhol sulla 47ma Strada Est, fu il luogo in cui le sottoculture intrecciate degli anni Cinquanta – artistiche, sessuali, talvolta anche criminali – poterono finalmente risalire in superficie e guadagnare lo smagliante glamour dell’eleganza agiata degli anni Sessanta.

Stephen Koch, Stargazer: Andy Warhol’s World and His Films.
Nei trent’anni trascorsi dall’apogeo della Factory di Warhol, di tutte le subculture che in essa sono emerse, soltanto quella criminale, con qualche eccezione, non è ancora stata assunta come una celebrazione della differenza dell’arte. Si può però affermare che l’espansione dei confini dell’arte derivi dall’azione di Warhol per rendere il mondo dell’arte sicuro per Andy. E’ questo il salutare effetto, secondo Dave Hickey, che Warhol ha avuto sull’arte in particolare e, di conseguenza, sulla cultura in generale. Con il rovesciamento interno-esterno – offrendo un buco della serratura voyeuristico sulla vita reale o fittizia dell’underground – e con quello esterno-interno – adattando i generi hollywoodiani ai contenuti omosessuali – Warhol fu ampiamente in grado di competere con la rappresentazione mediale mainstream, mentre allo stesso tempo ne diventava un soggetto. Ora, l’arte, di nuovo, è la cugina povera della sofisticazione dell’intrattenimento. Un tempo la Factory rese visibile un entourage di “superstar” emarginate, protettori e checche. Ora la stella dell’arte impallidisce di fronte alle licenze che Warhol si prese a piene mani con l’androginia e il travestitismo delle superstar dello sport e della moda – Dennis Rodman e RuPaul, per citarne due.
E’ verissimo – e mi rivolgo a Stephen Koch -, quanto ha detto della Factory, e cioè che “lo speciale destino di questo luogo era rendere visibile l’underground. Quando quel processo finì, finì anche lo spettacolo. L’unica sorpresa è che ci sia voluto così tanto al mondo dell’arte per rendersi conto che il suo spettacolo è in tutto e per tutto finito, e per comprendere quanto il suo stesso successo abbia contribuito a questa fine. Inoltre, che potere ha oggi l’immagine dell’underground per attirare un giovane, ad esempio, da Topeka nel Kansas e indirizzarlo alla scena artistica, anche per diventare un artista, di fronte a quello di uno spettacolo sostenuto dalla maestria massmediatica della pubblicità e della televisione? E tuttavia, il destinatario diffuso dell’espediente travestitistico di Dennis Rodman rende la sua immagine così accettabile da far scaturire soltanto una reazione incerta e inarticolata – “been there, done that.
“Rendere il mondo dell’arte sicuro per Andy siginificava anche rendere tossiche le immagini di cultura, o piuttosto rendere culturali le immagini tossiche. Forse l’underground ha sempre svolto un ruolo supplementare: quello di affrancare un pubblico distante, anche se soltanto un individuo alla volta, attraverso l’identificazione con le immagini. Anche se ha inizio con l’individuo, questo ruolo sfocia in un effetto sulla società in generale. Il legame dell’arte con i margini, articolato attraverso l’underground, avvia un dialogo che si conclude con la società che rende mainstream l’immagine dell’emarginato (per degli esempi recenti basta pensare all’influenza esercitata dalle immagini di Larry Clark e di Nan Goldin sulla fotografia di moda). Ciò che ha inizio come una celebrazione fatta da artisti viene fagocitato dai media, e spesso finisce col diventare panico sulla stampa (si pensi alla reazione alla campagna pubblicitaria in stile “pornografia adolescenziale” di Calvin Klein del 1995, derivata dalle immagini di Clark). La fascinazione degli artisti per i margini è un segno dell’attrattiva dell’underground. Dopo tutto, l’underground corrisponde a un tema dinamico nella storia americana, il rifiuto della famiglia e la riforma della comunità, messi in atto sulla base di un ideale. Che questo ideale venga oggi espresso nelle subculture, o semplicemente culti, non affievolisce la sua attrattiva – al contrario.
Oggi l’underground è rappresentazione. Se sia o meno un’illusione romantica non ci riguarda in questa sede; diciamo che rappresenta l’idea che ci aveva originariamente attratto verso l’arte contemporanea. Per molti nel mondo dell’arte, tuttavia, la fascinazione iniziale è confluita nella loro successiva adozione di varie modalità critiche nei confronti dell’arte. Purtroppo la ”critica” è il punto di partenza per gli studenti nelle scuole d’arte di oggi – il che equivale a riconoscere che si è tramutata in un dibattito accademico radicato. Come tutti i dibattiti accademici che giustificano le istituzioni, la “critica istituzionale dell’arte richiede che il suo status venga mantenuto come parte dei beni pubblici.
Benjamin BuchIoh lo chiarisce perfettamente in una elegia pubblicata di recente sulla perdita del privilegio critico. In Artforum aveva preteso dalle istituzioni artistiche “uno spazio critico in deroga, se non in opposizione [sic], all’interno della sfera di potere borghese per “il numero relativamente limitato di posizioni e pratiche artistiche della sua generazione che aveva difeso nel corso degli anni, per non subire altrimenti le “irreversibili conseguenze, una delle quali sarà la suo assenza dal settore. Ritengo che molti troverebbero questo ultimatum, e la “produzione culturale che ne risulterebbe, incoerente con i loro desideri di arte. Ma in fondo siamo tutti afflitti dalle contraddizioni delle nostre posizioni istituzionali e dalle nostre radici radicali. L’insistenza di Buchloh sull’impegno dell’arte solo pubblico e collettivo è in disaccordo con una nozione più attraente, a mio avviso, dell’arte (o dell’underground) come, in primo luogo, “una modalità di discorso privato, un accumulo di occasioni sociali minute e gracili, il prodotto e il legame delle comunità fuggiasche di partecipanti con mentalità simili, come la descrive più generosamente Dave Hickey.
Se lo spettacolo è finito, è possibile che l’underground abbia mantenuto una vita segreta nella rappresentazione? Visto che quella forma di comunità artistica non potrebbe essere né piantata né ricreata all’indomani della sua dissoluzione, l’idea dell’underground doveva essere rivissuta nell’immaginazione, il che significava dover attendere l’arrivo di una nuova generazione che non avesse avuto di essa un’esperienza diretta. E non sorprende che la generazione la cui adolescenza è coincisa con “gli anni Sessanta – gli artisti degli anni Ottanta – abbia replicato a sua volta le dicotomie di quel decennio nel proprio. Già negli anni Sessanta, ai loro reali albori, l’opposizione tra “istituzione e “underground fu rimpiazzata dal successo galleristico della prima espressa nella teatralità machistica del minimalismo e la sua apoditticità “bianco-cubica. Nel frattempo, la teatralità omosessuale che dominava l’underground non sarebbe sopravvissuta alla teatralità stessa del decennio. Il teatro underground dell’autorappresentazione avrebbe necessitato di un ritorno in un’altra forma, di una ripetizione che si sarebbe dovuta considerare, per utilizzare un’espressione ad esso congeniale, ugualmente oltre ogni limite. Negli anni Ottanta, sopportare un riferimento furtivo all’underground avrebbe implicato qualche genere di ri-rappresentazione dei sé all’interno di una strategia di citazioni, un concetto che è stato a lungo messo alla prova, anche se con diversa enfasi, nell’arte dell’appropriazione e nei dibattiti attuali sulla “morte dell’autore. Potrebbe essere questo un modo per caratterizzare l’arte americana degli anni Ottanta: da un lato l’arte citatoria istituzionale del neo-minimalismo, del neo-concettualismo e del neo-geo; dall’altro, un’arte performativa citatoria di foto-artisti come Cindy Sherman e Richard Prince. Così, l’interpretazione delle opere di Sherman e di Prince offerta su basi post-moderniste penderebbe verso una mnemonica underground.
Ma un “immagine da sola può sopportare qualche riferimento all’underground senza diventare la sua effettiva documentazione? E i “ruoli ripetuti sono sufficienti a mantenere un dialogo per lo meno intermittente con l’idea dell’underground? Considerando che l’immagine fotografica è anche una dislocazione di tempo o spazio, una relazione all’idea o all’immagine dell’underground non è anch’essa compartecipe dello stesso duplice distanziamento: nel passato, la distanza spaziale dei suoi non ancora partecipanti; nel presente, la distanza temporale del ricordare chi era troppo giovane per conoscerlo? Le immagini ri-fotografate di Richard Prince, che egli stesso definisce come proiezioni dei suoi desideri, allo stesso modo inducono questo dualismo: ritraendo lo spazio dell’altro (le sue belle ragazze in moto o qualche altro sostituto subculturale per i margini), e suggerendo un altro tempo (poiché spesso si può pensare che le immagini rappresentino un’altra epoca – gli anni Cinquanta, gli anni Sessanta o Settanta – epoche, comunque, che Prince ha attraversato dall’adolescenza in poi).
Tali ricorsi alla memoria, ma non alla nostalgia, allineano giustamente il suo lavoro ad altri scavi nell’adolescenza che ispirano così tanto della successiva arte “giovanile degli ultimi anni Ottanta, come pure l’arte più astratta di quel decennio. Fissando il proprio centro sui suburbs, sulla periferia, la memoria di quel luogo dell’infanzia diventa il contenuto ironico per la citazione formale dell’arte modernista corrispondente del periodo, laddove quest’ultima si considera comprendere, naturalmente, tanto Pillow Tolk quanto Vir Heroicus Sublimis. Già negli anni Sessanta, e da quell’archeologo del futuribile che è sempre stato, Robert Smithson aveva compreso che i suburbi e l’underground erano segretamente accomunati: “Suburbia significa letteralmente città sotto, scrisse in A Museum of Language in the Vicinity of Art. Di conseguenza fu in grado di collassare gli uni e l’altra nella “outdoor immateriality, l’immaterialità dell’aria aperta periferica delle fotografie Sunset Strip di Edward Ruscha e “i pallidi ma sgargianti interni dei film di Andy Warhol. Dalla conclusione entropica degli anni Sessanta, quando i bambini delle periferie attirarono l’attenzione dei media, Smithson previde che la distanza spaziale tra l’underground e le “periferie spettrali, gli spectral suburbs, sarebbe stata obliterata dalle “enormi distanze mentali della storia e del tempo. Quel tempo di riconciliazione e ripresa è qui.
Le periferie, quindi, non esprimono una mancanza che l’underground compensa, ma soltanto la necessaria distanza perché la si desideri. Eppure, con la perdita di quel l’underground originale e la realizzazione che non tornerà, l’arte compensa. Non appena un’immagine underground viene espulsa dall’orbita di interesse dell’arte perché si è fatta troppo visibile, l’arte cerca smaniosamente altri margini, anche quando immagine dopo immagine tutto viene ricondotto al mainstream. L’arte è costretta a cercare i margini in cerchi sempre più ampi o ristretti. In quest’ultimo caso, l’arte si concentra su un posto, cosicché nel tempo, per esempio, i travestiti e transessuali delle fotografie di Nan Goldin sostituiscono le checche dell’underground degli anni Sessanta che prosperavano nel film di Warhol. Oppure, nel primo caso, l’arte ci fa viaggiare verso l’esterno dalla criminalità senza nome della Factory di New York alla sottoclasse criminale bianca white trash del cuore e dei margini dell’America, che dominano in maniera così prominente le opere di Cady Noland, Richard Prince e Larry Clark. Che cosa è rappresentato in queste immagini di emarginati se non famiglie surrogate? Dalle checche di Goldin, alla famiglia Manson di Noland, alle motocicliste di Prince, ai tossici, e ai criminali di bassa lega di Clark nei suoi giorni a Tulsa, agli skateboarders dell’ultimo stile di Clark, il cerchio si chiude sui suburbs. Non sorprende dunque trovare qui la fonte di future identificazioni, nell’una o nell’altra immagine di “criminalità. In nessun luogo è più grande la paura che nel cuore delle periferie americane, paura che il nemico sia all’interno della famiglia e che i ragazzi non siano “a posto. L’emarginato è la ragazza o il ragazzo della porta accanto, pronto a cercare legami di parentela al di là della sua famiglia naturale. Così l’underground rimane un ideale in ciascuna di queste immagini, continuando a serbare il suo intimo legame con i desideri delle periferie.

Philip_Monk




Tag: arte (2)


Scrivi un commento